Home » Europa » La spiritualità paradossale dell’Occidente

Gli Whig inglesi (i progressisti liberali a cui apparteneva anche la famiglia di Charles Darwin, e che governarono quasi ininterrottamente il Regno dal 1848 al 1874) sostenevano che, per quanto sconcertante fosse il successo del capitalismo marittimo, il loro partito non sarebbe mai riuscito ad alterare la chimica dell’atmosfera. Si sbagliarono. Ma in una cosa la borghesia moderna che sotterrò l’Antico Regime ebbe successo: forgiò un nuovo tipo di spiritualità. La voce nascosta e intima dell’Occidente. La spiritualità paradossale dell’Occidente. E’ questa spiritualità contraddittoria che ci fa comprendere che cosa è la sesta estinzione.

Il paradosso è la vittoria della realtà sulla presunzione. Alle soglie della Rivoluzione Francese, gli Europei si apprestano ad abbandonare la religiosità cristiana che per oltre mille anni aveva caratterizzato la loro visione del mondo. La Riforma, e poi le Guerre di Religione, erano state il fronte di attrito di un conflitto ormai inevitabile: l’ateismo avanzava sotto le mentite spoglie di una guerra fratricida tra cattolici e protestanti. È altro dalla fede, infatti, il lungo periodo (1517- 1648) punteggiato di stragi che accomunano i bagni di sangue su suolo europeo a quelli consumatisi nel Nuovo Mondo. L’Europa va scoprendo di poter dispiegare una spiritualità il cui pane consacrato non è più il Dio della Cristianità. Il sentimento, che ancora esiste, di affinità con le leggi cosmiche, la sensibilità per l’infinito e l’incomprensibile, si accorge di avere un potere molto più grande di quello che, un tempo, veniva riconosciuto a Dio. C’è una estasi, c’è un sublime che non viene da Dio. Ma dalla borghesia in ascesa.

Gli uomini, ora, sanno inventarsi un destino che ha da sé il sapore dell’infinito. Si emancipano dai vincoli degli oceani, dispongono di migliaia di vite di popoli giudicati ottusi, strani, arretrati. Lo sconosciuto non è più un nemico. È l’occasione per edificare nuovi riti. Eccolo, allora, il paradosso. Gli Europei si immaginano detentori dell’apice della civiltà nel momento in cui fanno della ferocia il dettato morale della propria spiritualità. La realtà dà loro forza, conferme, prove: hanno a disposizione un intero Pianeta. Il potenziale distruttivo polverizza la vecchia fede, che aspettava il Paradiso per stare a stretto contatto con l’assoluto. Ma la distruzione è anche un generatore insospettabile di pensiero: i diritti umani, l’opposizione alla schiavitù, i diritti del cittadino (e non del suddito), addirittura la consapevolezza dei limiti della natura deforestata senza pietà proliferano nella seconda metà del ‘700. Il contrasto tra le aspirazioni morali e la brutalità dell’impresa è dei più taglienti e vergognosi: eppure funziona. Anzi, è la prodigiosa espansione dell’impresa a dimostrare che la devastazione fonda imperi morali che aspirano alla massima concezione del bene mai pensata in Europa. 

Parigi, Ponte Alessandro III. Il bambino sembra simboleggiare la presunta innocenza dell'Occidente, che, però, si accompagna alla ferocia del leone e alla cornucopia di ricchezze che l'infanzia della civiltà assicura a se stessa attraverso la gloria delle proprie imprese oltreoceano. L'estinzione è una enorme impresa umanistica

(Parigi, Ponte Alessandro III. Il bambino sembra simboleggiare la presunta innocenza dell’Occidente, che, però, si accompagna alla ferocia del leone e alla cornucopia di ricchezze che l’infanzia della civiltà assicura a se stessa attraverso la gloria delle proprie imprese oltreoceano. L’estinzione è una enorme impresa umanistica).


Il nichilismo è quindi soltanto una delle grandi correnti che attraversano la cultura europea. Perché il nichilismo non è tanto il nulla inflitto agli altri popoli e migliaia di specie animali. Il nichilismo come intenzione di annichilire per costruire è una peculiarità occidentale e, proprio per questo, ben si accompagna alla convinzione fideistica che il “il borghese appartiene ad un genere più elevato di essere umano”. Il progresso stesso testimonia della giustizia intrinseca delle sue idee. E della provvidenza, dalla pelle bianca, si intende. Sì, il progresso nichilista ha un prezzo: ma per chi? E questo dazio è davvero così oneroso? Se le condizioni materiali degli Europei migliorano, non basta forse questo a dimostrare che l’espansione capitalista contiene il più sublime potenziale morale? La storia delle conquiste coloniali è così conclamata da rifondare la spiritualità europea. Non serve essere pii e timorati di Dio, per meritare il Paradiso. L’Eden è, invece, l’approdo finale della mancanza di scrupoli, di una purezza di intenti così lucida da travalicare ogni forma di cinismo. Non è irriverenza, e neppure indifferenza maliziosa alle sorti degli altri. È un agire incondizionato, che però aspira a costituirsi come codice morale della modernità. Questa è la voce nascosta dell’Occidente nel confessionale delle sue cattedrali. Il colonialismo razzista (estinzione) ne è il testo sacro.

Nietzsche riteneva che la sua epoca fosse una epoca di decandenza perché era una epoca di rinuncia alla crudeltà. Ma egli molto poco sapeva della ferocia coloniale.

E se Nietzsche fu un profeta quando parlò della “transvalutazione di tutti i valori”, un secolo e mezzo dopo, guardando al periodo tra il ‘500 e l’800 con il senno dei posteri, possiamo invece dire che l’estinzione è il nuovo valore della modernità e dell’uomo nuovo. È solo con il colonialismo che l’estinzione di interi ecosistemi, e interi popoli, viene normalizzata ed entra nel novero delle distruzioni necessarie a consolidare l’umano in quanto tale. 

Un essere umano moderno è colui che sa infliggere l’estinzione. Questo cittadino è umano soltanto perché tollera di convivere con l’estinzione. 

"la rivoluzione francese è il passo più gigantesco del genere umano dopo l’avvento del Cristo. Incompleta, e sia; ma sublime" Victor Hugo

(La corona di fiori per la statua del Presidente De Gaulle, Parigi, maggio 2022)

Sì, c’è stata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1793). “Il diritto ha la sua collera, signor Vescovo; e la collera del diritto è un elemento del progresso. Non importa e, checché se ne dica, la rivoluzione francese è il passo più gigantesco del genere umano dopo l’avvento del Cristo. Incompleta, e sia; ma sublime. Ha risolto tutte le incognite sociali. Ha addolcito gli spiriti; ha calmato, pacificato, illuminato; ha riversato sulla terra ondate di civiltà. È stata buona. La rivoluzione francese è la consacrazione dell’umanità”. Questo Victor Hugo fa dire al vecchio veterano della Convenzione Montagnarda.

Ma nell’Ottocento i diritti umani diventano diritti borghesi. E la particolare spiritualità degli imprenditori e dei capitani d’industria trova nella famiglia il suo nido e il suo rifugio. La famiglia è il porto sicuro del borghese, dice Eric Hobsbawm, perché funziona all’inverso della società capitalista, che ha bisogno di sentirsi buona e giusta.

“La borghesia della metà del secolo era tormentata da un dilemma che il suo trionfo rendeva tanto più acuto. L’immagine di sé che era nei suoi desideri non poteva rappresentare tutta la realtà, nella misura in cui questa realtà era fatta di miseria, di sfruttamento e squallore, di materialismo, di passioni e aspirazioni la cui esistenza minacciava una stabilità che, malgrado tutta la sua sicurezza di sé, essa sentiva precaria”.

“Il punto cruciale è che la struttura della famiglia borghese contraddiceva brutalmente quella della società borghese. Nella sua cerchia, libertà, opportunità, nesso monetario e ricerca del profitto individuale non regnavano (…) Ma è anche possibile che nella famiglia borghese trovasse espressione necessaria l’essenziale inegualitarismo su cui poggiava il modo di produzione capitalistico. Proprio perché non si basava su ineguaglianze tradizionali, collettive, istituzionalizzate, la dipendenza doveva essere un rapporto individuale”.

Il sistema è dunque contraddittorio. E sa di esserlo. Secondo Hobsbawm, anche il razzismo rientra in questa logica inconscia ed è così importante per la borghesia perché consente di trovare una ragione sufficiente per le diseguaglianze. “Il razzismo imbeve il pensiero del nostro periodo (1848-1875). A parte la sua utilità come legittimazione del dominio del bianco sull’uomo di colore, del ricco sul povero, forse lo si spiega meglio come un meccanismo grazie al quale una società fondamentalmente inegualitaria, basata su una ideologia fondamentalmente egualitaria, razionalizzava le sue ineguaglianze e cercava di giustificare e difendere i privilegi che la democrazia implicita nelle sue istituzioni doveva inevitabilmente mettere in discussione. Il liberalismo non aveva alcuna difesa logica contro la democrazia e l’uguaglianza; ecco perché si elevava la barriera illogica della razza. La stessa scienza, l’asso nella manica del liberalismo, poteva dimostrare che gli uomini non sono uguali”. 

Ma in una cosa la borghesia moderna che sotterrò l’Antico Regime ebbe successo: forgiò un nuovo tipo di spiritualità. La voce nascosta e intima dell’Occidente. La spiritualità paradossale dell’Occidente. 

(Giovanni Boldini, “Portrait de Rita de Acosta Lydig Assise, 1911, Paris, Petit Palais. Il lusso della borghesia è la giusta ricompensa per l’ascesa di una classe sociale che sbaragliò ogni avversario nella costruzione di nuovi mondi, mettendo all’opera valori morali forgiati nel crogiuolo dell’intraprendenza costi quel che costi. Oggi anche il lusso è al centro dell’uragano culturale della decolonizzazione del pensiero europeo. Tracce inedite se ne trovano, ad esempio, nel mindset di Gabriela Hearst).


I diritti umani sono dunque diventati potere. Perché non sono affatto universali, sono europei. Ma affermare che i diritti dell’uomo sono occidentali significa molto di più che giudicare l’ipocrisia della loro solo parziale applicazione sin dalla costituzione degli Stati Uniti d’America. Questi diritti umani nascono in una zona grigia, ossia nella spiritualità paradossale dell’Occidente. L’ambiguità della loro genesi persiste, anche oggi, benché se ne riconosca il valore come metro di misura sicuramente degno di includere tutti gli uomini e le donne. Non ci siamo ancora affrancati dai compromessi su cui costruimmo la nostra concezione di “uomo” e di “libertà”.

La Convenzione Mondiale per il Clima (UNFCCC), con la sua corte di stravaganti e presuntuosi summit internazionali che durano dal 1992; le discriminazioni giuridiche e i pregiudizi razziali a cui sono sottoposti gli immigrati africani che entrano nei confini della EU; l’impotenza della governance internazionale nell’arginare la distruzione degli ecosistemi; tutto questo ci dice che i diritti umani, pur dovendo essere una garanzia affinché gli esseri umani mantengano la propria umanità, non proteggono nessuno dal vizio originario che li ha lasciati fiorire in una stagione di sangue, seta e cantate di Bach. 

Che cosa volevamo, allora, quando avvertimmo il bisogno di fissare per iscritto i diritti incancellabili dell’uomo?

Noi Europei desideravamo un assoluto. Un foglio di carta che sancisse che siamo uomini perché c’è qualcosa in noi che non può essere soppresso o brutalizzato. Dovevamo stabilire un assoluto: IO ESISTO. Ma dovevamo farlo nella prassi dei commerci, nelle navi degli schiavi, nelle corti aristocratiche di Vienna e Parigi, di Stoccolma e di Londra. Non in un tempio. O in una chiesa. IO era tanto importante quanto ESISTO. Ovunque ci fosse progetto di modificare il mondo e l’ordine ereditato, ecco spuntare il diritto di essere umani. Significava licenza, permesso, opportunità. A noi sarebbe d’ora in poi stato insegnato che potevamo essere umani essendo noi stessi secondo il nostro estro. Da qui proviene il disprezzo per i diritti degli altri, che sono funzionali alle idee degli europei. Il progetto, e non Dio, diventa l’ASSOLUTO. L’infinito è raggiungibile, l’estinzione è tollerabile.

Che cosa è, quindi, ora, l’assoluto che in passato chiamavamo Dio?

La produzione. Una produzione che, però, era prima di ogni altra cosa progetto. La produzione come capacità di presa sul Pianeta, come affermazione totale, come opera di scultura di paesaggi e popoli. La vita europea intesa come massima progettualità è una delle espressioni quasi magiche del Cinquecento, del tutto analoga all’incendio di creatività artistica che pervade i successivi tre secoli. Il colonialismo stesso, quindi, deve essere studiato nelle forme di una inventiva portata sino alle sue estreme conseguenze politiche: lo sterminio. 

Che il progetto produttivo sia in grado di diventare l’unica misura delle cose, inglobandole e conferendo loro una omogeneità amministrativa, lo aveva intuito Karl Marx, che assistette alle fasi centrali di questo processo storico, non dobbiamo dimenticarlo. Marx non fu un teorico, fu un testimone. Il presupposto del progetto è la cosiddetta “crescita”, cioè la possibilità, sempre data e sempre riproducibile, di ritentare, di riprovare, di riformulare. La crescita, quindi, è il terreno di coltura dell’appropriazione degli ecosistemi e dei genocidi biopolitici, perché è essenzialmente una reinterpretazione del valore dei viventi. Il valore è la trasformazione in progetto dell’intero Pianeta. Quel che conta è la replicazione del progetto, attraverso sempre nuovi investimenti e cantieri. 

“La circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore”, scrive Marx in Il Capitale “esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura”. E allora, “di fatto, il valore diventa il soggetto di un processo, nel quale esso (…) si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso. Perché il movimento durante il quale esso aggiunge plusvalore è il movimento suo proprio. (…) Per il fatto di essere valore, ha ricevuto la proprietà occulta di partorire valore. Scarica figli vivi”.

Il timone della produzione (il carattere soggettivo del valore prodotto conquistando nuovi ecosistemi) non sta, quindi, solo nella capacità del denaro investito di far fruttare ulteriori profitti. La regia nascosta dell’intera impresa consiste anche in questo, che la originalità dei progetti degli investitori è una forza impersonale, ma autarchica e, quindi, “soggettiva”. Il profitto si auto-genera come un soggetto autonomo. Da qui vengono fuori i diritti dell’imprenditore, che assomigliano ai diritti umani europei perché anche questi diritti di libera impresa riguardano la completa realizzazione dell’uomo in sé.  Dell’uomo creatura nobile, di alti intendimenti, che non è più un barbaro, un selvaggio, un primitivo, un indigeno nudo vestito di piume e pelli di animali. L’uomo, infatti, trova se stesso mettendosi alla ricerca di nuovi mondi e di nuove frontiere. Il diritto di essere pianamente umano, tra ‘700 e ‘800, finisce con il coincidere con il diritto alla crescita economica perpetua.  

Questa intenzionalità è europea. Perciò hanno ragione i rappresentanti delle nazioni del sud globale, quando, nelle riunioni internazionali della Convenzione per il Clima, tuonano che il cambiamento climatico non è una responsabilità dell’umanità, ma solo di una parte di essa. Ma come potrebbe il nord globale, di contro, ammettere che la propria concezione di umanità risiede nella opportunità del cambiamento climatico e dell’estinzione della ricchezza biologica della Terra?

Del resto, l’intenzione precede l’azione. Di più, è il carattere a fare l’intenzione. Enrico il Navigatore (1394-1460) decise che il futuro del Portogallo erano le rotte marittime lungo la costa africana, per giungere in India, prima di approntare una politica adeguata ai suoi sogni che avrebbe ripagato la nazione decenni dopo la sua stessa morte. “C’è una vera e propria antitesi fra interpretazione e trasformazione del mondo? Non è forse ogni interpretazione già una trasformazione del mondo – posto che questa interpretazione sia il risultato di un pensiero genuino?”, si chiede Heidegger, polemizzando con Marx (Seminario di Le Thor, 7 settembre 1969).” Andando avanti nel ragionamento: “Di quale trasformazione del mondo si tratta, allora, in Marx? Di una trasformazione nei rapporti di produzione. Ma quale è il posto della produzione? La prassi. E da che cosa è determinata la prassi? Da una certa teoria che conia il concetto di produzione in quando produzione dell’uomo mediante se stesso”. 

Anche la critica al colonialismo poggia su argomentazioni che qui trovano appigli formidabili. Ma se l’Europa è l’Europa, e quindi ha pianificato il colonialismo, allora per uscire dal neo-colonialismo, dalla trappola preterintenzionale del “sottosviluppo”, dalla distruzione felice della biosfera, serve un ripensamento dei diritti umani. Occorre una messa in discussione radicale della spiritualità paradossale dell’Occidente. 

La nostra spiritualità paradossale è la causa congenita dell’inazione contro il cambiamento climatico e la sesta estinzione di massa. Se l’occasione d’oro per la fede umanistica è lo shock geografico del 1492, secondo Emanuele Severino le prime battute del nichilismo occidentale (il progetto giustifica qualunque distruzione) sono antiche tanto quanto la Grecia Classica. E uno dei poeti-filosofi che lo intuì fu Giacomo Leopardi. L’interpretazione che Severino propone delle origini del pensiero occidentale è cupa e straordinaria. Non è, almeno per certi versi, compatibile con i massimi pensatori del Novecento, i tedeschi, ma ne è all’altezza per il rigore della logica con cui Severino scandaglia i primi passi dell’ontologia greca. Soprattutto, la lettura di Severino offre una fenomenale scialuppa nell’oceano di incertezza che, oggi, avvolge il nostro tentativo di capire perché abbiamo compromesso a tal punto l’integrità del nostro Pianeta.

Nella spiritualità paradossale dell’Occidente ogni valore ancorato al contenimento e alla riduzione dell’impatto sul cosmo è destinato a implodere. I valori spirituali sono pensati per soccombere alla loro stessa forza. 

“Leopardi mostra l’inevitabilità del tramonto dei valori della tradizione occidentale, perché tutto è nulla. Le cose, infatti, sporgono provvisoriamente dal nulla. Le cose, certamente, sono qui; e anche noi siamo, qui, adesso. Ma sporgersi è trovarsi in mezzo al nulla”, spiega Severino. “Il nulla da cui le cose provengono e a cui torneranno.  Del resto, non è forse ciò che il mondo intero pensa, nella nostra epoca? Tutte le cose escono dal nulla e vanno nel nulla. E noi, in quanto abitatori dell’Occidente, pensiamo che le cose ieri non erano, domani non saranno più”.

Che cosa è questo nulla? Nascere, crescere, invecchiare, morire. Sbocciare e decomporsi. L’arrivo dell’estate e il sopraggiungere dell’autunno, come nei versi di Goethe “devo gioire del verde, cui fu grato per l’ombra? Presto la tempesta disperderà anch’esso, quando ingiallito ondeggerà in autunno”. La presenza del nulla è il problema della co-presenza del giorno e della notte nel tornare di ogni alba e di ogni tramonto. E’ uno dei problemi originari contro al quale nasce il pensiero filosofico.
Severino insiste sulla natura di questo morire ritornando nel nulla. È il divenire degli enti, il loro “diventare altro”. Qui starebbe il punto zero della disinvoltura europea. Sin dal suo inizio greco il pensiero occidentale ha posto al centro della sua attenzione questo scorrere e scivolare via, temendolo con “angosciato terrore”. La morte, infatti, è la forma più estrema del “diventare altro”. L’evoluzione delle specie animali è diventare altro. La geologia della Terra vecchia di 4 miliardi e mezzo di anni è diventare altro. Il clima che cambia è diventare altro.

“Dio creò il mondo dal Nulla. Ma anche il Nulla ha un sapore” Paul Valery

Il Nulla, allora, è il contesto vitale (tremendo ossimoro) in cui comprendere ciò che esiste. “Questa è la radice della crisi che constatiamo oggi, che però è anche la radice dello sviluppo della civiltà occidentale, ossia la persuasione”, dice Severino, “che le cose diventano altro, così altro da diventare morte. Il venire da altro è così radicale che significa venire dal nulla. Ma, in questo modo, la morte è ancora più angosciante. I morti potevano tornare, ma dal nulla non si ritorna”. Nell’evidenza dell’accadere l’uomo occidentale suppone di scorgere che nulla è eterno. Nessun valore, e neppure Dio. Neppure la pietà cristiana o la integrità fisica degli uomini e delle donne africane in catene. Neppure la natura, che per Leopardi è indifferente e distaccata, amorale, perché tutto è nulla. 

Severino: “Se il mondo è pieno di cose che sono state fatte per essere distrutte, se anzi il mondo stesso nella sua totalità è un bene di consumo, il bisogno fondamentale dell’uomo nel mondo non può che essere quello di consumare il mondo”.  

Eppure, nel deserto di tutti i deserti, fiorisce pur sempre la ginestra. Ed anche questo, dunque, è l’uomo. Un vivente che può osservare un cespuglio di ginestra

Quindi, che cosa dovrebbe essere un diritto umano assoluto e inalienabile, nel XXI secolo? 

È un diritto riscritto sulla storia globale, non solo sulla storia europea, e sulle conseguenze dell’impresa capitalistica occidentale. La storia globale è la totalità dell’esperienza umana sulla Terra, che comincia con le prime scimmie del Miocene (4.5 milioni di anni fa) e arriva ai giorni nostri. La storia globale è la possibilità di pensare al di là del successo europeo. La storia globale è il  ridimensionamento di un pensiero che è stato certo grandioso, ma nondimeno riduttivo nella sua concezione dell’essere. La storia globale è sentimento di vergogna e ardente volontà di sopravvivenza.

Nell’appena aperto IAAM (International African American Museum) di Charleston, in Carolina del Sud, la storia globale è fonte di ispirazione nera/bianca per incontrare il vuoto che ci portiamo dentro pretendendo di essere civili mentre da secoli coltiviamo una spiritualità corrotta. Gli Europei non sono mai stati la cifra del mondo. 

Nelle parole della direttrice, Tonya Matthews, “IAAM mostra le culture e i sistemi di conoscenza che appartenevano agli Africani e che furono poi adottate dagli uomini e dalle donne africane nelle Americhe, ma anche in tutta la diaspora africana. Quindi IAAM racconta la storia di come gli Africani e gli Americani Africani hanno dato forma ad ogni aspetto del nostro mondo”. L’Africa Occidentale e Centrale (i principali bacini di prelievo di esseri umani) “ospitava antichi imperi e società con culture complesse, lingue proprie e tradizioni spirituali. Vi fiorirono estesi e variegati sistemi di conoscenza: queste erano regioni influenti. Le loro distintive radici africane hanno disegnato la cultura del mondo atlantico”. 

IAAM appartiene ad una nuova tipologia di musei in cui comincia ad apparire il sentiero giovane che percorreremo nei prossimi decenni. Per questo IAAM è anche il luogo in cui celebrare la resistenza delle comunità afro-americane, che non si sono estinte nonostante i progetti di estinzione ideati apposta per loro. Dalla loro “capacità di gioia” (Tonya Matthews) nonostante tutto viene una lezione inattuale, inaudita, per il viaggio che molti di noi vorrebbero intraprendere verso una nuova carta dei diritti fondamentali delle donne nere/bianche e degli uomini neri/bianchi. 

Non sono tutti d’accordo. L’Europa non è d’accordo. Nelle più prestigiose università britanniche (Oxford, Cambridge, UCL London) brillanti docenti protestano contro la pretesa degli storici del colonialismo di rivelare i legami delle accademie inglesi con il traffico degli schiavi e le piantagioni americane o caraibiche. Noi Europei non siamo affatto pronti a sentirci meno virtuosi di come ci immaginiamo. Natalie Zacek, storica che insegna alla University of Manchester, spiega la ritrosia del mondo accademico a fare chiarezza sulle ombre del passato imperiale, e l’ostilità di parte dell’opinione pubblica, con il disagio verso una richiesta morale eccessiva. 

“Le persone si arrabbiano soprattutto perché dietro questo tipo di ricerca storica, o nella rimozione di simboli specifici come le statue e i nomi di personalità del passato, intravedono la spinta a un cambiamento; avvertono che, in qualche modo, dovrebbero sentirsi colpevoli. Non credo che le cose stiano effettivamente così. Nessuno dice a nessuno, sei una persona spaventosa perché hai la pelle bianca. Il nostro intento è un altro, vogliamo mostrare che c’è anche una seconda parte della storia”. 
Il fastidio, tuttavia, non è fondato tanto su una rimozione quanto piuttosto sulla naturalità della colpa. Una colpa sentita come spontanea, congenita, smette di essere una colpa. Diventa un privilegio, un destino, una abitudine. Diventa Mondo. Un Europeo non può rinnegare di essere europeo. Il diritto naturale europeo è un carattere, una predisposizione, un successo clamoroso che nessuno può azzardarsi di negare semplicemente perché i capolavori della civiltà sono sotto gli occhi di tutti. O vogliamo negare l’evidenza?

Per qualcuno, quindi, l’attacco al colonialismo appare come l’ennesima moda dell’epoca post-diritti civili, un’epoca in cui l’invenzione di nuovi codici morali per il passato dovrebbe fornire energia ad una critica sociale annegata in se stessa (nel predominio incondizionato del capitalismo). Questo è il caso, ad esempio di David Abulafia, storico di Cambridge, un luminare della storia del Mediterraneo medievale, tradotto anche in Italia. “Cambridge sta cedendo alla sindrome del risveglio”. Ha detto Abulafia a The Guardian: “ciò che mi preoccupa è che la politica, oggi, si intromette nel metodo con cui interroghiamo il passato. Bisognerebbe saper raccontare cosa è accaduto senza cedere al moralismo o alla moralizzazione dello stato attuale del mondo”. 

La storia “è fatta dall’accumulo di fatti concreti, nel modo più accurato e attento possibile. È un grosso pericolo manipolare il passato per favorire interessi politici, di cui uno sarebbe che l’ascesa dell’Occidente fu raggiunta attraverso l’applicazione sistematica di pratiche razziste (…) Non ritengo che abbia un senso rintracciare la dimensione dei profitti che dal traffico di schiavi finì nelle mani degli alunni di Cambridge, che poi convertirono queste risorse finanziarie in opere di beneficienza. É molto complicato cercare di confrontarsi con valori che sono così differenti dai nostri”. 

Ma i diritti umani del XXI secolo dovrebbero essere misurati su ciò che abbiamo fatto e non su ciò che avremmo voluto essere. La Convenzione francese del 1792 aveva il compito di redarre una carta dei diritti essenziali dei cittadini concepita sulla società che respingeva il principio monarchico e la ereditarietà del potere. Noi dovremmo parlare di diritti alla luce dei crimini commessi dal colonialismo e dal capitalismo, delle 418 ppm di CO2 in atmosfera e della sesta estinzione. 

I diritti umani contemporanei, dunque, dovrebbero essere privati dell’ossessione per l’IO (l’IO europeo). La sesta estinzione e gli incendi che bruciano il Pianeta rendendolo inabitabile per tutte le sue specie sono espressioni di questo IO sentimentale che impone se stesso, a qualunque costo. E lo fa, pur di tenere lontani gli africani, attraverso accordi pirateschi con governi autoritari che impongono sul suolo nazionale legislazioni razziste, come la Tunisia. E lo fa fregandosene della defaunazione progressiva di ogni ecosistema del Pianeta, come se vivere in un mondo senza animali fosse una conversazione da salotto per gente annoiata e delusa, che non si aspetta più nulla dalla vita. E lo fa, nonostante “sia finita l’epoca del cambiamento climatico e sia iniziata quella dell’ebollizione della Terra” (Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite). Questo IO iper-reattivo che non riesce a vedere ciò che è evidente perché neppure l’evidenza gli basta più per tenere a bada la sua angoscia del nulla. 

(Foto in apertura: Georges Coursât dit Sem (1863-1934), “Chez Voisin”, 1904. Paris, Petit Palais. I codici morali della borghesia esprimono la spiritualità paradossale dell’Occidente).

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