Home » Estinzione » La defaunazione è un punto di non ritorno

Anche la defaunazione è un punto di non ritorno (tipping point) del Pianeta. Perché contribuisce al collasso degli ecosistemi. Un esempio recentissimo è la fine del leopardo indocinese (Panthera pardus delacouri), oggi funzionalmente estinto. Spazzato via da Cambogia, Laos e Vietnam. Lo annuncia con un comunicato stampa PANTHERA, in collaborazione con WildCru Oxford (tra le squadre di esperti di grandi predatori più prestigiose del mondo). La defaunazione destabilizza gli ecosistemi, e le regioni tropicali sono quelle più a rischio, considerato il loro ruolo nel mantenere in equilibrio il clima della Terra.

Il surriscaldamento del Pianeta ha infatti, già di suo, reso gli ecosistemi instabili. Aumentando la frequenza e l’intensità di impatto degli “eventi erratici”, i fenomeni imprevedibili come gli eventi climatici estremi. Un gruppo di ricercatori ha appena pubblicato su NATURE SUSTAINABILITY uno studio che mette in guardia dalla tentazione di considerare singolarmente gli eventi di picco, per quanto drammatici. Quando si valuta la velocità di un probabile collasso ecosistemico “bisogna cogliere con molta attenzione la rete di feedback e gli effetti innescati da diversi fattori di cambiamento, che possono agire in modo antagonistico, ma anche in sinergia”. Rafforzandosi gli uni con gli altri. “Il collasso degli ecosistemi in Antropocene avviene prima di quanto sospettavamo ed è prodotto da driver multipli, più veloci, che immettono nel sistema un disturbo più marcato”. Secondo una stima globale accettata dagli autori “più di 20 tipi di ecosistemi hanno già superato alcuni punti di non ritorno” e “il 20%, su scala mondiale, è entrato in una fase di trasformazione”.

La defaunazione (perdita dei predatori di vertici, rarefazione delle specie di mammiferi frugivori e conseguente riduzione della specie vegetali della foresta) è uno di questi punti di non ritorno. Un ecosistema impoverito non lo si recupera in una manciata di mesi, e neppure di anni. “Le banche possono essere salvate perché i governi prestano capitale finanziario sotto forma di consistenti prestiti. Ma nessun governo può fornire in un battibaleno il capitale naturale indispensabile per recuperare un ecosistema ormai collassato”, scrivono gli autori su THE CONVERSATION. “Non è possibile ripristinare ecosistemi distrutti in un ragionevole lasso di tempo. Non ci sono prestiti ecologici. Per usare il linguaggio della finanza, non resta che incassare il colpo”.  

Vediamo da vicino come funzionano questi processi. “Per ogni sistema (ad esempio, l’Amazzonia), è possibile immaginare una sequenza causale il cui inizio è un singolo fattore, come la deforestazione. Al taglio degli alberi si somma però il cambiamento climatico, su cui insistono i disturbi recati da eventi estremi del tipo delle siccità e degli incendi. Arrivano allora i meccanismi di risposta (feedback) che rendono più potenti tutti gli stress ambientali già all’opera. Emerge così una sorta di vortice di cause, perché il sistema disturbato diventa ancora più ‘rumoroso’ mentre aumentano la variabilità climatica e i fenomeni parossistici. Nel peggiore degli scenari, il circolo vizioso accelera sotto la pressione di risposte ecologiche che, in sinergia con le attività umane, generano uno stress ancora più acuto”. 

Cosa succederà agli ecosistemi di Laos, Cambogia e Vietnam ora che tutti i predatori di vertice sono estinti? Un primo allarme era già stato lanciato da Panthera nel 2018.

Jan Kamler (WildCru Oxford), che ha dedicato anni allo studio di questo leopardo, un esperto di foreste indocinesi, raggiunto via mail, ha risposto così: “no, gli ecosistemi indocinesi non possono mantenere la loro funzionalità, perché si sono ormai estinti i predatori di vertice. I carnivori in cima alla catena alimentare sono specie-chiave, averli persi in Indocina significa che andrà distrutto il modo in cui quegli ecosistemi funzionano. Quello che potrebbe succedere è che questa estinzione si ripercuota attraverso l’ecosistema intero, causando squilibri e cambiamenti permanenti, anche qualora i grandi carnivori siano in qualche modo reintrodotti, in un ipotetico futuro”. 

Il leopardo indocinese era una sottospecie di Panthera pardus, una delle sette che un tempo popolavano buona parte dell’Asia. Una delle sue caratteristiche uniche era la colorazione del manto: gli individui completamente neri (melanismo) erano molto frequenti. Ne rimane qualcuno nella Malay Peninsula. La specie ha di fatto perso il 95% del suo habitat. In Laos l’ultimo avvistamento risale al 2004, in Vietnam ai primi anni Duemila. 

La fine del leopardo indocinese è documentata in uno studio appena uscito su BIOLOGICAL CONSERVATION. Sono stati raccolti dati in due aree protette in Cambogia (Cambodia’s Eastern Plains Landscape) su un arco di tempo dal 2009 al 2019. La popolazione di leopardi è scesa dell’82%. Nel 2021 non è più stato avvistato nessun leopardo. La responsabile per PANTHERA (Leopard Conservation), dottoressa Susana Rostro-Garcia, ha sottolineato che “negli ultimi anni gli sforzi per rafforzare la protezione legale della specie sono stati eccezionali,  eppure questo non è stato sufficiente” in un sito “di importanza prioritaria”.

Una questione gigantesca rimane la caccia per la carne selvatica, che sottrae prede vitali ai grandi felini. Un fenomeno ben documentato anche in Africa ormai, e contestassimo dalle organizzazioni ambientaliste di pressione politica dei Popoli Nativi. Il cosiddetto “bushmeat” è il “silent killer” dei predatori di vertice, ma non è forse anche una comoda scusa per non parlare apertamente di come il consumismo divora la Terra? 

La dichiarazione ufficiale di PANTHERA riferisce che in Indocina (Cambogia, Laos e Vietnam) “il bracconaggio è in una fase di intensità senza precedenti”, con “una cifra probabile di 12 milioni di trappole piazzate nelle foreste”. Ma “i risultati della nostra ricerca suggeriscono che gli strumenti legali (ad esempio rimuovere le trappole, pattugliare le foreste, aumentare il numero di ranger) da soli difficilmente possono funzionare come prevenzione dell’estirpazione del leopardo o di altri animali selvatici nello Eastern Plains Landscape. Qualcosa di simile è già successo in Laos con la tigre, dove i finanziamenti per inasprire la protezione legale si sono rivelati insufficienti per fermare la proliferazione delle trappole, e la fine della tigre. In Vietnam, i tentativi di salvare la saola (Pseudoryx nghetinhensis), criticamente minacciata, hanno portato a rimuovere più di 75mila trappole, eppure ne rimanevano così tante che la IUCN (2016) ha consigliato di avviare un programma di allevamento in cattività piuttosto che insistere su quella strada”. La conclusione è solo una: “questo approccio non tiene il passo con le dinamiche di mercato e con la complessità del commercio di specie selvatiche”. 

Il destino del leopardo indocinese, infatti, non può essere letto soltanto nel contesto del bracconaggio asiatico. Questa è l’ennesima, scontata, bruciante sconfitta di un sistema di protezione degli ecosistemi del Pianeta totalmente paralizzata. Completamente dipendente dai diktat della organizzazione-mondo dell’economia globale.

Per quanto rilevante, la caccia di frodo deve essere contestualizzata nella spirale di crescita altrettanto incontrollabile delle attività economiche, in una riflessione ben più ampia sulla defaunazione, che è il nostro presente ecologico.

“La crisi di defaunazione in Antropocene è una delle sindromi più allarmanti prodotte dagli esseri umani su tutti gli ecosistemi globali”, dichiararono gli autori di uno studio (“More losers than winners: investigating Anthropocene defaunation through the diversity of population trends”) che usa la defaunazione, e non l’estinzione conclamata, per descrivere lo scenario biologico attuale. “Il declino progressivo delle popolazioni nel corso del tempo precede l’estinzione e lascia una impronta demografica che dovrebbe accendere un segnale di allarme sulla traiettoria verso la scomparsa definitiva imboccata da una specie”. La situazione reale è molto peggiore di quanto emerga dalla Lista Rossa della IUCN (che comunque descrive nel dettaglio solo una percentuale piuttosto piccola delle specie viventi). “Secondo i nostri calcoli, le specie animali sono entrate in un processo di erosione globale. Il 48% almeno è in declino”. 

La defaunazione è anche, almeno in parte, una conseguenza dell’eccezionale spettro predatorio di Homo sapiens. Gli esseri umani cacciano infatti un numero di specie di vertebrati sproporzionatamente alto (13.000) rispetto a qualunque altro predatore.

Tutto questo mentre, in seno alla Convenzione Mondiale per la Biodiversità, riprende il braccio di ferro tra i Paesi poveri, ma ricchi di habitat, e i Paesi del Nord Globale (Unione Europea compresa) su come mobilitare davvero i soldi promessi alla COP15 di Montreal per proteggere le specie animali. In Canada le nazioni più svantaggiate, guidate dalle delegazioni africane, avevano chiesto un nuovo fondo di investimenti indipendente da quello attualmente in vigore della World Bank (Global Environmental Facility). I negoziati hanno portato solo a fissare in 30 miliardi di dollari all’anno fino al 2030 la cifra che i donatori dovrebbero allocare nel Sud Globale per conservare foreste e animali. In teoria, il nuovo Fondo, rimasto nell’orbita della World Bank, dovrebbe anche garantire altri 200 milioni di dollari entro dicembre di quest’anno, ma le ritrattazioni e i passi indietro sono già cominciati. E va detto anche che, secondo molti esperti, e a parere degli Stati africani, questa sarebbe solo una goccia nell’oceano. Servirebbero 700 miliardi di dollari entro il 2030.

È molto riduttivo, quindi, parlare del disastro una volta avvenuto. E anche inutile. Invece, “concentrarsi sul declino nelle popolazioni animali offre una misura molto più dinamica del pericolo”.

La defaunazione è una bussola per capire con più realismo perché la biodiversità è al collasso. Le cause dell’impoverimento ecologico del Pianeta stanno nelle condizioni storiche che avviluppano uomini e animali. La fine del leopardo indocinese ne è la dimostrazione. La legge nulla può, quando il motore economico reclama la sua razionalità intrinseca, che corrisponde alle sue logiche di funzionamento essenziali. La defaunazione ci racconta una storia molto diversa da quella rassicurante inscritta nelle retorica delle aree protette. L’emorragia di animali accompagna l’espansione dei mercati, non è un effetto collaterale. È uno strumento economico. È lento e irreversibile, perché segue lo stesso ritmo costante, inoppugnabile, metodico dell’espansione economica e culturale. 

Quindi commentare i dati sulla defaunazione sposta di livello la riflessione sulla sesta estinzione di massa. L’estinzione non è un evento puntiforme, ma un percorso storico. È un tempo molto lungo, dentro il quale giocano la partita del futuro la progettualità umana e le scelte politiche delle élite globali. Ciò su cui occorre pensare non è la drammaturgia della perdita irreversibile, ma la consistenza storica delle dinamiche di distruzione. All’interno di questi processi di disintegrazione delle popolazioni animali, che oggi, a causa della rapidità dei fenomeni innescati, si calcolano sui decenni, i segnali (proxy) che segnalano l’inizio dell’estinzione sono numerosi e diversificati. 

Quando si cerca di capire cosa sta accadendo, bisogna sempre guardarsi dal rischio di negare la complessità della crisi.

La premessa sottesa agli studi precedenti, quelli di Dirzo e Ceballos, è che per affrontare la crisi della biodiversità su tutti i fronti dobbiamo integrare gli indicatori di estinzione. L’attenzione focalizzata sulle categorie che indicano il livello di minaccia (della IUCN) può sottostimare la gravità della crisi”. 

Le ricerche sulle defaunazione sono coerenti anche con una altra prospettiva emergente: il modo in cui gli avvenimenti storici che hanno avuto un impatto sulle popolazioni animali si consolidano, influenzandone la genetica e, quindi,  aumentando il rischio di estinzione. È una nuova frontiera di studi descritta su SCIENCE (“The contribution of historical processes to contemporary extinction risk in placental mammals”). Lo sfondo storico della vita di una specie è importante tanto quanto le sue condizioni ecologiche attuali. 

C’è un nesso tra la densità demografica di una specie, i luoghi del suo insediamento geografico e il suo genoma. “La capacità di una specie di resistere nel tempo può essere influenzata dalla quantità, dal tipo e dalla distribuzione spaziale della sua diversità genomica: questo suggerisce un nesso tra la demografia storica e la resilienza”. Vale a dire che il numero di individui che componevano la specie nel passato ha influenzato, nel corso del tempo, la persistenza della specie: le sue chance di continuare ad occupare il suo habitat con un certo successo riproduttivo, rispondendo efficacemente alle pressioni ambientali. Quindi, “la dimensione storica di una certa popolazione consente di avanzare ipotesi sul rischio di estinzione”. 

Bisogna sapere il più possibile sugli habitat del passato in epoca non solo preistorica, ma soprattutto storica, all’inizio dell’Antropocene. La ricostruzione storica di come una specie ha attraversato i secoli ci aiuta a campire meglio perché oggi quella specie è vulnerabile. La storicità, quindi, non riguarda soltanto la civiltà umana. Ma anche le comunità animali.

“I dati dedotti dal sequenziamento del genoma potrebbero essere di aiuto nello stilare una lista di priorità di questo tipo, proprio perché il genoma contiene informazioni sulla demografia, la diversità genetica, la fitness, il potenziale adattativo”. Il contributo della storia per definire che cosa si intende per protezione della natura è immenso. Più entriamo nel futuro, più per noi umani il tempo profondo diventa essenziale. “Il passato è una lente attraverso cui guardare la conservazione della biodiversità su un Pianeta in dinamico cambiamento” , un principio-guida che mette in risonanza il presente dentro il passato, e vice versa. 

(Foto di copertina: Melanistic Indochinese leopard photographed in Salakpra Wildlife Sanctuary, Thailand, using a Panthera V4 camera trap. Salakpra Wildlife Sanctuary is part of the Western Forest Complex (WEFCOM), which together with the adjacent Southern Forest Complex in Myanmar, comprise the Northern Tenasserim Forest Complex. Credit: DNP/ ZSL/Panthera)

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