Categoria: Europa

Quando il Giurassico incontra l’Antropocene

Ci sono incontri inaspettati che acuiscono la prospettiva su un’epoca. Incontri che spuntano come elementi eccentrici di un tempo, il nostro, che pullula di meta-oggetti sempre più invischiati nella complessità ecologica dell’Antropocene.

In un incontro di questo tipo mi sono imbattuta ieri, a Milano, mentre passeggiavo in via San Marco. D’improvviso è entrato nel mio campo visivo un animale sconosciuto, sospeso ad un paio di metri dal bordo del marciapiedi, vivo, eppure immobile dietro il vetro di una delle vetrine di Cambi, rinomata casa d’aste la cui sede milanese sta, appunto, in via San Marco 22.

La lunga coda, sollevata in tensione per bilanciare il movimento del corpo, tradiva la natura della bestia. Un dinosauro lungo almeno un paio di metri, un animale ormai fatto soltanto di ossa, che in un batter d’occhio riusciva però a risucchiare il brulichio della strada nel vortice ipnotizzante del tempo profondo, il tempo della storia evolutiva del Pianeta. 

Simili effetti scenici sono di solito possibili nei musei di storia naturale. I reperti fossili, opportunamente esposti, trascinano i visitatori nel magnetismo del tempo geologico, che ci sfugge, ci seduce e ci fa anche paura. Qui c’era qualcosa d’altro. Lo scontro, lo stridore, lo shock del XXI secolo che recupera una specie estinta, la reinterpreta e le assegna così un nuovo ruolo. Le assegna una nuova bellezza. 

L’animale è un esemplare rarissimo di Othnielosaurus, un onnivoro proveniente dal famosissimo bacino Morrison del Wyoming, negli Stati Uniti, e risalente al Giurassico, mi spiega Jacopo Briano, esperto SFEP in Paleontologia e Storia Naturale per Cambi. Il bacino Morrison è un luogo privilegiato per i fossili dei grandi rettili del Giurassico. É uno strato sedimentario che copre una porzione dell’America del Nord dal Montana al New Mexico e che si formò tra i 148 e i 155 milioni di anni fa.

Il rettile sarà messo all’asta il prossimo 25 febbraio, insieme ad un nutrito gruppo di “mirabilia” , ossia di oggetti, alcuni contenenti anche animali come locuste, farfalle, uccelli, serpenti, spugne, denti, tutti inerenti alla scienze naturali. Una collezione di still life, di natura morta, di materiale organico inerte, silenzioso. 

Questo Othnielosaurus “è un esemplare molto raro, conosciamo la specie solo per resti frammentari. Era una specie che viveva in un ambiente lacustre. La sua particolarità è la struttura ossea interna dell’occhio che sosteneva il bulbo oculare. Questo conferisce al reperto una sorta di sguardo molto realistico. Lo scheletro è stato preparato da un azienda italiana di Trieste specializzata in ricostruzioni molto veritiere, con un effetto quasi drammatico”.

Un effetto dirompente, considerato che il solo guardare questo rettile dalla vetrina dà l’impressione che il Giurassico entri dentro l’Antropocene, costringendo due epoche lontanissime a fissarsi e a confrontarsi.

Ma chi è disposto a comprare uno scheletro di dinosauro e a metterselo in casa? “collezionisti privati, che collezionano anche arte contemporanea, e che sono proprio alla ricerca di opere ed oggetti che si compromettano a vicenda, che si mischino. È un mercato molto fiorente a Parigi e a Londra. Lo scorso ottobre, a Parigi, un collezionista ha comprato due dinosauri da disporre in mezzo a suppellettili artistiche in stile classico, nella sua villa”. 

Sembra quasi che chi è appassionato di arte contemporanea abbia un po’ anche il gusto delle Wunderkammer, cioè delle “camere delle meraviglie”, quelle collezioni di oggetti naturalistici che nel XVII secolo furono antesignane dei musei di storia naturale ed ebbero un ruolo nel crescente interesse scientifico per la catalogazione e lo studio della natura. “Sì, è così, ed è il motivo per cui abbiamo deciso di intitolare Mirabilia l’asta del 25 febbraio”.

“Da una decina d’anni ormai nel collezionismo stiamo vivendo una stagione di grande eclettismo. Chi compra è attento alle diverse sfumature del sapere, ma soprattutto l’oggetto artistico non viene percepito come separato dal reperto naturalistico. Si punta piuttosto a vedere l’arte come un completamento della natura e viceversa. È uno sguardo lunghissimo, sicuramente, che è esclusivo del collezionismo e non coinvolge i Musei scientifici di storia naturale, per ora”. 

Di certo, un dinosauro in vetrina nel centro storico di Milano, nel cuore di Brera, è un simbolo estetico non da poco del nostro XXI secolo. Siamo ormai arrivati ad un punto critico della nostra relazione con il tempo.

Benché ancora ipnotizzati dalla seduzione cronologica del progresso, i cambiamenti climatici e i processi di estinzione ci mostrano che gli equilibri ecologici del nostro Pianeta seguono ritmi e leggi intrinseche che neppure la tecnologia può dominare.

Eppure, abbiamo costruito attorno alle specie estinte da decine di milioni di anni una estetica del tempo, in cui il piacere della ricerca scientifica è una cosa sola con il sentimento di essere i dominatori finali e gli unici sopravvissuti di una epopea di dimensioni cosmiche.

Come ha mostrato Anselm Franke nel suo lavoro Animismus per la HKW di Berlino, ogni reperto è sempre una rappresentazione che risponde ad una esigenza di ordine e di gerarchia. L’uso delle specie estinte, nelle collezioni pubbliche e private, espone la vita biologica estinta a questo tipo di manipolazione culturale, tipica dell’Antropocene. L’epoca dell’uomo costringe ogni organismo ad essere human-reliant e questo trasforma, gioco forza, ogni organismo in un oggetto culturalmente esperibile. La cultura forza la natura a diventare natura mediata

Per questo è rilevante, su di un piano storico e anche antropologico, che i collezionisti d’arte collezionino anche la natura. È un passaggio ulteriore rispetto alla svolta scientifica avvenuta tra Seicento e Settecento, quando si passò dalla solo rappresentazione degli esseri viventi alla loro classificazione.

Oggi, la cultura estetica dell’Antropocene sembra recuperare al sapere una vocazione enciclopedica. Nel XXI secolo, bellezza e natura tendano a precipitare nella dimensione dell’artificiale. “È una tendenza di mercato che arriva in Italia dall’estero e che, direi, consiste molto nel mettere insieme il design con la paleontologia”.

“C’è una maturità in questo senso da parte dei collezionisti”, dice Matteo Cambi, Responsabile della casa d’aste. “Piuttosto che optare per, ad esempio, un Tiziano rarissimo, si sceglie un dinosauro alto tre metri. Ancora prima, e cioè qualche anno fa, era nato un altro abbinamento insolito: il frammento di scultura classica greco-romana al design contemporaneo. Questa sarà la nostra terza asta di oggetti naturalistici”.  

Potrebbe essere anche qualcosa di più, considerato il modo in cui Othnielosaurus è esposto. Una comune strada cittadina che diventa una esperienza dell’Antropocene. 

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Come immaginare un mondo migliore?

Fin dove possiamo spingerci per immaginare un mondo migliore? Un mondo più equo, con meno diseguaglianze sociali, un mondo migliore con una economia migliore, e cioè finalizzata a usare in modo sensato e razionale le risorse biologiche del Pianeta. Un mondo, insomma, in cui la causa delle persone sia la causa di animali e piante e non una esclusione preterintenzionale degli uni o degli altri.

Domanda tutt’altro che scontata, soprattutto ora che, nel nostro Paese, l’intera macchina propagandistica dei partiti consolidati, e dei grandi media, è impegnata a farci credere che un nuovo governo inaugurerà una nuova stagione, una stagione che in molti aspettavano da troppo tempo. La cosiddetta “transizione ecologica”. 

L’aspirazione alla giustizia non è mai un movente innocuo per le azioni umane, per il semplice motivo che, non di rado, il suo radicalismo intrinseco spinge a spostare l’asse dell’attivismo civile su quello della violenza e del sovvertimento a mano armata.

Un eccessivo altruismo, con motivazioni analoghe, può diventare una forma di autodistruzione. Nella serie BBC con Idris Elba, Luther, il protagonista, il detective John Luther, è un devoto altruista che pur di fare il bene a qualunque costo (“whatever it takes”) stringe una liason perversa con una criminale di prima qualità, Alice. Da perfetta serial killer, Alice conosce molto bene le ambiguità del cuore umano. “Ha fatto più vittime il tuo altruismo della mia vena omicida”, dice a un estenuato detective Luther. Ed era numericamente vero. 

Nel tentativo di accordare la realtà dei fatti ai nostri desideri di un mondo migliore si può scivolare nella condizione mentale di distorcere le evidenze per adattarle alle presunte necessità non più prorogabili.

Non c’è dubbio che serva una transizione ecologica, ma non è detto che affidarla alle mani di un banchiere e di una coalizione di capitalisti spinti sia una scorciatoia, un acceleratore di eventi storici, insomma una svolta, in velocità e qualità. 

E questo perché le trappole della speranza troppo spesso coincidono con le insidie dell’utopia, e con le astuzie della propaganda. Immaginare a tutti i costi un mondo migliore può avere un effetto opposto a quello desiderato. 

(Ascolta la seconda parte del post)
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Società incompetenti eleggono governi incompetenti

Il 2 febbraio 2021  il Governo inglese ha reso pubblica la Dasgupta Review, ossia un Rapporto di 600 pagine sul posto della biodiversità nella economia della civiltà globale del XXI secolo.

Società incolte eleggono incompetenti. E’ questa la lezione della formazione del Governo Draghi. Accade di rado che in una sola settimana si sommino avvenimenti e ricorrenze che danno la misura di una intera epoca. Possiamo dire di esserne appena stati testimoni.

Il 27 gennaio i media mainstream hanno tentato di infondere nuova vita nella rimembranza del genocidio nazista durante la Seconda Guerra Mondiale; il 2 febbraio Mario Draghi è stato chiamato a formare un nuovo Governo in conseguenza di ciò che, con fine intuito e intelligenza, Lucia Annunziata ha definito “il default della politica” e della comunità civile italiana.

E, sempre il 2 febbraio, il Governo inglese ha reso pubblica la Dasgupta Review, ossia un Rapporto di 600 pagine sul posto della biodiversità nella economia della civiltà globale del XXI secolo. Il filo rosso che collega questi post-it cronologici sulle nostre agende è la pazzesca e clamorosa sottovalutazione del passaggio storico inaugurato dall’esplosione dell’epidemia un anno fa. 

Non riusciamo ad essere consapevoli di ciò che accade attorno a noi. Da parecchio ormai. Sappiamo in che anno siamo, ma ignoriamo in quale epoca viviamo.

Convinti di abitare società ed economie dotate di una perfezione intrinseca, garantita da sistemi democratici in buona salute, usiamo infatti la memoria di un passato neanche troppo lontano (il periodo tra il 1933 e il 1945) per rafforzare i nostri pregiudizi sulla giustezza e resilienza della civiltà umana, e di quella occidentale in particolare.

Il  27 gennaio è diventato un giorno di autocompiacimento collettivo, che anziché stimolare la riflessione storica ne fa mercimonio, con l’obiettivo propagandistico di svilire e snellire sempre più robustamente proprio quella capacità di analisi storica di cui c’è enorme bisogno in campo politico. 

Del resto, un’altra data fresca di calendario, il 6 gennaio, aveva tentato di dirci qualcosa di aggiornato sullo stato reale delle cose. Per definire il pericolo di una insurrezione armata di suprematisti bianchi, i giornali americani hanno pubblicato, e talvolta ripubblicato, lunghi essay ed interviste ad un eminente storico, il professor Timothy Snyder di Yale. Il suo saggio per il New York Times ha un titolo inquietante: The American Abyss.

Ebbene, Snyder è uno storico del nazismo. Il motivo per cui Snyder ha dimostrato di essere autorevole, a partire dal 2017, nell’analizzare il trumpismo, non è solo la sua familiarità con le dinamiche della propaganda politica, l’implosione del parlamentarismo e la malleabilità delle ideologie razziste in periodi di crisi sociale.

Snyder è un umanista di enorme cultura, che discute degli schemi ricorrenti nell’agire storico, con una particolare attenzione agli schemi culturali. E lo schema su cui ha scritto con più fervore negli ultimi 4 anni è la dimensione collettiva della verità in questo nostro XXI secolo.

Cosa è, oggi, la verità? Le persone cercano la verità quando prendono in mano il loro iPhone? Quale atteggiamento psicologico verso la verità motiva una condotta politica consapevole?

Il nostro atteggiamento verso la catastrofe ecologica non solo svela la nostra somiglianza con i simpatizzanti di Trump, ma rivela anche la poco confortante familiarità con il modo di pensare degli europei di nazionalità tedesca che scelsero Hitler. Siamo, oggi come allora, completamente in balia di un “reality shift”, che rende l’assunzione di principio del Gruppo di Stanford – “numbers don’t lie”, i numeri non mentono – socialmente disattivato. 

L’incompetenza politica coincide infatti, non c’è dubbio, con l’incompetenza sociale. Se guardiamo all’Italia, il 2 febbraio esprime con la massima forza un fallimento sociale condiviso. Pessimi cittadini si danno pessimi governanti. Perché non li sanno scegliere. E non li sanno scegliere perché hanno scarsa intimità con la brutalità degli eventi, in cui vagano a tentoni.  

Secondo il professor Snyder, “essere un cittadino significa essere coinvolto nel mondo, con le altre persone e anche con la verità. Ti sottometti alla tirannia quando rinunci alla differenza tra ciò che vuoi sentirti dire e ciò che effettivamente è (…) la post-verità è l’anticamera del fascismo (“pre-fascism”), ossia: abbandonare i fatti equivale ad abbandonare la libertà”. 

L’analisi di Snyder è centrata sulla responsabilità di vivere consapevolmente una vita da cittadino, ben piantata nei fatti e non nei desideri o nelle narrative rassicuranti: “la storia conta, è dalla storia già consumatasi che dobbiamo partire e non dai miti confortanti ed elusivi che magari ci siamo formati sul passato. A questo proposito, quella che io chiamo una politica della inevitabilità è una idea ampiamente diffusa negli Stati Uniti sin dal 1989″.

“Secondo questa visione delle cose il passato è disordinato, violento e caotico, ma siamo inesorabilmente in cammino verso un mondo più libero, più sicuro e più progressista. Ci sarà più globalizzazione, più vita, più prosperità, più democrazia. Ma tutto questo è semplicemente non vero”.

“Nessuna grande narrativa o storia grandiosa di questo tipo è mai vera, e il fatto che ciò nonostante queste narrative abbiano un potere di accecamento pone esattamente il tipo di pericolo molto reale che torni il genere di cose che, si dice, non potranno più accadere”.

È evidente che la certezza di un miglioramento continuo ormai scritto nel destino non può arrivare a concepire la gravità della crisi ecologica. Non solo la ignora. La considera proprio impossibile. Questa disposizione spirituale delle società occidentali, non solo americana, è stata spericolatamente sottovalutata dai movimenti ambientalisti tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. 

Una visione politica di questo tipo è molto pericolosa, quando una società civile attraversa una catastrofe ecologica. Come ad esempio una epidemia da zoonosi. Sotto la cappa protettiva della politica della inevitabilità, la crisi di governo, proprio perché è così dannatamente grave, non può perdere tempo con valutazioni di sistema su clima, biodiversità ed estinzione.

L’epidemia è un interludio, un intermezzo, una parentesi. Risolverla con successo ci servirà per confermare che disponiamo dei mezzi e dei poteri per rimanere in controllo della situazione. Il mito del progresso è ancora oggi un cemento a presa rapida nell’opera di costruzione del consenso sul mantenimento dello status quo. 

Questo modo di pensare non è alieno al fascismo, come spiega Snyder: “siamo in una relazione di lungo periodo con il disastro. La  domanda è se ne usciremo in tempo. Direi che ci sono due passaggi da considerare qui. L’intera idea sui fatti alternativi e la post-fattualità, con cui ci confrontiamo oggi, era abbastanza familiare agli anni Venti del Novecento. È una visione molto simile alla premessa centrale della visione fascista. Questo è molto importante, perché senza una adesione ai fatti viene meno il ruolo della legge. E rimosso il ruolo della legge non esiste più la democrazia”.

Il downplaying compiaciuto del disastro ecologico tratta le evidenze scientifiche alla maniera fascista. Le ignora, perché alla realtà preferisce sostituire una narrativa rassicurante e deresponsabilizzante. Snyder: “quando la gente vuole farla finita con la democrazia e la legge lo fa perché viene proposta una visione alternativa. La quotidianità è noiosa, si dice. Dimenticati dei fatti. Gli esperti sono noiosi. Aderiamo invece ad un mondo fittizio, ma decisamente più attraente”.

Ma quando un individuo cede nell’impegno a capire che cosa accade attorno a lui “si apre la strada per il grande sogno e per la fine della libertà nel suo significato più pieno. I sociologi sostengono che la fede (belief) nella verità è il fondamento dell’autorità. Senza questa fiducia, senza rispetto per i giornalisti e per i politici, una società non può stare in piedi. Nessuno si fida di nessuno, e la società rimane aperta al risentimento e alla propaganda, e di certo anche ai demagoghi”. 

Anche Yanis Varoufakis fa una analisi simile a quella di Snyder. Secondo Varoufakis, che si concentra sulla struttura economica delle nostre società attuali, la tecno-economia globale ha plasmato sistemi politici autoreferenziali. La capacità di scelta, la libertà di azione e il pensiero critico non hanno più cittadinanza in un ecosistema economico in cui il potere economico replica se stesso in totale distacco dalla realtà umana del Pianeta.

Nella voragine di una società civile che non è più tale la pragmatica del disastro ecologico cade nel silenzio, pur contenendo essa stessa forti stimoli politici. Così è andata il 2 febbraio anche con la Dasgupta Review – The Economics of Biodiversity, commissionata nel marzo 2019 dal Ministero delle Finanze e del Tesoro del Governo Inglese e condotta da Sir Partha Dasgupta, accademico di Stanford e Cambridge.

Dasgupta è un luminare di economia della povertà e della nutrizione, di economia ambientale e di economia della conoscenza. La Dasgupta Review ha lo stesso peso specifico del fu Rapporto Stern sui cambiamenti climatici del 2006.

Anche questa Review, infatti, aveva lo scopo di definire i benefici economici della protezione della biodiversità in funzione del danno già inflitto al Pianeta e dei rischi di un peggioramento. La Review, infine, avrebbe dovuto essere presentata al Summit di Kunming, in Cina, fissato ad ottobre 2020 e saltato a causa della pandemia.

A prescindere quindi da valutazioni nel merito (voci di critica e dissenso non sono mancate, martedì scorso, neppure nel mondo ambientalista) la Dasgupta Review mette in chiaro, così come già era accaduto per il cambiamento climatico, che non può esistere economia senza biodiversità. 

Jason Hickel, ad esempio, economista e antropologo di fama esperto di diseguaglianze sociali ed ecologia, vicino ad Extinction Rebellion, ha espresso molte perplessità, sostenendo che la Review non riesce a liberarsi dello schema ideologico “pagare per proteggere la natura”, che contiene una impostazione ultra liberale suicida.

Kate Rawort dello Environmental Change Institute di Oxford ha pesantemente criticato David Attenbourough, che è parso entusiasta di un approccio giudicato squisitamente economico: 

Di fatto, la Review ruota attorno ad una valutazione nient’affatto scontata della biodiversità come patrimonio esistenziale dell’umanità e solo per questo di valore economico. Non è tutto quello che ci saremmo aspettati, ma è nella sostanza un programma politico che dovrebbe figurare nei talk show sulla consultazioni del Governo Draghi. 

I principi di fondo della Review possono essere considerati come la vera svolta nel modo in cui la attuale governance mondiale sulla biodiversità definisce i problemi del XXI secolo, una svolta che è cominciata con il Rapporto IPBES del 2019.

Questi principi devono ora entrare anche nell’agenda politica delle nazioni occidentali e dell’Unione Europea: “Mentre la maggior parte dei modelli economici basati sulla crescita e lo sviluppo riconoscono che la natura è capace soltanto di produrre un flusso finito di beni e di servizi, il focus della Review è stato orientato a mostrare che il progresso tecnologico può, almeno di principio, superare questo limite di esaurimento. Ma immaginare questo scenario equivale, in definitiva, a considerare l’umanità come esterna alla Natura”.

“La soluzione comincia, invece, con il comprendere e con l’accettare una semplice verità: le nostre economie sono cooptate dalla natura (embedded) e non esterne ad essa”. 

Il cambiamento “trasformativo” di cui stiamo parlando, termine questo già impiegato dall’IPBES, richiede “il livello di ambizione, coordinazione e volontà politica del Piano Marshall, e forse anche di più”. La World Bank, qualche giorno fa, ha pubblicato i dati sulla povertà globale dopo il primo anno della pandemia: nel 2020 sono scivolate nella povertà estrema tra gli 88 e i 115 milioni di persone; tra i 119 e i 124 milioni di persone sono diventate, invece, povere.

Gli indicatori convergono nel disegnare uno scenario internazionale che, se pur con macro-differenze enormi, mostra l’inarrestabile disintegrazione della fisiologia occupazionale a capitalismo avanzato. E quindi l’urgenza di un Piano Marshall, non solo in Europa, ma senz’altro anche in Europa. 

Se la biodiversità produce economia, nel senso che, per mantenersi, le forme di vita elaborano, processano e metabolizzano le risorse organiche e naturali a loro disposizione, allora il capitale umano, la natura stessa e la cultura della nostra specie sono “asset”, ossia valori contabilizzabili su scale di misurazione qualitativamente differenti, che però concorrono a costruire, tutte insieme, il patrimonio biologico. 

Data questa realtà di fondo, la Review puntualizza che biodiversità significa diversità biologica e cioè ricchezza di forme di vita e biomi: “la biodiversità rende la natura produttiva, resiliente e adattabile. Proprio come la diversificazione degli asset in un portfolio finanziario riduce il rischio e il margine di incertezza, nello stesso modo un portfolio di asset naturali aumenta la resilienza della natura agli shock, riducendo il rischio di perdere i servizi forniti dalla natura”.

“Ridurre la biodiversità mette quindi in sofferenza l’umanità”. Questo vuol dire preservare la funzionalità di un ecosistema, ossia il numero di specie vegetali e animali che lo popolano e quindi la capacità di questo stesso ecosistema di “rispondere” al rischio, ad esempio allo stress climatico. 

Un punto molto importante della Review è la valutazione complessiva sulle responsabilità di ciascuno di noi, in quanto soggetti politici delle società civili che negli ultimi 30 anni non hanno prodotto un cambio di passo nell’economia e nella cultura.

“Abbiamo fallito collettivamente nell’amministrare il nostro portfolio di asset globali in modo sostenibile. Le stime mostrano che tra il 1992 e il 2014 il capitale prodotto pro capite è raddoppiato e il capitale umano pro capite è cresciuto del 13%, ma lo stock di capitale naturale a disposizione di ciascuno è declinato di quasi il 40%”. Questo è accaduto perché abbiamo avvalorato un sistema economico e finanziario in cui “il valore reale dei vari beni e dei servizi forniti dalla natura non è rispecchiato nei prezzi di mercato”. 

Questa “distorsione” è stata politica nella misura in cui è stata appannaggio di governi e istituzioni regolarmente eletti: “questo non è solo un fallimento dei mercati: è un ben più esteso fallimento istituzionale. Molte delle nostre istituzioni si sono dimostrare inadeguate (unfit) a gestire le esternalità (le esternalità sono i veri costi, occulti, dello sfruttamento di una risorsa come gli stock ittici, il legname delle foreste, i minerali, NDR)”.

“Quasi dappertutto i governi peggiorano il problema pagando gente più per distruggere la natura che per proteggerla e per mettere in cima alle priorità attività economicamente insostenibili. Una stima conservativa dell’ammontare complessivo, su scala globale, dei sussidi che danneggiano la natura è dell’ordine dei 4-6 trilioni di dollari americani all’anno. Non disponiamo degli strumenti istituzionali per proteggere i beni pubblici, come gli oceani e le foreste tropicali umide del mondo”.

Un programma politico coerente con il XXI secolo deve quindi essere consapevole che “non possiamo fare affidamento solo sulla tecnologia: gli schemi di consumo e di produzione dovranno essere fondamentalmente ristrutturati”.

Primo: “far entrare la natura nei processi decisionali economici e finanziari alla stessa stregua di edilizia, macchine, strade” e quindi “modificare il modo in cui misuriamo il successo economico. Il Prodotto Interno Lordo non include gli asset ambientali e va riformato. 

Secondo: la ricchezza deve essere valutata in base alla sua capacità di tener conto degli asset naturali e quindi del suo impatto, positivo o negativo, sulle prossime generazioni e il loro benessere. 

Terzo: ristrutturare i meccanismi di finanziamento della protezione della natura selvaggia, un punto che era già stato discusso l’estate scorsa, in altra sede, da un team di ecologi che lavorano in Africa (Il Covid potrebbe essere la tempesta perfetta per l’Africa).

“Ci sono due grandi tipologie di casi da esaminare. Per quegli ecosistemi (biomi, nello specifico) che si trovano all’interno di confini nazionali (ad esempio le foreste tropicali), dovrebbe essere esplorato un sistema di pagamento per la protezione alle nazioni che posseggono questi biomi”. 

“Invece, per gli ecosistemi che sono al di fuori dei confini nazionali (ad esempio gli oceani al di fuori di zone esclusivamente economiche) bisognerebbe instituire tasse o formule di usufrutto (rent) per il loro uso (traffico oceanico su nave o attività di pesca) e proibirne l’uso in aree ecologicamente sensibili”. Il flusso di revenue così generato potrebbe sostenere la governance internazionale e generare un circolo virtuoso di ulteriori finanziamenti. 

E infine: spingere su una riduzione della popolazione mondiale attraverso campagne vastissime di uso di anticoncezionali che “accelerino la transizione demografica”. Finora, questi programmi sono stati sotto-finanziati.

È intuitivo che per mettere in piedi governi di tale caratura serve un elettorato consapevole. Un elettorato, appunto, competente. Una economia moderna ( e cioè coerente con la sua epoca) non dipende solo da una biodiversità ormai compromessa, che quindi non può essere esclusa dai giochi. Dipende anche dalla cultura di coloro che scelgono a chi affidare la gestione del disastro.

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La scuola non è indispensabile

Ragazzini tedeschi a Berlino nell'estate del '45. In tempi eccezionali il principio di realtà dovrebbe prevalere. Le proteste degli studenti per ritornare a scuola nonostante l'epidemia rampante dimostrano invece l'insufficienza psicologica di una generazione cresciuta con aspettative irrealistiche e grandiose, incompatibili con lo stato reale del Pianeta.
Ragazzini berlinesi nell’estate del 1945

La scuola non è indispensabile. Non sempre, quanto meno. E non lo è soprattutto in tempi di crisi biologica. Il conato volontaristico degli studenti che pretendono di tornare in aula a qualunque costo non esprime nulla se non la totale incomprensione, da parte loro, della situazione storica in cui si trovano.

Questi studenti, che, intervistati, commettono crassi e insopportabili errori di grammatica e sintassi, soffrono non solo di un insufficiente principio di realtà. Patiscono anche le distorsioni di un insoddisfacente principio di realtà.

Per quanto auspicabile, frequentare la scuola non è sempre possibile. Ci sono situazioni straordinarie in cui le lezioni non possono tenersi a causa, ad esempio, della guerra. Si va avanti fin tanto che i bombardamenti lo permettono, e poi ci si rassegna. E si sopporta, con il cuore gonfio di angoscia.

Diventa indispensabile attingere ad altre fonti di apprendimento, e di sopravvivenza. Si impara a fare una minestra di patate, si impara a spalare le macerie, si impara a cercare, giù nel profondo, qualche pensiero di resistenza e di pace che tenga vivo l’essere umano.

Ma, da un anno, è entrato nel novero delle situazioni straordinarie un tipo di conflitto totale che gli studenti non sono stati educati a considerare, meditare e contemplare. Ossia la pandemia, che è l’ultimo, raccapricciante sintomo della crisi biologica globale, che è solo un altro nome con cui descrivere l’Antropocene. 

Durante una pandemia le regole del comune sentire saltano. E non perché c’è il lockdown o sono chiusi i ristoranti. Le certezze si sbriciolano perché è improvvisamente chiaro che sono inutili, insulse e insufficienti.

Ci siamo svegliati dal sonno del giusto, ci siamo accorti che sul Pianeta accade qualcosa e nessuno, ahimè, lo aveva detto agli studenti. Non lo hanno fatto i genitori, non lo hanno fatto gli insegnanti e non lo ha fatto neppure la politica. 

Ecco da dove viene fuori, allora, quella notevole e inedita forma di paralisi emotiva che io chiamo “insoddisfacente principio di realtà”. La realtà si rivela molto più dura di quanto prospettato dai mercanti di sogni (influencer, politici, profeti della crescita).

E di fronte a questo dismagamento la coscienza drogata da aspettative madornali e immotivate non reagisce con un esame delle cose finalmente realistico, no; la coscienza si rivolta contro se stessa e continua a pretendere, a chiedere, a invocare. Non siamo noi comuni mortali a doverci adeguare alla realtà, è la realtà del XXI secolo che non si confà ai nostri desideri. Non ci soddisfa. 

I giovani di oggi sono radicalmente diversi dal giovane protagonista del capolavoro di Jacob Wasserman, Il caso Maurizius. Etzel Andergast a tredici anni è pronto a sfidare il mondo intero, per dare giustizia ad un uomo che non ha mai visto. Studia il greco, studia Goethe. Pensa, e proprio perché pensa contesta suo padre.

Joachim Fest, il valente storico tedesco del Nazismo, era un ragazzo durante gli anni del consolidamento del potere di Hitler. Viveva a Berlino, con genitori che non hanno mai preso la tessera del partito.

Nel suo libro La disfatta svolge una riflessione di sensazionale spessore sulle motivazioni della gente comune a lasciarsi scivolare nella dittatura: “le adesioni che Hitler e il suo movimento registrarono furono, più di ogni altra cosa, uno scriteriato e precipitoso modo di prendere le distanze dall’infelice Repubblica di Weimar, dallo Stato ‘con il berretto da pagliaccio’, come lo definì uno dei suoi disperati difensori: spintonato dall’esterno e, all’interno, oggetto delle irrisioni di troppi avversari uniti solo dal disprezzo e dall’odio per le istituzioni esistenti”.

“Questo è uno dei fattori che hanno impedito di capire la profonda cesura morale che molti odierni osservatori, conoscendo i successivi orrori del regime, colgono nell’anno 1933. I contemporanei non la percepirono se non raramente. Ma per una precisa comprensione degli avvenimenti va anche considerato che quasi nessuno di coloro che vissero quei momenti aveva un concetto anche solo approssimativamente chiaro e preciso della dittatura totalitaria che si stava profilando”. 

Ecco, il punto è esattamente questo. Se si comprende per bene in quale diavolo di situazione ci si trova, quanto meno si rimane sbigottiti e impotenti e immobili. Ma se il quadro complessivo delle cose sfugge, si mettono in atto comportamenti inadeguati e assopiti. 

L’insoddisfacente principio di realtà è una caratteristica storica dell’Antropocene. Ci siamo abituati a vivacchiare ossequiando i nostri desideri inconsci (sicurezza, comfort, accesso illimitato all risorse biologiche), perdendo completamente di vista le origini della nostra realtà storica attuale. 

Moltissimi ragazzi, e moltissime ragazze, vivono precisamente in questo modo. In una dorata apatia.

Lo scollamento dalla realtà è un fattore di consenso politico tanto a destra quanto a sinistra. E’ ormai una tabe psicologica collettiva.

Concentrandosi sui suoi effetti politici, l’insoddisfacente principio di realtà lo aveva analizzato con la consueta maestria nel 2017 – riprendendolo il 20 gennaio scorso in prima pagina –  Ta Nehisi Coates, su THE ATLANTIC. Ta Nehisi decripta il fenomeno Trump (il titolo del pezzo era The first White President), che contiene un evidente “reality drift”, una deriva della realtà e dalla realtà.

Da sempre la presa di distanza dalla realtà è uno strumento di affermazione politica, quando cade nelle giuste mani: “Nelle ultime due settimane mi sono trovato a pensare al libro di storia medievale di Barbara Tuchman, a Distant Mirror. Il libro è un capolavoro di una lettura storica anti-romantica, di uno sguardo freddo su come generazioni di aristocratici e di loro fedeli scatenarono le guerre più lunghe mai registrate nella storia umana, tutte sotto la pretesa del volere divino”. 

“Nella sua introduzione, la Tuchman esamina l’ideale cavalleresco e scopre che, sotto la poesia e il codice d’onore, c’era poco più che mito e delusione. I cavalieri medievali ‘si supponeva che, in linea teorica, difendessero la fede, fossero i sostenitori della giustizia e i campioni degli oppressi’, scrive Tuchman”.

“‘Di fatto, erano loro stessi gli oppressori e, a partire dal XIV secolo, la violenza e la mancanza di legge degli uomini della spada divenne uno dei maggiori fattori di disordine sociale”. Per Ta Nehisi questa deformazione della propria missione ideale proveniva dalla struttura stessa del potere: “quando hai abbastanza potere, la realtà puoi anche tenerla al palo”.

“E continuare, quindi, a sentirti o una vittima o un benefattore dell’umanità per volontà divina. E però la realtà continua ad esistere, nuda e cruda: ‘quando lo iato tra ideale e reale diventa troppo grande, scrive la Tuchman, il sistema si spacca in due‘.

“Possiamo sperare che questo momento sia arrivato per l’America”, conclude Ta-Nehisi, “che alla fine sia esploso sotto i nostri occhi, che vedono come i poliziotti guardavano la bandiera confederata durante l’insurrezione del 6 gennaio, la loro canzonatura di George Floyd e la gentilezza invece mostrata dalla polizia del Campidoglio. Tutto questo non è un caso. Direi di più. Il trumpismo non comincia con Trump”. 

Quel che mi sembra essenziale nel ragionamento di Ta Nehisi, e utile ben al di fuori dei confini americani, è che la società americana sembra esseri accorta di botto, in una sorta di evento epifanico, di qualcosa che, invece, era già esposto, vivido, scarnificato.

Il genere di pericolo sociale personificato da Trump poggia infatti sulle colpe storiche della nazione della nazione, che negli ultimi decenni non hanno fatto che replicare se stesse, riproporsi e rigenerarsi. 

“Non basta constatare ciò che appare ovvio in Donald Trump: che egli è un bianco che non sarebbe mai diventato presidente se non fosse stato bianco. Con una sola eccezione, i predecessori di Trump si sono fatti strada nel più alto ufficio attraverso l’esercizio passivo del potere bianco, l’insanguinato patrimonio ereditato che non può assicurare in automatico che ogni evento sia possibile, ma di certo dà il vento in poppa per la maggior parte di queste felici circostanze”.

“Il furto della terra e il saccheggio di vite umane hanno pulito il terreno ai bisnonni di Trump e tagliato la strada ad altri. Una volta in gioco, questi uomini divennero soldati, statisti e accademici; frequentarono le corti, a Parigi; furono presidi a Princeton; avanzarono nelle terre selvagge (wilderness) e alla fine fin dentro la Casa Bianca (…) Donald Trump è il presidente che, più di ogni altro, ha reso questa spaventosa eredità esplicita”. 

Non illudiamoci che i nostri affari non abbiano nulla a che vedere con Trump. Non illudiamoci che Hitler sia roba passata, e con lui i sentimenti e le frustrazioni mitologiche di milioni di tedeschi. Non inganniamo i giovani, che disinteressandosi alla realtà la realtà li premierà.

Il fatto che un singolo episodio – l’elezione di un tycoon razzista o l’esplosione di una pandemia – appaia come una epifania, una eccezione, una distorsione dalla norma è una allucinazione collettiva, una forma di auto-assoluzione con cui si tiene lontana dalla coscienza la propria responsabilità storica.

La verità sta altrove, non nella sfortuna improvvisa o nella straordinarietà di un evento unico nel suo genere, bensì nella profondità storica del corso del mondo, che ha spinto a galla quell’avvenimento. 

Se ai nostri studenti fosse stato insegnato, e mostrato, che viviamo nel XXI secolo, in pieno Antropocene, avrebbero compreso che facciamo esperienza di una catastrofe globale e che in tempi di catastrofe non si fanno i capricci, si trovano strade alternative per rimanere umani, sopravvivere e articolare risposte adattative fuori scala.

E cioè intelligenti, astute, inusitate e brillanti. Ci sono intere biblioteche da leggere, e da cui imparare che cosa è la vita. Per poi inventarne una nuova seria, vitale e rivoluzionaria. Mettersi a leggere libri è la risposta matura alla sospensione delle lezioni. 

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Apre lo Humboldt Forum, Berlino capitale d’Europa

Il primo museo europeo dell'Antropocene tra arte, colonialismo e storia occidentale. Apre lo Humboldt Forum, Berlino capitale d'Europa.
(Photo Credit: Humboldt Forum Press Office)

Il 16 dicembre sarà ricordato negli annali del vecchio continente come il giorno dell’inaugurazione del primo museo europeo dell’Antropocene. Un museo tra arte e colonialismo. Apre lo Humboldt Forum, ed è quindi Berlino la capitale d’Europa del XXI secolo. Lo Humboldt Forum della capitale tedesca sarà il luogo in cui contemplare gli effetti del collasso ecologico e le premesse coloniali dell’attuale assetto mondiale. Sui popoli, sulle foreste, sulle faune del Pianeta.

Un progetto nato quasi venti anni fa, emerso da polemiche politiche di ogni tipo (e nella ferma opposizione della comunità africana di Berlino) che tuttavia raccoglie e sintetizza le istanze culturali più controverse e significative del nostro secolo europeo. O meglio, post europeo. Una serata glamour, con il beneplacito delle istituzioni, marca il giorno zero di una impresa culturale senza precedenti.

Alle sette in punto di sera, infatti, in una diretta streaming worldwide, a metà tra una conferenza stampa e uno spettacolo di lussureggiante coreografia tecnologica, affidata al noto presentatore della ZDF Mitri Sirin in completo sartoriale verde scuro, è stato aperto ufficialmente lo Humboldt Forum di Berlino.

Il primo museo di questo tipo in Europa (Ambientalista, Etnologico, Ecologico, Storico), che, per quanto abbiamo visto mercoledì, sarà un esperimento aperto, e imprevedibile, su cosa è una collezione heritage oggi e su come costruire un linguaggio totalmente avventuroso sulla civiltà umana, geniale distruttrice del Pianeta Terra. 

Lo Humboldt sarà infatti luogo di commemorazione di delitti coloniali, un tribunale di denuncia dello schema di estinzione delle forme viventi animali e vegetali inscritto nella cavalcata trionfale della Modernità, una collezione dei simboli cangianti del genio umano chiamati arte.

Nessuna mostra qui dentro sarà solo una mostra a tema, anzi, ogni mostra sarà un connettore, un medium, per la comprensione e la contemplazione della totalità dell’esperienza dei Sapiens nelle geografie del Pianeta. 

Le origini dello Humboldt Forum

Personalmente, la prima impressione è che lo Humboldt sia un punto di sutura, e di crisi, che proprio nelle sue molteplici e insanabili contraddizioni riesce ad esprimere senza riserve la complessità del nostro secolo e la sua pericolosità forse fatale.

Una pericolosità che sta anche nella bellezza mozzafiato di un edificio i cui soffitti sono alti 40 metri, ridotto in polvere o poco più dalle bombe alleate del 1943-45, raso al suolo il 7 settembre del 1950 da Walter Ulbricht, Staatchef della DDR, in quanto “simbolo dell’assolutismo prussiano” e rinato sotto mentite spoglie nel 1976 come “palazzo della Repubblica Comunista”. 

Qui una galleria fotografica splendida dello Schloss dal 1900 al cantiere del 2012. 

Ora il palazzo del Kaiser, in tutto il suo splendore barocco, è tornato. In nome di una non temuta e non taciuta aspirazione alla supremazia in Europa, che Berlino, nel tono compiaciuto e sicuro della conduzione della serata, sbatte in faccia al resto del mondo proponendo, qui, una riconciliazione epocale sotto il segno di una potenza economica meritata e riconquistata. 

Un “cosmografo”, e cioè una installazione a moduli geometrici alta fino al soffitto, si è illuminata dei volti di tutte le persone collegate dal loro pc in diretta e poi, nel corso della serata, delle componenti iconografiche del museo.

Le statue ottocentesche, ancora nere delle bombe, recuperate e restaurate; i reperti medievali dell’antico monastero che sta nelle fondamenta dello Schloss, i capolavori dell’arte asiatica già disposti al primo piano.

Un sorta di passage alla Walter Benjamin, in cui diverse epoche sfumano in un tempo sospeso, il nostro, un tempo di transizione e di rischio, che ha sbriciolato la nostra idea di futuro. 

Un posto “di cui c’è urgente bisogno, che interroga direttamente le nostre società”, ha detto Hartmut Dorgerloh, il Sovrintendente Generale e Presidente del Consiglio Direttivo della Stiftung Humboldt Forum im Berliner Schloss, che è anche uno storico dell’arte e dal 2004 professore onorario alla Humboldt-Universität zu Berlin.

Sulla stessa linea Monica Gruetters, il Ministero tedesco della Cultura, che ha insistito sul fatto che lo Humboldt “è un patrimonio per il mondo, una cultura per l’umanità intera” proprio perché dimostra che noi Europei “non siamo al centro del mondo”, ma siamo in un mondo.

Le discussioni, anche incattivite, attorno ad una operazione di questo tipo valorizzano, secondo la Gruetters, la vocazione primaria dello Humboldt, che non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza della riflessione dell’Europa su stessa.

La polemica sull’arte africana

Nessuno vuole negare infatti che la polemica sulla restituzione delle opere africane non si è mai placata. l’Archeologo George Okello Abungu, accademico di Cambridge e direttore generale dei musei del Kenya, ha detto in diretta che “se anche la questione della storia è molto difficile in questo luogo e su questi temi, be’, non c’è posto migliore per affrontare questa complessità”. 

Lo spostamento delle collezioni etnologiche comincerà l’anno prossimo: entro la tarda estate e poi sul finire del 2021 la prima parte dei reperti ed all’inizio del 2022 la seconda parte.

È stato ricordato in diretta che “la natura sta collassando davanti ai nostri occhi” e che lo Humboldt è il museo in cui prenderne coscienza.

Senza una prospettiva temporale, infatti, è impossibile capire che cosa ci sta accadendo. I volti delle statue annerite degli dei antichi Mercurio, Armonia e Meleagro che un secolo fa decoravano la facciata dell’edificio spuntano sul cosmografo come volti conosciuti, familiari, congeniti al nostro spirito stanco e assopito.

Non sono i volti di civiltà finite o di epoche consunte, sono i nostri stessi volti. È nella continuità, che annichilisce e decompone l’organico, preservando l’idea, che noi Sapiens troviamo le basi della nostra etica.

Ricostruire è dunque pensare. Vale nella scienza, e vale nella antropologia estetica di questo XXI secolo, in cui vediamo con lo stesso sguardo, cogliendone le somiglianze, i volti scolpiti nella pietra, nel legno, nel marmo, nell’avorio e nel bronzo, o dipinti ad olio su tela, le stesse forme genetiche di un animale maestoso che si muove in una terra selvaggia, lontana, eppure così vicina.

La fusione tra wilderness e arte

La fusione totale tra wilderness e arte, ecco di che cosa parlerà lo Humboldt negli anni a venire. 

Mentre quindi si fa cenno alle condizioni eccezionali di questa inaugurazione a causa della epidemia, spunta fuori il riferimento alla “grande moria – The Great Dying” del secolo XVI, quando le malattie esantematiche europee sterminarono i nativi americani contribuendo ad un cambiamento climatico oggi individuato nei carotaggi artici.

Di nuovo, attraverso il SarsCov2, scopriamo qualcosa che sta nei libri di storia. Il caos e la morte di massa non sono eventi eccezionali, ma strumenti di espansione e di costruzione di nicchia. E segnano battute di arresto dopo le quali nulla è più come prima. 

Questa è l’epoca in cui abbiamo scoperto che il nostro Illuminismo ereditato (progresso, tecnologia, materialismo e positivismo tecnologico, l’Illuminismo dei fratelli von Humbolt) non sono sufficienti per tenere il naso sopra la linea di galleggiamento.

O, per come la mette Amitav Gosh, collocando l’esplosione economica asiatica degli anni Novanta nella giusta prospettiva: “l’Asia ha interpretato un altro ruolo fondamentale nel dispiegarsi della Grande Cecità (l’indifferenza e l’inazione nei confronti del cambiamento climatico, NDR), ovvero quello del sempliciotto che, attraversando goffamente il palcoscenico, si imbatte senza rendersene conto nel segreto che è la chiave di tutta la storia”.

“Ciò che abbiamo appreso da questo esperimento è che gli stili di vita nati dalla modernità sono praticabili solo per una piccola minoranza delle popolazione mondiale (…) è stata dunque l’Asia a strappare la maschera al fantasma che l’aveva attirata sul palcoscenico della Grande Cecità, ma solo per ritrarsi inorridita da quel che aveva fatto; lo shock è stato tale che ora non osa neppure nominare ciò che ha visto – perché, essendo salita su quel palcoscenico, ora è in trappola come tutti gli altri. L’unica cosa che può dire al coro che aspetta di accoglierla nei suoi ranghi è: Ma voi avevate promesso…e noi vi abbiamo creduto!”.

L’intera specie umana è entrata in un caleidoscopio ermeneutico. Questo è lo Humboldt Forum.

Hartmut Dorgerloh ai microfoni della RBB – Rundkunft Berlin Branderburg: “questo sarò un luogo che porta l’Isola dei Musei nel 21 secolo, un luogo che è reattivo nei confronti della nostra epoca (auf unsere Zeit reagiert)” e cioè un luogo in cui “noi proviamo a capirci l’uno con l’altro su come il futuro che ci attende è una vita gli uni accanto agli altri e che abbiamo intenzione di vivere questa vita nella cooperazione reciproca”. 

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La pandemia e la crisi del Trecento

Le analogie storiche sono una grande tentazione. Il loro scopo è portare conforto in un presente disordinato, e angosciato. Ma, anche quando una analogia funziona, non sempre il prisma delle somiglianze viene colto nella sua ampiezza.

Da marzo circolano su YouTube alcune lezioni del professor Alessandro Barbero sulla “crisi del Trecento, il brusco cambio di passo nella cultura, e nell’economia, medievali che, nell’immaginario collettivo, è identificato con l’epidemia di peste del 1348, quella del Boccaccio e del Decameron fiorentino. 

A questo punto della nostra epidemia globale, non è però tanto l’analisi delle cause della frattura del Trecento discusse da Barbero che dovrebbe attirare la nostra ansiosa attenzione, quanto piuttosto la sua disamina dell’atteggiamento psicologico che dominava l’Europa in un momento in cui, a partire dal 1315, con il primo fallimento nei raccolti a causa di una stagione insolitamente piovosa e fredda, cominciò a prendere corpo la consapevolezza che il mondo era diverso da come era stato descritto e percepito per secoli. 

L’Europa, argomenta Barbero, usciva da un lunghissimo periodo di crescita economica e il Medioevo stesso, fino ad allora, si configurava come un arco di tempo di enorme durata.

È questa coscienza inconscia di una continuità ormai solida, consolidata, che rende lo shock del 1315  (e poi dei successivi raccolti di grano finiti marciti, nel 1316 e nel 1317) così sorprendente, devastante e cupo.

“Da secoli gli uomini in Europa sentono di vivere in un mondo razionale, che funziona, un mondo dove un uomo può vivere bene usando la sua intelligenza. L’Europa era ottimista – spiega Alessandro Barbero – ed abituata a crescere, ma questa crescita, ad un certo punto, si inceppa”. 

Quando una civiltà si sente sicura delle proprie premesse, quando avverte nella propria struttura economica e produttiva una conferma delle sue convinzioni culturali e religiose, nutre e sostiene una società che pensa se stessa come definitiva e forte.

Per quanto la tradizione possa dunque fornire esempi di brusche interruzioni, una civiltà capace di una notevole solidità interna non è più abituata ad ipotizzare una catastrofe collettiva.

La percezione di avere alle spalle un tempo lunghissimo in cui “è sempre andata così” diventa quindi un fattore di coesione sociale robustissimo, che però disarma le intelligenze dinanzi alla imprevedibilità dell’accadere storico, e delle faccende naturali. Questa è una prima, impressionante somiglianza tra il nostro 2020 e la frattura del Trecento.

Anche noi, come gli uomini e le donne del Trecento, siamo infatti avvezzi a pensare alla civiltà contemporanea come ad un blocco di convenzioni, idee, modi di produzione sbozzato e levigato una volta per tutte.

Non solo il migliore mai progettato da mente umana, ma soprattutto l’apogeo di un processo di conquista di diritti fondamentali (divorzio, aborto, riscaldamento domestico, frutta esotica in inverno, aria condizionata, carne in tavola tre volte la settimana, voli aerei intercontinentali).

Che tutto questo possa franare perché si regge su premesse ecologiche e biologiche altamente misconosciute o sottostimate, è considerato un pensiero disfattista, sciocco e insensato. Della vita moderna la gente comune non coglie più le fondamenta, ma soltanto il comfort e la bellezza. 

E infatti, ciò che risalta con maggiore e negletta evidenza in questo ultimo mese del 2020 è il silenzio sulle cause ecologiche, e quindi il valore ecologico, della pandemia. Stregati e ammaliati da un velo di Maja ricamato ad arte, sembriamo parlare di tutto fuorché di ciò che realmente è accaduto e sta accadendo. Lasciamo che i fatti stessi (una aberrante intrusione nella vita animale non addomesticata) sfumino, lasciando spazio ad una suggestione politica e sanitaria. 

Ci salverà un vaccino, e poi torneremo alla vita di prima. Nessuno, o poco più, nemmeno negli ambienti dove si discute di un reset verde degli assist economici europei, pare accorgersi della enormità e della scala del sintomo globale che il SarsCov2 ha potentemente sbattuto in faccia a quasi 8 miliardi di esseri umani. 

Secondo Barbero, il cambiamento climatico del XIV secolo (che ora i climatologi definiscono “Piccola Età Glaciale” e che era destinato a durare per 5 secoli, fino alle soglie della Rivoluzione Industriale) e una generale condizione di sovrappopolazione furono tra le cause del disastro continentale.

In un primo tempo, dinanzi alla penuria alimentare si pensò “se dobbiamo produrre di più, metteremo a coltura più terra”, ma “anche se semini cereali a 1000 metri di altezza, come la segala, queste terre renderanno pochissimo e presto il suolo si esaurirà”. Al volgere della metà del secolo è chiaro quindi l’impensabile: “non ci si può più allargare: è stato raggiunto un limite”.

La grande illusione del volgere del 2020 è la rimozione di una consapevolezza analoga.

Che cioè noi si sia giunti ad una frattura epocale, oltre la quale non c’è più il bengodi di un benessere sognato e politicizzato sino all’esasperazione, ma una fatica di vivere di nuovo stampo, esausta: l’effetto rebound di una interpretazione scorretta e fuorviante di noi stessi che va avanti, questa sì, da alcuni secoli ormai. 

In altre parole, ciò che nei prossimi anni a noi vicini diverrà sempre più manifesto è che la modernità stessa è entrata in crisi, per il semplice fatto che non è più in grado di reggersi da sola senza riforlumarsi al cento per cento.

È questa riformulazione il senso ultimo della retorica della sostenibilità economica, che tuttavia, come si vede, si spinge ben oltre, per l’ampiezza dei valori culturali e sociali in gioco, un impianto solare o qualche pala eolica.

Per superare la pandemia, bisogna cominciare a pensare sui tempi lunghi. Come i climatologi, i fisici, gli archeologi e i paleontologi.

Ma il sentimento, perché di una affezione emotiva si tratta, di appartenere ad una civiltà definitiva e ormai solida è radicato in un paradosso. Max Weber lo chiamava disincantamento del mondo.

Ossia l’affermazione del pensiero razionale con metodo scientifico, che, facendo forza sulla leva di Archimede del calcolo matematico, è capace di spiegare le forze naturali, di usarle a suo vantaggio e di progettare tecnologicamente.

Il disincanto del mondo ci ha regalato, secondo Weber, un formidabile ottimismo e una inusitata fiducia nella infinita ricchezza della vita.

Come la scienza è eterna nel suo sorpassare con nuove scoperte quelle del passato, così la nostra esistenza è aperta, nella solidità fornita dal pensiero intellettualistico, ad una sperimentazione infinita: “la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel ‘progresso’, nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un processo ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito”.

“Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva ‘vecchio e sazio della vita’ poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portata alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse rivolvere ed egli poteva perciò ‘averne abbastanza’. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì ‘stanco della vita’, ma non sazio della vita. 

Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che, proprio in virtù della sua ‘progressività’ priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità”. 

Non c’è dubbio che queste figure culturali ormai congenite nella nostra civiltà umana siano a fondamento di molti dei nostri atteggiamenti pubblici, sfruttati dalla pubblicità come amplificatori del senso della vita, ad esempio nella interpretazione della vecchiaia, della progettazione narcisistica di se stessi e, infine, nella rimozione della catastrofe ecologica dell’orizzonte del possibile.

Se siamo convinti, e lo siamo, che il senso della vita stia in un miglioramento progressivo dell’ordine materiale delle cose, allora per noi la constatazione della impossibilità di mantenere efficace e produttivo questo processo coincide con il crollo di certezze psicologiche profonde.

Il lavoro di rafforzamento e di consolidamento della presa umana sul Pianeta e le sue risorse naturali ha richiesto una costanza e una dedizione inimmaginabili per noi, che veniamo alla fine di questo percorso storico.

Ma questo lavoro non è avvenuto in sordina, ha invece continuamente emanato, come prodotto di scarto, una assuefazione sempre più insensibile ai suoi risultati e ai suoi successi.

L’assuefazione è un genere di illusione. Inganna, froda e manipola.

E maschera la realtà di finzione, facendo invece di questa finzione una realtà alternativa. Questo è lo scenario comune di un 2020 che non si chiude “senza il Natale”, ma senza neppure l’ombra di un principio di realtà. 

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I musei europei raccontano l’Antropocene

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I musei europei raccontano l’Antropocene. Sono i luoghi di elezione in cui scoprire il mistero della nostra specie. Le grandi collezioni artistiche e naturalistiche europee sono state create al culmine del colonialismo globale. Descrivono l’affermazione e il ruolo del genio europeo nella costruzione del dominio della cultura umana sul Pianeta. Racchiudono quindi le origini e le cause del collasso ecologico a cui diamo il nome di Antropocene.

In queste istituzioni questa consapevolezza storica acquisisce oggi un peso politico.

Quasi due secoli fa, Herman Melville immaginò nel Pequod guidato dal capitano Achab gli Stati Uniti stessi, in viaggio verso un ignoto megalomanico e autodistruttivo. Quell’ignoto era la folle corsa all’accumulazione di ricchezza, simboleggiata dallo sterminio delle balene negli oceani del Pianeta. La caccia alla balena bianca era il culmine della spinta tecnologica, ma anche una follia dall’esito fatale. La civiltà americana mostrava il suo vero volto nel volto di Achab.

Qualcosa di analogo accade ai grandi musei europei. Una tempesta annerisce di nubi la linea dell’orizzonte, in pieno oceano. Ma è una tempesta che farà spazio al vento in poppa. La nuova rotta: riconoscere e ammettere come ebbero origine le collezioni artistiche, e pure quelle naturalistiche. E aggiungere così importanti dettagli alla comprensione della storia dell’Antropocene. Delle sue origini culturali. Schiettamente europee.

Non è un passaggio di poco conto. Anzi, è una rivoluzione. La trasfigurazione dei musei da cattedrali indiscutibili di una supremazia millenaria a templi di un ripensamento complessivo dell’avventura dei Sapiens sul Pianeta.

Tutto è cominciato con il dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane custodite nei musei etnografici europei. Quel che fino a un paio di anni fa (prima di Greta Thunberg, prima di Black Lives Matters e prima del SarsCov2) sembrava solo un bisticcio per diplomatici e accademico attorno ai capolavori ed ai reperti conservati al Tervuren, in Belgio, al Museé du Quai Branly, a Parigi, allo Humboldt Forum, a Berlino, e al British Museum, a Londra, è diventata una critica totale sulla identità classica di queste istituzioni, avviate a ripensare se stesse su una scala dirompente. 

L’origine coloniale delle collezioni

L’assunto di partenza è che le istituzioni culturali non possono più funzionare come torri d’avorio isolate dal contesto ecologico. Anzi, sono chiamate a prendere una posizione sulla catastrofe ecologica. Le ragioni sono molteplici.

I musei sono protagonisti del modo in cui la società civile pensa ed elabora la crisi di estinzione della nostra epoca: “mentre la scala e la urgenza del cambiamento climatico possono spesso sembrare travolgenti, i musei stanno soltanto ora cominciando a riconoscere di avere un ruolo cruciale da giocare nel dar forma alla risposta che la società saprà dare a questa crisi”, hanno scritto Rodney Harrison Harrison e Colin Sterlin su THE CONVERSATION, in un essay che rimarrà come pietra miliare della neonata liason tra ambientalismo maturo e politica culturale sui beni heritage della nostra Europa.  

Questo significa che il patrimonio culturale ed artistico non è solo uno scrigno di bellezza. O uno specchio di contemplazione della creatività umana. Racchiude qualcosa in più.

Harrison (che insegna alla UCL di Londra proprio Heritage Studies) e Sterlin (fellow della AHRC Research presso l’Istituto di Archeologia della UCL, dove si occupa di “heritage, museums, cultural memory and the Anthropocene”) propongono, quindi, di passare da una lettura settoriale, superficiale e cementificata sul presente dei problemi ambientali ad una comprensione tridimensionale.

Aprendo le collezioni e i musei al prisma della interpretazione storica ed ecologica.

“Come molti studiosi hanno mostrato, le nozioni gerarchiche di razza e cultura, che i musei hanno contribuito a sviluppare e perpetuare, sono state il presupposto di pratiche violente, ovunque nel mondo, e continuano ad esserlo anche oggi”.

“Queste idee rafforzarono anche la visione dell’Europa come felice eccezionale, che aiutò a consolidare e giustificare una relazione nociva con il mondo naturale, incoraggiando a sua volta l’ideale del progresso  e la comprensione della natura esclusivamente come risorsa. Questo atteggiamento è stato ripetutamente messo in discussione come parte di una riforma di queste istituzioni che sia complessiva, antirazzista, anticoloniale e a favore dell’ambiente”. 

È privo di senso, dunque, insistere nel tenere separati, e rigorosamente indipendenti, il discorso sull’arte ereditata (l’immenso patrimonio occidentale ed europeo in particolare) e lo studio scientifico delle collezioni naturali, che ha nella tassonomia e nella ricerca genetico-molecolare i suoi capisaldi. Tutto ciò che noi Sapiens sappiamo sul mondo si sovrappone a tutto ciò che abbiamo fatto nel mondo.

Il nuovo ruolo dei musei in Antropocene

Il posto e la funzione sociale dei musei non può che cambiare in Antropocene.

“Certo non tutti i musei portano il peso delle radici coloniali che permeano il British Museum, eppure la premessa centrale della raccolta di oggetti provenienti dalla natura e di oggetti di origine culturale allo scopo di raccontare un certo tipo di storia ha forgiato il modo in cui la società globale intende oggi la sua posizione nel mondo. (…) L’idea che gli esseri umani esercito ogni sorta di supremazia sulla natura è sempre stata il prodotto di una illusione”.

“I musei – ‘ questi simboli di etilismo e di sobrio immobilismo’, come li definì una volta l’antropologo James Clifford – hanno contribuito a rafforzare questa visione del mondo per troppo tempo. Re-immaginare i musei come pilastri della battaglia contro il cambiamento climatico significa qualcosa di più che pagare il ticket della sostenibilità, riciclando e riducendo le emissioni, per quanto anche queste decisioni siano importanti”.

“Ma questa virata significa soprattutto fare i conti, storicamente, con il ruolo che i musei hanno giocato nel dare sostengo alle principali cause del cambiamento climatico, non meno del colonialismo e del capitalismo (almeno per come lo conosciamo ora) e della modernità industriale”. 

Foreste tropicali

Un esempio di questo nuovo approccio è lo stesso museo di Tervuren – Royal Museum for Central Africa, in Belgio, la raccolta di di arte africana del bacino del Congo più importante del mondo. In questo museo la ricerca in campo biologico è affiancata alla divulgazione e alla conservazione dei manufatti artistici e di valore etnografico (120 mila pezzi), anche grazie alla enorme mole di reperti custoditi: qualcosa come 10 milioni di reperti zoologici (alcuni antichi di secoli e dunque appartenenti, verosimilmente, anche a popolazioni animali oggi estinte) e 80.000 campioni di legno da specie arboree della foresta tropicale del Congo.

Lo scorso 5 marzo è uscito su NATURE (in prima pagina) uno studio sulla capacità delle ultime, grandi foreste tropicali umide del mondo di assorbire anidride carbonica e quindi di mitigare l’effetto del riscaldamento dell’atmosfera terrestre.

Wannes Hubau, uno dei ricercatori coinvolti, fa ricerca al Tervuren nel campo della “wood biology”, con incursioni nella “storia della vegetazione africana” e nella archeo-botanica.

Anche il Tervuren seguì l’esempio del numero di marzo di NATURE, pubblicando nella home page del museo la foto della cover della rivista.

Lo studio tracciava un impressionante ponte cronologico nella comprensione della fisiologia delle foreste tropicali umide: “abbiamo raccolto, compilato e analizzato dati da foreste strutturalmente intatte e di antica crescita selezionate dallo African Tropical Rainforest Observation Network27 (217 siti) e da altre fonti (27 siti), in un periodo che va dal 1 gennaio 1968 al 31 dicembre 2014”.I risultati sono più che inquietanti: “prevediamo che, entro il 2030, la ‘carbon sink’ (lo stoccaggio di anidride carbonica) nella biomassa vegetale viva sopra il suolo delle foreste tropicali intatte dell’Africa declinerà del 14% rispetto al periodo 2010-15 (…) la carbon sink amazzonica continua invece il suo rapido declino, che raggiungerà lo zero di assorbimento di CO2 nel 2035”.

Poiché le foreste tropicali svolgono un ruolo determinante nello stabilizzare il clima terrestre, il fatto che assorbano meno anidride carbonica perché la loro struttura si sta modificando proprio a causa dei cambiamenti climatici, avrà delle conseguenze precise.

Storicismo ecologico

Il “museo Antropocene” è per forza di realtà ispirato e condizionato da un rinnovato storicismo. Se aveva ragione il Dilthey, affermando che “il senso e il significato sorgono solo nell’uomo e nella sua storia”, attraverso la instancabile fluidificazione delle forme, delle interpretazioni e delle esperienze storiche, allora è verosimile che la presa di posizione dei Musei europei a favore di una discussione pubblica sul significato delle collezioni sia una svolta poderosa e viva nella direzione di una coscienza ecologica pervasiva e diffusa. 

“Penso che ogni collezione d’arte racconti, da un punto di vista unico, la storia dell’umano. Con tutte le sue conquiste, con tutte le sue sconfitte”, ha detto Tomaso Montanari, raggiunto via email su questo argomento. “Non solo delle imprese esterne, ma anche di quelle interne, dello spirito. Della lotta con i nostri demoni interni. È un percorso di liberazione”.

E ogni riconoscimento è una forma di liberazione: “esattamente un anno fa, l’11 novembre 2019 la National Gallery of Scotland rilasciò un comunicato in cui diceva: ‘riconosciamo che abbiamo la responsabilità di fare tutto quello che possiamo per uscire dall’emergenza climatica. Da molte persone, l’associazione di questo premio con BP (British Petroleum) è considerata in contrasto con quell’obiettivo”.

“E dunque, dopo attenta considerazione, i Trustees delle National Galleries of Scotland hanno deciso che questa sarà l’ultima volta che ospiteranno questa mostra nella forma attuale’. Parole sobrie e misurate: ma così clamorose da far subito il giro del mondo”, aggiunge Montanari.

“Pochi mesi prima, 78 protagonisti del mondo dell’arte inglese (tra cui Anish Kapoor e Gary Hume),avevano chiesto alla National Portrait Gallery di Londra di troncare i rapporti con BP, accusata di ‘investire il 97 % del suo capitale disponibile nello sfruttamento di combustibili fossili e il 3 % in energie rinnovabili’.

L’evento scozzese era organizzato in partnership proprio col museo londinese, che ora si trova più solo nella difesa della sponsorizzazione petrolifera. In ottobre i soldi BP erano stati già abbandonati dalla Royal Shakespeare Company, e gli attuali destinatari delle campagne anti-fossili sono nientemeno che il British Museum e la Royal Opera House”. 

Una eco di questo sisma europeo s’è avvertito anche in Italia: “i riflessi italiani della coraggiosa scelta del museo scozzese possono essere su un duplice livello. Da una parte è sperabile che essa agisca in senso letterale: e cioè che ai colossi petroliferi (a partire dalla nostra Eni) sia interdetta la possibilità del greenwashing (cioè della ‘ripulitura ambientalista’) attraverso la sponsorizzazione di musei, mostre e restauri.

Si può rammentare, per esempio, il restauro della Basilica di Collemaggio all’Aquila, finanziato dall’Eni, che comportò l’intitolazione a Enrico Mattei del parco antistante”.

“Ma c’è anche una chiave di lettura più larga: e insieme più problematica e ancora più promettente. E questa chiave riguarda il rapporto tra i musei e il mercato: che negli ultimi anni in Italia si è così cementato da fare proprio del petrolio la chiave della più abusata metafora pronunciata da ministri e assessori ai Beni culturali.

Il patrimonio culturale come ‘petrolio d’Italia’. Se i musei e i curatori di mostre iniziassero a prendere le distanze dall’industria e dalla retorica del lusso, dai marchi di moda, e da tutti gli interessi che usano l’arte per alimentare i bisogni indotti e la suicida crescita infinita, forse sarebbe più semplice far passare l’idea che l’unico sviluppo a cui serve la cultura è il «pieno sviluppo della persona umana».

Sterminio di uomini e animali

Comprendere se stessi significa capirsi all’interno della propria epoca e in questo sforzo, titanico, perché dura una intera vita, le collezioni artistiche sono imprescindibili. Non saremmo umani se non sentiamo il bisogno di inventare l’evento artistico.

E nei secoli ormai trascorsi, che hanno posto le fondamenta dell’Antropocene, è capitato che la pittura riassumesse le forze consce e inconsce della spinta di espansione della civiltà occidentale, dentro i corpi di animali e  popoli destinati allo sterminio.

L’ha mostrato, con una impaginazione spettacolare ed accattivante anche per il più profano dei curiosi, The New York Times, proponendo una lettura interattiva di “The Death of General Wolfe”, il capolavoro di Benjamin West, dipinto nel 1770.

Il quadro ritrae la morte del generale inglese Wolfe sul campo di battaglia il 13 settembre 1759, in quella che passò alla storia come “battaglia delle pianure”, lo scontro che decise, fuori di Quebec City, la vittoria delle aspirazioni coloniali inglesi sugli analoghi progetti francesi nel contesto della Guerra dei Sette Anni, che Churchill definì la prima guerra davvero mondiale della storia. 

Il quadro divenne uno strumento di propaganda fenomenale per l’idea della supremazia inglese, della superiorità bianca ed europea e delle ragioni quasi mitologiche che sostenevano la colonizzazione del Nuovo Mondo: “uno pseudo-reportage in una grande architettura pittorica”. 

La morte di Wolfe è rappresentata come “una visione compressa di eroismo nazionale e di martirio individuale. Wolfe è il santo di un impero, che muore perché la Gran Bretagna possa governare il mondo”.

Wolfe è accasciato in una posa che ricorda la Lamentazione di Cristo del Botticelli, ma che risuona anche della suggestione della iconografica dell’antica Roma: “West incanalò questa iconografia cristiana in un apoteosi imperiale (…) la fiction del Nuovo Mondo”. Ed è così che il Nativo, un Moicano, inginocchiato ai suoi piedi, adornato di oggetti che oggi sono al British Museum, figura soltanto come un guerriero senza nome: “una anteprima dell’intero assetto del colonialismo, sordido, indelebile ed irreversibile. Una sorta di peccato originale”. 

Responsabilità collettiva

È questa irreversibilità che ci raccontano le collezioni heritage dei più importanti musei europei. Sulla impossibilità di tornare indietro affonda il suo mistero ogni forma di responsabilità personale e collettiva, che deve riparare il passato creando qualcosa di non ancora pensato.

Max Weber diceva che “la patria non è il Paese dei padri, bensì il Paese dei figli”. Ed è per questo che potremmo azzardare un ragionamento paradossale anche sulla questione delle restituzione delle opere d’arte africane. L’insistenza nel non accettare la restituzione, che può essere intesa anche come una arroganza perpetua impermeabile a qualunque revisionismo, che può essere anche biasimata come un affronto, potrebbe invece aiutarci a comprendere l’entità dei crimini di cui stiamo parlando.

I crimini di estinzione contro le faune di interi ecosistemi, l’alterazione degli equilibri ecologici di interi continenti, la sterminio e lo spostamento coatto di milioni di esseri umani non sono atti reversibili. Sono azioni umane, predeterminate, che hanno scolpito il mondo del XXI secolo in ogni sua molecola. 

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FRANCOFONIA è una guida ai musei europei

locandina

Il Louvre è un buon posto per comprendere l’abisso della nostra storia ecologica. È al Louvre di Parigi, ammesso che si possegga sufficiente coraggio, che il naufragio della nostra folgorante parabola evolutiva spunta con tutta l’impertinenza possibile sulla linea dell’orizzonte lontano della Zattera di Gericault. Il miraggio della salvezza remota, impossibile, il disgusto per ciò che avrebbe potuto accadere, e che invece non è mai accaduto, per stolta volontà avversa, o per una deficienza incurabile dello spirito umano, che lo si chiami Napoleone, Congresso di Vienna, Restaurazione o Negoziati per il Clima. Non fa differenza. Qualunque altra cosa vi abbiano detto, questo è Francofonia di Aleksandr Sokurov, un film che non è un film, erroneamente presentato e raccontato come la storia del Louvre sotto occupazione nazista. Quando è tutta una altra cosa. 

È il principio dell’estate del 1940, capitale francese. Il Reich manda il conte Franziskus Wolff-Metternich a trattare con il direttore del Louvre, Jacques Jaujard, per negoziare il passaggio di consegne. L’occupante straniero prende sotto la sua tutela il Museo e i suoi tesori, che sono però stati già quasi tutti spostati in castelli fuori Parigi, per ragioni di sicurezza in caso di bombardamento aereo. Ma il film non parla di loro. E infatti Sokurov comincia il suo documentario anomalo e ibrido dal suo studio, sulla sua scrivania, davanti al suo computer. Immagina che un collaboratore sia in viaggio su una nave cargo nel pieno di una tempesta nel Mare del Nord, con un collegamento Skype traballante e intermittente. Questo, però, non è un cargo qualsiasi. Trasporta container in cui sono stipate opere d’arte europee.

Ma cosa diavolo ci fanno delle opere d’arte di inestimabile valore, che non corrispondono affatto, nella loro intima natura, alle leggi della riproducibilità tecnica industriale, su un cargo? Chi le ha spostate, impacchettate, messe in pericolo? L’ironia di Sokurov è ben presto al lavoro sull’effetto di straniamento che lui stesso ha sbattuto in faccia allo spettatore. Ci mostra alcune fotografie in bianco e nero di inizio Novecento. Contadini russi, rozzi e grezzi, induriti dalla fame, e poi giovanissimi operai e marinai, anche loro russi, sorridenti, “ingenui e crudeli”.

Sono gli stessi uomini che faranno la rivoluzione, che commetteranno i crimini della Rivoluzione di Ottobre del 1917, dando aiuto al terrore bolscevico dei primi anni ’20. La brutalità genocidiaria che fornì argomenti e mezzi alla dittatura socialista ha una origine analoga alla radicale inutilità dei container che ondeggiano sull’orlo del precipizio, un secolo dopo. Sokurov la riassume in una frase che è una fucilata: “A inizio del Novecento i nostri padri si sono addormentati”. 

I padri sono le premesse su cui pensavamo di aver costruito una civiltà ispirata dalla giustizia, dalla libertà e dalla fraternità non meno che da sani precetti cristiani. Ma i padri sono anche le opere dell’ingegno, e della mostruosa creatività di pittori e scultori, con cui nel corso dei millenni. abbiamo raccontato il nostro esistere e i demoni del nostro spirito. I padri sono le facce di chi ci ha preceduti, diventati ormai una cosa sola con il buio dentro il crepaccio del tempo paleontologico e archeologico. 

Le imprese e le disfatte dei padri sono ora custodite nei musei.

E il Louvre, anche per via di come le sue collezioni furono raccolte tra tardo Settecento e fine Ottocento, è uno dei luoghi in Europa in cui più numerosi sono le tombe, i reperti, i prodigiosi manufatti dei padri. Nel 1941 il Museo si trovò coinvolto suo malgrado in un passaggio storico che non fu affatto, come ormai le menti illuminate hanno compreso, soltanto l’ultimo atto dell’espansionismo prussiano o della Guerra Civile Europea. L’esplosione bellica del 1939 fu la fine dell’Europa come sogno di civiltà, di armonia, di umanesimo.

Dagli atti di cui gli Europei si dimostrarono capaci non emerse un nuovo ordine politico, ma una atroce coscienza della incapacità umana di prosperare lontano dalla distruzioni pianificata sino a diventare strumento politico di massa. Questa legge non scritta, aberrante eppure dannatamente storica, genetica, comportamentale, trasforma la Seconda Guerra Mondiale in una rappresentazione devastante di un talento bipolare. Un talento di specie.

Ed è questo che c’è al Louvre, Sokurov lo sa: “i musei custodiscono i peggiori segreti del potere e delle persone”. I padri ci dicono chi siamo noi, i figli. I volti dipinti sulle tele del Louvre, volti scavati e consunti o in attesa vigile di una occasione, di uno scarto della fortuna. I volti di noi Europei, nei secoli trascorsi che hanno assistito, forse con paura, alla nostra conquista dello spazio, degli oceani, del mondo animale.

Uomini comuni, che sono il nostro DNA, la nostra maledizione e il nostro folle orgoglio: “Il popolo, le persone: appartengono al loro tempo, ma li riconosco. Perché? Perché sono Europei. Mi chiedo cosa sarebbe stata l’Europa senza l’arte del ritratto. Chi sarei stato, se non avessi potuto vedere negli occhi di coloro che vissero prima di me? In Europa è ovunque Europa. Siamo seduti alla stessa tavola”. Mentre il Tedesco vincitore vuole impossessarsi delle collezioni strepitose del Louvre, per gloria, per capriccio, per puro potere, e portarne forse alcune a Berlino, il Louvre prende il sopravvento, respira, si anima e ha ragione del Tedesco come la Grecia ebbe ragione di Roma. 

Il Louvre sa qualcosa di noi che non ci piace ammettere. Napoleone urla a Sokurov la sua verità: che è per l’arte che fece la guerra, per rapinare capolavori e portarli nel Louvre. Ma Sokurov sorride perché sa, anche lui, che Napoleone, nella sua megalomania, ha agito come i migliori Europei di tutte le epoche hanno sempre agito, e non solo qui, a casa, ma anche in America, in Asia del sud e in Africa: “i musei non furono il meglio del Vecchio Mondo, che non amava nulla tanto quanto fare la guerra?”.

Già. È andata così. Wolff-Metternich tiene il discorso inaugurale della sua amministrazione controllata sul Museo fra le statue delle collezioni classiche, greco-romane, non ancora impacchettate e spedite in campagna. Sokurov riprende con la telecamera, in un silenzio spettrale, la sua mano di regista del XXI secolo che sfiora le dita di una Diana eburnea, spettrale, bellissima, incomprensibile, tentando il gesto assurdo, impossibile, di raggiungere l’Antichità nel punto preciso del tempo in cui la Grecia esisteva ancora.

Questa lontananza assoluta è la metafora del passato profondo, l’abisso ormai molto vasto delle civiltà finite, estinte, da cui dipendiamo come i figli dipendono, sul piano genetico, dai genitori. Il passato profondo è una sola cosa con il tempo profondo della biologia evolutiva, i milioni di anni di evoluzione delle specie animali e vegetali che popolano oggi il Pianeta. Perché siamo vivi? Perché nasciamo?

Queste sono le domande fondamentali della paleontologia e della moderna ecologia, e sono le stesse domande del fenomeno artistico. In entrambi i campi di applicazione del pensiero e della ricerca permane una ambiguità sfuocata, che ci disturba, ma che è il nutrimento del nostro dubbio, della nostra poesia e della nostra permanenza nel tempo  a noi concesso. 

Wolff-Metternich sembra sapere, nella ricostruzione di Sokurov, forse proprio perché è tedesco e non francese, che il messaggio in codice dei capolavori dell’arte degli ultimi cinque secoli è la prova di una incriminazione totale per l’Europa del XX secolo. Il secolo del petrolio, nel nazismo e dell’annichilamento della biodiversità del Pianeta. E cioè che i geni furono anche dei mostri. I mostri erano dei geni.

Uno squarcio sul Louvre in un paesaggio del Seicento, con fango e carrozze, nastri di seta e un cielo azzurro turchese limpido, è come l’inizio di una avventura in cui nessuno sapeva cosa ne sarebbe stato di lui, del proprio mondo, del proprio Paese, del cosmo. Incertezza abnorme, pulsione incontenibile. Un leggero alito di vento finito in una pennellata di colore a olio, della stessa consistenza della formidabile spinta in avanti, atavica e incosciente, che riempiva le vele dei galeoni che attraversavano l’Atlantico verso le Indie, e che poi puntarono a sud, verso il Golfo di Guinea, il Ghana, il Gabon, il Congo. 

A cuore sereno Wolff-Metternich  può visitare il castello in cui i francesi hanno riposto la Zattera della Medusa di Gericault. L’opera è al sicuro, il castello gode anche dei benefici di un sistema di riscaldamento molto efficiente che, funzionando 24 ore su 24, scongiura il pericolo insidioso delle muffe sulle tele del Louvre. Sokurov riprende il garbato stupore di Wolff-Metternich nel trovare in una cantina un quadro di tal fatta. La Zattera è l’Europa in guerra, l’incertezza probabilmente fatale di uno scontro totale senza quartiere.

Quattro anni dopo, il 7 maggio del 1945, Amburgo si sveglierà in macerie nell’ultimo giorno della Germania ottocentesca e novecentesca. Sta per finire il sogno, l’incubo, il crimine e l’auto-assoluzione. C’è cenere ovunque ad Amburgo. Esseri umani stremati, affamati e umiliati attendono un verdetto definitivo, come i naufraghi della zattera esposta al Salon del 1819.

Altri uomini, donne e bambini, in Russia, Sokurov lo dice, non furono così fortunati da meritare la pietà e la stima che il Tedesco riservò al museo francese e al suo popolo. E allora mette in camera le foto di archivio dell’assedio di Leningrado e parla del cannibalismo della gente che mangiò i propri simili, neonati compresi, per sopravvivere alla neve, allo sterminio, e al Tedesco europeo. 

E così tutto è chiaro. Ci siamo anche noi sulla zattera, su un Pianeta asfissiato dal cambiamento climatico, dalla presunzione umana di fare a meno degli animali, dalla baldanza con cui i figli hanno pensato di fare baldoria mentre i padri dormivano. Vorremmo dimenticare i neonati mangiati dai cittadini di Leningrado, dice Sokurov, ma non possiamo. Anche spazzare via dalla faccia della Terra le specie animali ancora selvatiche, un giorno, ci inchioderà alla stessa condanna di un ricordo avvizzito, amaro e ormai inutile. 

Il film è disponibile su RaiPlay.

La guerra al Pianeta spiegata da Marc Bloch

Leggere Marc Bloch, e la sua analisi della sconfitta della Francia all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, può aiutarci a capire in che modo siamo entrati impreparati in una guerra ecologica contro il nostro Pianeta.

Non sappiamo se siamo in guerra. Non sappiamo se il collasso ecologico possa essere paragonato ad un conflitto armato. Leggere Marc Bloch, il grande storico medievale, e in particolare la sua esperienza durante la Seconda Guerra Mondiale, fornisce insoliti spunti di riflessione. La guerra al Pianeta spiegata da Marc Bloch. Ecco una utile provocazione.

Ma partiamo dall’inizio. In base a quali dati dovremmo definire lo stato delle cose una “guerra”?

Non ci sono infatti dichiarazioni di belligeranza palesi, impugnabili, depositate nelle cancellerie di mezzo mondo, in questa crisi ecologica. Neil Levy, che insegna al Centre for Practical Ethics di Oxford ritiene ad esempio che questo passaggio storico non assomigli né ad un evento bellico né ad una grande recessione economica. 

Il motivo è presto detto: a differenza di qualunque evento bellico, anche il più sanguinoso e crudele, la catastrofe ecologica non finirà con la firma di un trattato di pace. Le evidenze scientifiche a nostra disposizione ci dicono invece che la traiettoria ormai imboccata a tutta velocità è per certi aspetti irreversibile.

Uno studio uscito nell’ottobre del 2018 sulla PNAS ( Mammal diversity will take millions of years to recover from the current biodiversity crisis ) avverte che gli esseri umani hanno già spazzato via dalla faccia della Terra 2 milioni e mezzo di storia evolutiva, corrispondente a 300 specie di mammiferi.

Se anche oggi traducessimo in politiche concrete misure di protezione severissime contro l’emorragia di estinzione, servirebbero ai mammiferi e alle altre forme di vita del Pianeta tra i 5 e i 7 milioni di anni per tornare a condizioni numeriche pre-umane.

Per quanto riguarda il clima, l’anidride carbonica pompata in atmosfera negli ultimi 150 anni ha innescato effetti domino dall’esito imprevedibile, spingendo almeno 9 parametri ecologici e fisici al punto di non ritorno. Li ha elencati e discussi CARBONBRIEF.

Tra questi 9: la trasformazione della foresta amazzonica in una savana, l’interruzione della AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation, la circolazione di acque calde e fredde nel sistema Atlantico-Artico che produce il clima temperato di metà Europa occidentale).

Lo scioglimento del permafrost in Alaska e Siberia e il conseguente “biome shift”, cioè lo spostamento verso nord degli habitat di taiga e foresta boreale; l’alterazione del sistema monsonico dell’Africa Occidentale e quindi del Sahel. 

Per i pochi che usano informarsi sullo stato del Pianeta questo significa soltanto una cosa: una crescente, oscura angoscia. Non tanto il sentimento di impotenza personale, quanto piuttosto la consapevolezza di una perdita irreversibile che diventerà motivo di afflizione per tutte le generazioni dopo di noi. 

Si ripropone dunque anche a noi una domanda che ha tormentato per un secolo gli intellettuali russi dell’Ottocento: che fare? 

Un buon suggerimento, anzi, una lunga lista di buone intenzioni improntate a rara saggezza, proviene da Marc Bloch, uno dei più grandi storici del Novecento.

Ha parlato di lui, incrociando, io credo, anche il nostro presente ecologico, Alessandro Barbero in una lectio magistralis di stupefacente freschezza disponibile su YouTube: Alessandro Barbero spiega Marc Bloch. 

Bloch intanto fu uomo di studio, di biblioteche e di campi di battaglia in egual misura. Decorato nella Prima Guerra Mondiale, combatté fino all’Armistizio anche nella Seconda, perché non si tirò mai indietro al richiamo della sua patria e dell’urgenza storica e infatti poi finì con coraggio a servire nella Resistenza. Decisione che gli costò la vita. Bloch, spiega Barbero, rivoluzionò la storiografia francese perché comprese, nelle trincee di fango, sangue e materiale cerebrale esploso dei suoi compagni, che “la storia non è fatta solo di grandi imprese, ma è fatta di tutto, non c’è nulla nella vita che non interessi ad uno storico”. Un metodo non troppo dissimile da quello di Charles Darwin. 

Nel 1929 Bloch fondò, insieme all’amico Lucien Febvre, la rivista Les Annales, che infatti prendeva in considerazione ambiti dell’esperienza umana mai prima considerati: la psicologia della testimonianza, la storia dei prezzi e dei salari, l’antropologia, per via dei riti e delle credenze religiose. E molto altro.

Barbero porta un esempio straordinario della mentalità di Bloch, che aveva capito quanto i dettagli apparentemente volgari, rozzi, insignificanti, polverosi siano invece gli indizi dei movimenti sotterranei di pensiero e materiali che, alla fine, producono gli eventi estremi e mastodontici, come ad esempio una guerra.

Alessandro Barbero racconta infatti come Marc Bloch, cattedratico della Sorbona, si fosse messo a studiare l’abitudine delle massaie francesi di preparare la marmellata al principio dell’autunno.

Ma perché tutte queste confetture? Perché lo zucchero nel 1935 costa poco. É sempre stato così? Certo che no, scopre Bloch. É così adesso, perché lo zucchero in commercio viene dalla barbabietola, e non dalla costosa canna da zucchero caraibica. Le barbabietole le seminiamo anche qui a casa nostra. Ai tempi delle nostre trisavole non ci si poteva permettere questo “rito borghese”.

Ed ecco, allora, “una storia dimenticata della nostra storia di Francia”. 

Concentrati come siamo sulle statistiche roboanti del cambiamento climatico, sulla lettura macroscopica delle trasformazioni ecologiche in corso, prestiamo poca attenzione alle alterazioni funzionali che sono sotto i nostri occhi.

Al fatto, ad esempio, che quest’anno non abbiamo avuto l’inverno. O alla fioritura anticipata dei ciliegi, durante il Carnevale. Eppure, nulla di ciò a cui siamo avvezzi, anche nella nostra dieta, è scontato o eterno.

Tutto, invece, è ormai entrato in una spirale di sottrazione, deperimento, scomparsa.

La marmellata di Bloch che racconta la storia di Francia è il confine su cui si infrange anche la ricerca di un consenso sui sacrifici necessari ad arginare il declino del Pianeta.

Perché solo attraverso minuzie di questo genere la catastrofe diventa finalmente tangibile ed evidente. Pensiamo a cosa accadrebbe se questa estate l’acqua venisse razionata e i parrucchieri dovessero tagliare il numero di pacchetti “sciampo e piega” per le loro clienti.

O se un ridimensionamento della nostra disponibilità energetica imponesse a migliaia di massaie di rinunciare a stirare camice e lenzuola.

Il fatto che una guerra non sia mai stata dichiarata o che non ci troviamo sotto bombardamenti nemici non significa che non siamo entrati da tempo in una condizione radicale. 

Bloch, tra le altre cose, quando si trovò al fronte durante l’invasione nazista in Francia, scrisse anche che la sua generazione scopriva troppo tardi quanto snob fosse stato il ritiro dorato degli anni precedenti. La comoda vita sprofondati in poltrona a comporre saggistica sofisticata in ottimo francese. Mentre la società civile franava su se stessa. Ogni individuo conta, quanto alla costruzione della comunità, scrisse Bloch. E anche qui abbiamo di che attingere sul nostro presente, non per sentirsi meno disperati, ma più partecipi di sicuro: sentirsi responsabili del nostro tempo è un dovere civile. 

Pilotta di Parma: ferocia e genio del Rinascimento

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Possiamo rintracciare e recuperare i volti, le espressioni e gli sguardi degli uomini e delle donne che fecero l’impresa, edificando le premesse del capitalismo globale e della civiltà occidentale così come la conosciamo? Alla Pilotta di Parma, capitale europea della cultura, incontriamo la ferocia e il genio del Rinascimento.

In una gelida mattina di gennaio, Parma è la città perfetta per un giallo di provincia. Una di quelle storie enigmatiche e macabre che rendono giustizia ai monumenti cinquecenteschi e medievali del centro storico e alla nebbia rada e lattiginosa, che stringe d’assedio la Pilotta, il complesso di proporzioni monumentali eretto proprio sul finire del secolo fatale della Riforma protestante. 

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Il Cinquecento è per davvero un secolo sanguinario di assassinii, scomuniche e saccheggi, ma è anche il laboratorio storico dell’avventura più estrema delle nazioni europee, e cioè la costruzione di un impero economico globale. Tutto il secolo rimane costantemente in bilico tra ardimento e ferocia, le due caratteristiche più decisive del carattere europeo.

Anche Parma vive in questo periodo una stagione di espansione che non ha precedenti. Nel 1583 Ottavio Farnese ordina la costruzione della Pilotta.

Al suo interno, nel 1618, anno dello scoppio della Guerra dei Trent’anni, Ranuccio I decide di edificare il Teatro in legno, il primo teatro moderno dell’Occidente.

Qui alla Pilotta, verso la fine del Cinquecento, Ranuccio II trasferisce da Roma le collezioni di famiglia, tra le più raffinate delle corti aristocratiche del tempo.

Le casse del Ducato sono vuote, su suolo tedesco la fede cattolica è pronta al macello contro i protestanti. Eppure, Ranuccio ci crede, in una galleria d’arte. 

La grande pittura europea racchiude le tracce più evidenti di questa danza di sangue e genio.

Nei volti, nello sguardo, nei gesti degli uomini e delle donne ritratte sui quadri in esposizione alla Pilotta puoi vedere ancora oggi l’ardore, la paura, il coraggio di un tempo di dirompenti rivoluzioni nel pensiero e nella politica.

Alla Pilotta c’è però soprattutto  il capolavoro ideologico di Ranuccio II. Il Farnese pretendeva che i visitatori della sua galleria si sentissero protagonisti del proprio tempo e figli di un passato a tratti eroico.

Non era solo propaganda, era una idea di grandezza coerente con il risveglio di un’epoca che cominciava a sentirsi il centro del mondo conosciuto.

Camminando per i corridoi della Pilotta – attenzione: quasi tutti privi di riscaldamento – si provano ancora oggi queste sensazioni. Paura, esaltazione, ammirazione: polvere da sparo, santi in estasi, boschi cupi e torrenti fangosi, velluto, seta e piume.

L’Europa scopriva se stessa mentre sprofondava nell’abisso delle guerre di religione. Il visitatore della Pilotta assiste come al rallentatore, secolo dopo secolo, allo sviluppo dell’atteggiamento psicologico che ha prodotto il nostro dominio assoluto sul Pianeta.

Il raggiungimento del massimo del potere riducendo quasi a zero foreste e animali, e senza nessuno scrupolo morale.

I I grandi uomini del Cinquecento e del Seicento sono dei mostri, ma anche i campioni di qualcosa che oggi diamo per scontato nella nostra identità: il culto sovrano della bellezza e quindi dell’arte. Quegli uomini furono gli attori inconsapevoli di quel grande dramma che i Farnese pretendevano di rappresentare nel loro teatro: la parabola umana sul Pianeta Terra. 

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Il Rinascimento è un esplodere di sentimenti. Un quadro sensazionale in questa prospettiva storica è la Madonna dell’Umiltà con il Bambino del Beato Angelico (1425-30). Nello sguardo della Madonna il tempo si ferma.

Il mondo si risolve tutto nei piccoli gesti di affetto delle manine del piccolo che scostano appena dal collo il velo della madre, come a voler voltare pagina.

Noi moderni pretendiamo di nascondere la crudeltà, lontano da sguardi indiscreti. Crediamo che questo pudore ci renda più umani. Solo il personale specializzato conosce i mattatoi, di qualunque genere. Quel che ci dimentichiamo è che sentimenti come questo tipo di tenerezza li abbiamo imparati in epoche di una violenza estrema.

I Greci lo sapevano. Per questo mettevano in scena gli eccessi delle passioni e le disgrazie più orripilanti per tenere a bada il terrore che l’uomo è capace di infliggere a se stesso. Anche il teatro Farnese è ispirato ad una visione filosofica della storia, e della vita.

Sul finire del Cinquecento, andava di moda una interpretazione eccentrica delle cose del mondo, e cioè la mnemotecnica. Alcuni filosofi pensavano che la mente potesse trovare nella profondità dei propri ricordi il filo di Arianna dell’intera esperienza storica umana.

Come in uno spettacolo teatrale ben realizzato. Il progetto del teatro Farnese poggia anche su queste idee. I Ma la Seconda Guerra Mondiale segna la nemesi di queste premesse. Il teatro è in legno, abete rosso del Friuli, e senza combustibili gli inverni a Parma erano tremendi.

I cittadini stavano riducendo in pezzi il teatro di ispirazione greca, ben prima che l’ordigno bellico facesse il suo mestiere. Pannelli e assi finivano nei camini e nelle stufe. Il simbolo della razionalità e della creatività occidentale ridotto in cenere a causa di una guerra totale in cui l’umanità aveva sconfessato tutte le promesse della civiltà.

Per questo oggi questo teatro è un monito inquietante degli effetti finali della catastrofe ecologica, proprio mentre anche l’Australia brucia a temperature fino a 45 gradi Celsius. 

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Dopo l’arrivo nel Nuovo Mondo, uno spazio sconfinato si allarga davanti ai nostri progenitori, gli Europei di cinque secoli fa. Dal 1492 in avanti possono ragionare su come sfruttare le risorse naturali del Pianeta con maggiore ambizione. Religione ed uso delle specie vegetali e animali sono armi forgiate nella stessa fucina. Nella sala  numero 10, che apre sul Cortile del Guazzatoio, c’è una Discesa dalla Croce di un Anonimo intagliatore fiammingo. È del XVI secolo. Materiale: un dente di ippopotamo. Specie animali risucchiate dalla cultura occidentale.

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Qualche volta, gli addii sono indispensabili. Le tele a tema religioso tardo gotiche sono distanti anni luce da noi. Ma per diventare Moderni non è stato sufficiente chiudere le porte al Medioevo, e con un certo tipo di religiosità. Bisognava anche abbandonare il mondo antico, e quindi procedere oltre il Rinascimento stesso. Serviva un nuovo Dio.

E questa divinità fu la ragione degli Illuministi. Nel Settecento le rovine dell’Antichità diventano uno sfondo, uno scena, un contorno. Nel quadro di Riccardo Bellotto (Capriccio con Campidoglio, 1740 circa, Sala della Pittura Veneta) la gente passeggia vicino al Campidoglio come se niente fosse.

Nello stesso periodo in cui le navi europee trasportano schiavi dall’Africa Occidentale alle piantagioni di canna zucchero del Nuovo Mondo, l’europeo si abitua a volere di più del poco che ha. A chiedersi se possegga dei diritti e se sia lecito, per soddisfarli, sfruttare a morte altri popoli, milioni di animali esotici e intere foreste. La risposta è un sì convinto. 

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E allora ecco Canaletto (Capriccio con edifici palladiani, 1750 circa), che mostra quale fosse l’argomento delle conversazioni dotte nei salotti dove si sorseggiava il caffè e la cioccolata delle Indie Orientali. Un capannello di uomini, forse mercati, discute fuori di un edificio sontuoso, dall’architettura prodigiosamente ardita.

Sembra di udire lo sciabordio dell’acqua nel canale, a Venezia, e il suono un po’ smorzato delle campane. E poi un crepitio ancora poco consistente, ma dal timbro chiaro: la corsa del progresso. Ormai, gli Europei hanno cambiato idea sulla storia, non la pensano più come i Farnese.

Le azioni umane, e soprattutto le guerre, non puntano alla perfezione, ma alla potenza. La storia non è un cosmo compiuto e ordinato. È invece una freccia del tempo, un continuo andare avanti. L’organismo sociale ha smesso di genuflettersi sugli altari della pia devozione religiosa.

È  diventato un predatore avido di bellezza ed energia. Il mercante è il nobiluomo al cui modello tutti aspirano. Gli edifici sono spettatori dei commerci, come gemme su una corona.

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Adesso è la volontà umana la forza di gravità del Pianeta. Gli elementi naturali perdono significato fuori della sfera di influenza degli esseri umani. È la svolta ecologica del secolo, già rintracciabile nelle nature morte di Cristoforo Munari (Natura morta con frutta e porcellana, dei primi dell’Ottocento, e Natura morta con frutta, porcellana, vetri e mandola).

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È così che gli animali perdono dignità. Nel quadro di Pier Francesco Cittadini (Ritratto di bambina con cagnolino, metà del XVII secolo) una bambina forse costretta a vestire già i panni di una piccola dama dispone a suo piacimento di un cane addomesticato. Il collare del cucciolo è troppo alto, troppo stretto. Siamo noi che, d’ora in avanti, decidiamo che vive e chi muore. E per sentirci meno crudeli, riduciamo a camerieri qualche specie di mammifero a noi congeniale. 

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E poi ci sono loro. I condottieri. Al primo piano (l’impalcatura non è adatta a chi soffre di vertigini) c’è il campione di guerra di Frans Pourbus il Vecchio, dipinto nel 1580. Ti fissa spavaldo come un hipster londinese. La sua eleganza è affilata tanto quanto la sua spada.

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Lui è della stessa razza di Alessandro Farnese, ritratto nel 1559 da Alonso Sanchez Coello, il pittore di corte di Filippo II di Asburgo, Re di Spagna. Guarda bene in faccia questi due. Facce che sono caratteri. Caratteri che sono un destino. Il tuo. Casting per un film lungo cinque secoli, di cui oggi leggiamo i titoli di coda.

Anche se siamo moderni, non siamo più progressisti di questi due giovani maschi pronti alla guerra. Siamo disumani quanto loro. Questo ragazzino di casa Farnese non ha neanche bisogno di essere arrogante. È padrone della sua volontà di agire.

E nella sua intenzione tutto è già al posto giusto, come la luce sulla sua armatura. Riconosciamo noi stessi nella sua sicurezza. Perché siamo ormai tutti coinvolti in un progetto globale che nacque nel cuore e nella mente di giovani come lui. 

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(Cover: Zaganelli, dettaglio del ritratto di Barbara Pallavicino con il padre, secondo decennio del XVI secolo)