La storia globale incarna l’estinzione

(Jasmine Nilani Joseph, Kelani Abass, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini)

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La storia globale incarna l’estinzione: la porta dentro e attraverso i corpi degli uomini e delle donne, aprendo ad una nuova comprensione del destino delle specie animali, senza i quali quelle storie umane non sarebbero mai state possibili. La storia globale è la storia totale: ricostruisce i modi in cui, durante gli ultimi cinque secoli, ha preso forma la interdipendenza tra uomini ed ecosistemi. Non possiamo capire che cosa è successo agli animali, finché non capiamo che cosa è successo a noi. Ma abbiamo anche bisogno di capire che cosa sia la sesta estinzione. E per farlo servono nuovi significati. I significati sono frammenti del Mondo: fatti, accadimenti, esperienze, opere d’arte, infrastrutture, collisioni, conflitti armati, materiali, colori, tempeste, oggetti. Non dati scientifici nudi e crudi: ma le personificazioni e le scarificazioni di chi (esseri umani, specie animali, habitat) ha visto la propria esistenza completamente modificata e alterata, compromessa e sfregiata dall’uso sistematico dell’estinzione. La storia globale si inserisce qui. È la “verkörperte Geschichte” (storia incarnata) su cui lavora l’artista australiano Daniel Boyd. 

Nelle arti visuali la storia globale è diventata una caratteristica dominante. Le arti visuali danno oggi un contributo essenziale alla comprensione di cosa significa vivere nel tempo della sesta estinzione di massa, invadendo (fortunatamente) tutti i campi finora recintati dei saperi ecologici tradizionali. Queste ispirazioni artistiche lavorano sul tempo storico. Un tempo che, essendo planetario, è un tempo lungo, anzi lunghissimo: copre interi secoli. Siamo da molto a stretto contatto con l’estinzione. L’estinzione è diventata storia globale. La cancellazione di interi gruppi di viventi è quindi intrecciata con le storie di migliaia di generazioni di uomini e donne, attraverso le epoche, le rivoluzioni tecniche e tecnologiche, i rivolgimenti politici, le guerre mondiali e le rivoluzioni. La nostra familiarità con la morte programmata è antica. 

Berlino è uno dei luoghi in cui fare esperienza di questi significati. Berlino è una delle capitali del pensiero sull’estinzione. Berlino è, insieme a Parigi, la capitale europea della diaspora africana. È uno dei luoghi in cui le contraddizioni mortali del nostro secolo rimangono allo scoperto, senza che nessuno si preoccupi di nasconderle. Sono lì, sotto il sole. Chiunque le può guardare. Provando vergogna o fame di giustizia. 

Al GROPIUS BAU (Niederkirchnerstraße, Kreuzberg) è in corso una mostra comprensiva del lavoro di Daniel Boyd, RAINBOW SERPENT (VERSION), che non poteva cadere in momento più propizio. Bussavamo da troppo tempo alla porta del colonialismo, senza neppure sapere perché vi fossimo giunti davanti. Adesso qualcuno è venuto ad aprirci. Eravamo attesi! Siamo nel pieno della disintegrazione degli equilibri ecologici-politici successivi alla primavera del 1945. Non c’è occasione migliore per parlare di quanto coloniale sia la società europea attuale. 

Boyd pensa la storia coloniale del suo Paese natale, l’Australia, da vent’anni. “I suoi lavori interrogano le tradizionali prospettive euro-centriche. Rendono visibili i metodi coloniali della ricerca naturalistica e l’annientamento culturale imposto dal colonialismo, che erano profondamente simili. Boyd mette in discussione questa impostazione contrapponendole i legami delle Prime Nazioni con la natura, l’ambiente-habitat e le pratiche di cura e responsabilità di quelle genti. Attraverso una lettura critica dell’arte e della storia dell’immagine occidentali, Boyd pone le sue immagini in contrasto con gli schemi e i codici dell’arte antica, dell’iconografia antropologica e degli effetti che tutto questo ha avuto sulla cultura iconografica più recente. Le scelte di Boyd sono diventate anche una tecnica pittorica, una estetica, che poggia sulla opacità”. 

(RAINBOW SERPENT : la prima immagine è Gemälde, Archivkleber und Siebdruck auf Polyester, 41 x 31 cm – Foto: der Künstler und STATION, Melbourne; le successive Daniel Boyd, RAINBOW SERPENT (VERSION), Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto Luca Girardini)

L’opacità è l’ambiguità di fondo delle categorie del pensiero occidentale. Il mondo, con tutti i suoi viventi, viene catalogato e omologato alle strutture economiche che hanno preso il sopravvento su ogni altra alternativa. L’economia diventa bio-politica e la bio-politica si trasforma, nel corso dei secoli, in una impressionante e sempre più potente forma di livellamento, di adeguamento, di accordo. Nel quadro “Sir No Beard” Boyd riassume la circolarità oceanica delle politiche coloniali e delle politiche di estinzione (innestate dentro gli apparati di conoscenza scientifica) nella figura di Joseph Banks. Chi era Banks? “Fu colui che finanziò ed accompagnò il viaggio di Cook sulla HMS Endeavour (1768-1771) da Londra all’Oceania, fino in Australia. Banks era amico di Giorgio III, re di Gran Bretagna e di Irlanda, e quindi utilizzò le sue conoscenze botaniche per consolidare e costruire l’impero britannico. Avviò le piantagioni di tè in India e fece trapiantare l’albero del pane da Tahiti alla Giamaica, perché potesse essere utilizzato come alimento a buon mercato per la popolazione di schiavi dell’isola caraibica”. 

Nella storia globale le similitudini tra colonialismo ed estinzione sono evidenti. Nel colonialismo la negazione del passato altrui (come ebbe a dire il britannico Hugh Trevor-Roper, uno dei più eminenti studiosi del Nazismo, “gli africani non hanno storia”) funziona come legittimazione della espropriazione territoriale e dello sterminio fisico. Ma non solo lì: gli ecosistemi sbranati e svuotati fino al midollo, estinti, sono privati del loro passato ecologico (la diversità di specie). La memoria evolutiva degli habitat e delle comunità animali è trattata esattamente come il patrimonio linguistico e culturale delle nazioni native. Ripristinare il diritto a ricordare è quindi essenziale per recuperare dignità. Non c’è giustizia riparativa (“restorative justice”) quando il patrimonio naturalistico e culturale è soggiogato da politiche di oblio e di annientamento. 

Questa spinta post-coloniale ha una sostanziale connotazione politica, perché va in contro tendenza rispetto alla predilezione della nostra epoca per ciò che Peter Sloterdijk ha definito la morte del passato: “il rigetto delle nostre memorie oscure e cariche di pathos” nel “Lete del Capitalismo”. Osteggiare e contrastare questa indolenza è un compito che spetta alle periferie del Mondo, a quei gruppi di pensatori (non fa differenza se artisti o scrittori) che conoscono l’isolamento e l’emarginazione come esercizio di potere, di conformismo imposto per via ereditaria, di semplificazione del reale per cementificare lo status quo. 

Del resto, escludendo i nessi tra colonialismo ed estinzione la storia ufficiale non può che ridursi ad una storia politicizzata. Distorta, in altre parole, dalle logiche di potere che presiedono alla organizzazione-mondo in cui viviamo oggi. Più è dato per scontato lo status quo, come prodotto perfetto e inevitabile del “progresso” occidentale, maggiore sarà l’impatto della continua procrastinazione nell’affrontare la crisi ecologica globale. Nessuno si preoccupa dell’estinzione, se non sa che estinguere il Pianeta è un elemento costitutivo del benessere sociale. Perciò il colonialismo e l’uso sistematico dell’estinzione si assomigliano anche nelle pratiche di strumentalizzazione della responsabilità storica. I crimini (ecocidio e genocidio) vengono presentati come fattori indipendenti dalla coscienza sociale collettiva, come “deus ex machina” di forze politiche estranee alla cristiana moralità pubblica, come volontà storicamente circoscritte, del cui lascito liberarsi il più in fretta possibile. Nella storia globale incarnata, invece, la responsabilità storica è sulla scena come domanda della coscienza, come voce interna alla cultura occidentale. È, quindi, una partecipazione totale alla vita della comunità, nelle sue eredità culturali e nelle sue prospettive sul futuro. 

“Voglio che la gente comprenda che la crisi ambientale è legata a doppio filo alla cultura del nostro mondo, a come ci poniamo gli uni nei confronti degli altri”, ha detto Wendy Nālani E Ikemoto, curatrice della mostra NATURE, CRISIS, CONSEQUENCE, in corso alla Historical Society di New York, che mette a confronto le tele più famose del naturalismo americano (la pittura della wilderness) con le opere degli artisti dimenticati appartenenti alle comunità spazzate via dal Sogno Americano nel Nuovo Mondo. “Non è soltanto un problema di scienza e numeri, è una questione che non possiamo scindere dall’atteggiamento sociale. Perché la crisi ambientale è in definitiva anche una crisi dei diritti civili?”. 

La storia globale è corpo di uomini e donne nella vita quotidiana. Anche quando questi uomini e queste donne, a milioni, sono scomparsi negli abissi oceanici e nel buio della economia-mondo. Questo occorre capire per capire la sesta estinzione, la sua normalità, la sua consequenzialità, la sua ovvietà. La nostra conclamata storia europea è fatta delle esistenze di culture escluse dalla idea che pretendiamo di avere di noi stessi. 

Le storie globali possono essere utili anche nel de-mitizzare le strutture coloniali. Su questo c’è al GROPIUS BAU una seconda mostra, INDIGO WAVES AND OTHER STORIES: RE-NAVIGATING THE AFRASIAN SEA AND NOTIONS OF DIASPORA, che riunisce i contributi di artisti, cineasti, musicisti, scrittori e scienziati. “Il gruppo descrive i legami tra Africa e Asia e restituisce un significato alle sovrapposizioni prodotte dai trasferimenti e dalla diaspora tra questi due continenti. L’Oceano Indiano è l’orizzonte comune di queste storie”. Sono le “sotto-correnti di un intero organismo acquatico, l’Oceano”, come hanno detto i due curatori, Natasha Ginwala e Bonaventure Ndikung. Ndikung è di origine camerunese e il 16 marzo scorso è stato nominato Direttore della HKW di Berlino, il tempio delle arti visuali contemporanee e della ricerca artistica sull’Antropocene, il primo accademico non europeo a ricoprire una carica così importante per il futuro dell’Europa e dell’Africa. 

(Shiraz Bayjoo, Installationsansicht – Foto: Luca Girardini; Rossella Biscotti, Jack Beng-Thi, Sim Chi Yin, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini; Adama Delphine Fawundu, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini; Lavanya Mani, Spectral Objects (aus dem Buch der Wunder), 2019. – Natürliche Farbstoffe und Handstickerei auf Baumwolle, Stoff, Bildende Kunst / Textilmalerei, 183 x 305 cm (Triptychon) -Foto: Anil Rane, courtesy: die Künstlerin und Chemould Prescott; Jasmine Nilani Joseph, Kelani Abass, Installationsansicht, Gropius Bau (2023)- Foto: Luca Girardini)

“Questo progetto riconosce secoli di incremento culturale attraverso gli scambi, che risuonavano da una costa all’altra. Tecnologie maturate nello stomaco della creatività, geografie sacre elaborate dal cosmopolitismo oceanico, lingue ibride e lingue ormai perdute, onde acustiche e musicali finite sulle spiagge, che trovarono cantanti e autori anche loro spiaggiati, finendo uniti in uno spazio fluido”, spiegano Ginwala e Ndikung.  Onde in viaggio “dal Gujarat a Mombasa, fino a Sumatra e al Madagascar”. 

Le geografie oceaniche indiane sono oggi il contesto di storie di Antropocene. Mauritius, ad esempio, isola tropicale che cominciò la sua storia coloniale nel XVI secolo, contesa tra Olandesi ed Inglesi. Nel 1974 il gheppio delle Mauritius (Falco punctatus) era ridotto a soli 4 esemplari. Un programma intensivo di allevamento in cattività è riuscito a riportare oggi la specie a 350 individui. Ma le nuove popolazioni di gheppio, forse già in inbreeding, quasi estinte dagli uomini e riportate indietro da sforzi umani in un ecosistema profondamente mutato, hanno la loro chance di sopravvivenza grazie ad un albero che all’inizio della loro storia ancestrale a Mauritius non esisteva: un tipo di palma chiamata “albero del viaggiatore” o “ravenala”, originaria del Madagascar e introdotto a Mauritius nel 1751. Il ravenala è una specie invasiva, che compromette in modo irreparabile il ciclo di vita di almeno altre 1000 specie endemiche, ma è diventato un habitat ideale per i gechi dalla coda blu, la preda prediletta dai gheppi. Tutte le specie di alberi con profonde cavità che nei secoli passati ospitavano i gheppi e i gechi sono scomparse, falcidiate dalla deforestazione. Che fare, allora? A quale specie dare la priorità? Ogni biografia di uomini e animali è intrisa di storicità coloniali e antropoceniche.  

INDIGO WAVES si sposta molto lontano rispetto alle comuni prospettive sulla traversata atlantica, il passaggio di mezzo, la triangolazione dall’Africa Occidentale ai Caraibi, “per allargare lo sguardo e incrociare anche le traiettorie di coloro che si misero in mare per amore, per lavoro, perché erano dei pellegrini o sognavano di conquistare qualcosa”. 

Ma “navigare a ritroso significa anche cartografare di nuovo, e cioè riflettere sui limiti e le falsificazioni dell’avventura cartografica come epistemologia. Ci sono da disegnare nuove mappe che non facciano più affidamento su dinamiche di potere, il cui scopo finale era sempre lo sfruttamento di massa e atrocità varie. Nuove mappe vuol dire creare relazioni in più direzioni, strutture ricavate da nuovi modelli di affinità piuttosto che inimicizia piantate nel terreno dall’immaginario coloniale”. 

Anche noi Europei dobbiamo essere stanchi dei vecchi racconti, e delle mappe consunte e stropicciate. Possiamo progettarne di completamente diverse, non importa quanto traballanti e imprecise. Si può anche navigare alla deriva, per qualche giorno. Anche la deriva ha qualcosa da insegnare. Ad esempio, come prendere commiato dal pregiudizio più atroce inscritto nelle logiche di estinzione ormai assorbite insieme al latte materno, nella vecchia Europa: non c’è un altro Mondo possibile !

La sesta estinzione è una nuova dimensione della realtà

La sesta estinzione di massa è una nuova dimensione della realtà, che costringe le comunità umane globali a guardare in faccia l’ipotesi di un caos in espansione.
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La sesta estinzione è una nuova dimensione della realtà, che costringe le comunità umane globali a guardare in faccia l’ipotesi di un caos in espansione. Il caos è l’instabilità, la precarietà e la fragilità delle società moderne interdipendenti che cercano di sopravvivere utilizzando schemi economici, giuridici e storici ormai obsoleti. Alcuni ricercatori lo chiamano “poli-crisi”, sovrapposizione di più fronti di crisi contemporaneamente. Ma il caos è anche la sensazione che si debba andare in cerca di modelli alternativi sprofondando, almeno per ora, nella consapevolezza del disastro, della perdita, dell’irreversibile. 

La sesta estinzione è una compenetrazione reciproca di fenomeni biologici in divenire (evoluzione dei viventi, età dei mammiferi, fine del Pleistocene, cambiamento climatico) e intenzioni umane. È una azione contraddittoria del Pianeta sugli uomini e degli uomini sul Pianeta. È una faglia in movimento e in continua frizione da almeno 5 secoli, che pone interrogativi senza risposta e genera disordine con le sembianze, invece, di un ordine incontrovertibile (la civiltà moderna tecnologica, gli Stati nazionali, i mercati, le Borse, la crescita). 

Lo “specicidio” è storia fatta e subita dagli esseri umani. Subiamo le conseguenze dello spopolamento degli ecosistemi, ma ne siamo noi i fautori. Scivoliamo dentro un mondo più caldo di forse 4 gradi Celsius entro pochi decenni, ma siamo noi ad aver bisogno dei combustibili fossili. Queste epopee di distruzione consapevole e però anche inconscia sono tra le narrazioni più potenti e seducenti del XXI secolo. La storia fatta dagli uomini per gli uomini è sostanzialmente il mito europeo del progresso, che nasce con la grande frattura del Cinquecento. La storia subita dagli uomini è il reagente chimico indispensabile per il progresso: il genocidio che lavora in sincrono con l’ecocidio, spingendo a forza le pratiche di sterminio dentro le prassi di costruzione degli Stati nazionali e delle loro economie moderne. 

La coscienza moderna, per essere davvero moderna, deve imparare a tollerare la convivenza con la morte. Questo è il senso ultimo della mania per la classificazione che emerge ovunque nel pensiero scientifico e antropologico dell’Ottocento e del primo Novecento. Ma le tassonomie ritenute moralmente valide (bianchi, neri, selvaggi, civilizzati, animali con nomi indigeni, animali con nomi in latino) servivano essenzialmente per normalizzare lo sterminio. Ecco perché l’estinzione dei “popoli condannati a scomparire” e delle specie “ostacolo all’agricoltura e ai villaggi” è una assuefazione alla morte con uno obiettivo molto pratico, utilitaristico, efficiente. La sesta estinzione non è nichilistica. È pragmatica. È imparentata con la logica, una attitudine tipicamente europea. La sesta estinzione è quindi anche un discorso critico di sintesi sul carattere della civiltà europea. 

Questo stanno rivelando i sempre più numerosi studi, denunce e reportage pubblicati negli Stati Uniti sulla raccolta e il furto delle salme dei Nativi Americani, dopo le battaglie di sterminio, destinate alle sale e ai laboratori di ricerca dei musei e delle principali istituzioni scientifiche americane. 

Il desiderio per le raccolte scientifiche e le idee contrapposte sulla razza e la storia dell’umanità contribuirono ad  alimentare la proliferazione delle collezioni di ossa, che superavano di gran lunga lo spazio disponibile nei magazzini e finivano qualche volta per comparire nella sale dei musei e nelle gallerie dedicate all’esposizione al pubblico. Esperti di fisiologia e di anatomia che avevano vissuto la Guerra Civile erano diventati ben disposti nei confronti dell’uso degli scheletri umani a scopo scientifico. Alcuni di loro cercarono così di essere coinvolti direttamente in progetti di questo tipo. Quelli che ci riuscirono litigavano su come catalogare nel modo più corretto le razze, come prendersi cura dei corpi e inserirli poi nell’ampio racconto della storia umana. Su una cosa erano però tutti d’accordo: allestire ‘stanze delle ossa’ (bone rooms) era una progetto di valore indiscutibile”. Si calcola che nei musei americani ci siano qualcosa come 110mila resti di altrettante persone, uomini e donne, Native Americane. L’Europa non è immune da questi scenari di epidemiologia dell’estinzione. Il Kultur Besitz di Berlino, l’autorità che presiede all’organizzazione delle istituzioni culturali della capitale, possiede 5.500 teschi di uomini africani giunti a Berlino per gli stessi motivi, la cosiddetta Collezione Luschan

Corpi, dunque. Storie americane che sono storie europee, che sono storie africane. Nella ricostruzione analitica degli stermini di specie le geografie si sovrappongono. Solo una ecologia globale può sfruttare in modo davvero efficiente l’eliminazione, la soppressione o la sostituzione di intere specie e di interi popoli. Esattamente come accadde per il cotone, il tabacco, lo zucchero e poi il carbone e il petrolio.

Le estinzioni moderne, che proseguono ancora oggi, sono quindi la corrente del tempo storico attraverso i nostri corpi. Questa posizione dei corpi reali, tangibili, nei discorsi sull’estinzione è centrale per toccare l’entità del problema che non è solo ecologico, è anche emotivo e spirituale. Gli effetti della distruzione entrano nei nostri tessuti, dentro le nostre cellule (particolati chimici di sintesi o da combustione, microplastiche nel cielo, particelle radioattive). E quindi la distruzione, attraverso l’organismo, diventa pensiero della catastrofe e della ribellione. Ma questo dolore è della stessa origine della crudeltà patita da milioni di schiavi africani (anche quelli decomposti nell’Atlantico perché buttati fuori bordo dalle navi negriere durante la traversata e quindi entrati nella catena alimentare di uomini e animali), di afro-americani senza diritti civili negli Stati Uniti fino agli ’60 del secolo scorso, dei neri brutalizzati dalla polizia nelle città americane e degli africani umiliati dalle autorità europee nelle periferie mefitiche e marce delle nostre capitali e della buona coscienza post-umanista. 

Non la coscienza, ma il corpo moderno è il centro produttore di significato della sesta estinzione, perché è il corpo ad elaborare la intelligenza-mondo che ci mette in connessione primordiale (deep time) con gli altri viventi. Quindi il corpo è diventato un protagonista degli sforzi battaglieri per immaginare una alternativa che non tradisca la nostra corporeità (il bisogno di gioia) senza però rinnegarne l’appartenenza al mondo degli enti (la Terra) nel senso più ampio possibile. Siamo in bilico sui confini del corpo e della mente, ma è il corpo a ricordare continuamente che il Pianeta è ferito e che questa ferita è il tatuaggio della nostra genetica.

La sesta estinzione è anche una implosione della temporalità. Saltano le stagioni, i solstizi, e spuntano, anche qui in modo non deterministico, pressioni di adattamento ecologico sulle specie vegetali e animali rapidissime e insolite. Le fioriture, i pollini, il tempo della riproduzione: tutte dimensioni del vivere su questo Pianeta alterate e sconvolte. Per queste ragioni la sesta estinzione di massa è anche una incursione quotidiana nell’impossibile. In ciò che non avremmo mai pensato potesse succedere, e invece succede. O potrebbe succedere presto. La morte della neve, la morte della pioggia, dei temporali, le siccità senza speranza, le morie di insetti, l’oblio dei grandi mammiferi. L’impossibile si incunea nell’assenza di pensiero che caratterizza il nostro tempo. E così l’impossibile-impensabile diventa l’unico non-pensiero socialmente lecito ed accettabile. L’estinzione è una esperienza del vuoto. Per questo una compagnia bio-tech privata del Texas può progettare (non pensare, progettare) di resuscitare il dodo. 

Naturalmente tutto questo sfuma in un fatto non meno preoccupante. Non sappiamo ancora abbastanza delle estinzioni di massa. Sono stati appena pubblicati i risultati di una scoperta paleontologica eccezionale avvenuta in Cina nel 2015, nello Guiyang. I fossili di creature marine tornati alla luce datano 251 milioni di anni fa, nel periodo immediatamente successivo alla estinzione di massa del Permiano (la cosiddetta “madre di tutte le estinzioni”, che spazzò via l’80% delle specie oceaniche). Finora si riteneva che la vita avesse impiegato milioni di anni per riprendersi, ma il sito dello Guiyang potrebbe dimostrare il contrario. E questa è una notizia che potrebbe avere peso nel modo in cui interpretiamo i dati attuali sulla defaunazione della Terra

“I fossili che Dai e i suoi colleghi hanno raccolto dall’ecosistema di Guiyang comprendono una piramide completa di animali che formano la catena alimentare, i foraminiferi unicellulari, che si nutrivano di alghe marine sulle spugne, gli organismi bivalvi, gli antenati delle attuali aragoste e, infine, i pesci predatori. Una diversità biologica sorprendente considerato che siamo subito dopo un evento di estinzione di massa (…) Secondo Dai, che ora è alla Università della Borgogna, in Francia, l’apparire così improvviso del biota di Guiyang mette in questione il modello a tappe di recupero degli ecosistemi. Una ripresa più veloce potrebbe invece essere possibile, a partire dai sopravvissuti. Un indizio sarebbe la rapida diversificazione dei pesci predatori (all’apice della catena alimentare): forse gli ecosistemi complessi non scomparirono del tutto nella estinzione planetaria del Permiano”. 

Ogni singolo aspetto dei processi di estinzione del nostro secolo è un condensato della storia degli ecosistemi. La profondità del tempo eco-storico non può mai essere dimenticata, perché restituisce al nostro presente il suo spessore, la sua consistenza, la sua ontologia essenziale. La sesta estinzione è un capitolo della storia del Pianeta perché è un passaggio della storia degli uomini. Ancora una volta, due storie che si completato l’una dentro l’altra. Perciò questo secolo è anche l’epoca della ricostruzione della Storia, quella passata attraverso il setaccio della comprensione e del giudizio morale. L’Europa è solo all’alba di una simile stagione, eppure addentrarvisi senza paura è uno dei compiti più civili e umani dei decenni a venire. Pur fra immani difficoltà, siamo tutti debitori dello sforzo di “rebuilding” delle “popolazioni indigene de-coloniali” che sono sopravvissute ai genocidi coloniali e fanno sentire la loro voce ovunque questa voce possa alzarsi nell’azzurro del cielo. I Nativi Americani hanno parole per noi Europei. Così come le hanno gli Africani. Queste parole, ancora incerte e balbuzienti, sono i semi del nostro futuro condiviso durante l’estinzione di massa. Questi semi germoglieranno, se lo permetteremo, con tutto il nostro coraggio e tutta la nostra vergogna (per aver commesso il fatto). 

(Una scolaresca di bambini in vista al Musée du Quai Branly, il museo etnografico più importante d’Europa che potrà diventare uno dei punti nevralgici di una storia condivisa, post-coloniale, in cui l’arte africana avrà il ruolo che le spetta nel grande affresco del genio umano)

È chiaro, la sesta estinzione è un trauma intergenerazionale, perché è il risultato di genocidio ed ecocidio combinati su un arco temporale di 5 secoli. È la chiave di lettura della frattura fenomenologica ed ermeneutica del Cinquecento, come aveva capito perfettamente Michel Foucault, che pur non la nomina mai. Possiamo capire di più della sesta estinzione guardando un quadro di Vermeer che seguendo un documentario del National Geographic. Eppure, proprio per questo, la sesta estinzione è anche una sfida a tutto ciò che siamo già diventati, e a migliorarlo. A consumarlo fino in fondo, per ripensarlo per intero. Nessuno ha descritto questo tempo di “infezione” e attivismo (voglio vivere!) come Donna Haraway: “l’estinzione non è un punto, un singolo evento, ma più una soglia estesa o una sporgenza. È una morte lenta e prolungata che disfa le grandi trame che intessono i modi in cui molte specie, incluse le persone storicamente situate, procedono nel mondo (…)  il dolore è un percorso verso la comprensione della vita e della morte aggrovigliate e condivise con gli altri; gli esseri umani devono con-piangere, perché noi stessi siamo dentro e proveniamo da questo tessuto del disfare. Senza questa consapevolezza duratura, non possiamo imparare a vivere con i fantasmi e di conseguenza non possiamo pensare”. 

La felicità è una questione ecologica

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La felicità è una questione ecologica, ed è per questo anche una questione politica. Anzi, una delle sfide più opprimenti che l’uomo di oggi si trova ad affrontare è come essere felici nell’epoca della sesta estinzione di massa e di un Pianeta a 417 ppm di CO2 in atmosfera. Come trovare la propria gioia sapendo che la Terra è contaminata, avvelenata, sfregiata dalle azioni umane? Come può ogni singola esistenza non essere in contraddizione con la presenza vitale della biosfera? Ma soprattutto: possono individui radicalmente infelici divenire dei radicali rivoluzionari?

Se la civiltà è diventata un peso per la Terra, allora lo è anche ciascuno di noi. La felicità è un affronto, una esagerazione, un vizio. La felicità è un capriccio, una offesa, una deformità. Ma non è solo lo scrupolo morale a stringere d’assedio la coscienza e l’intelligenza. La sopravvivenza pura e semplice, in tempi come i nostri,  sembra ormai la migliore opzione possibile. Un esercizio di buon senso. “Che mi può offrire ancora il mondo?/ ‘Rinunciare tu devi, rinunciare!’ / è questo l’eterno motivo che suona all’orecchio di tutti/ che, per la vita intera / rauca ci canta ogni ora”, fa dire Goethe a Faust. La felicità è una bestemmia. E il pensiero politico sulla felicità, se è per questo, un non-senso. 

Eppure, è proprio per questo che la felicità ha assunto un valore politico senza precedenti. La sua assenza dal dibattito pubblico sgomenta. Il conservatorismo liberale (la crisi globale è sovra-stimata, è sufficiente un blando riformismo) si è saldato con la più gretta meschinità del disfattismo borghese (non c’è più nulla da fare, meglio affidarsi al conformismo della mediocrità). La felicità? Una fola per rivoluzionari. I rivoluzionari? I malati di felicità ! Ma là dove la politica tradizionale e riformista svela la sua raggiante impotenza, o la sua scoraggiante forza, ecco emergere, per contrasto, la dimostrazione che la ricerca di una felicità, qualunque essa sia fuori dall’inferno dell’ecocidio, è una questione parlamentare, elettorale, partitica. “Biologico” e “politico” sono ormai sinonimi.

La voglia di una felicità è pura politica. Questo, lo scorso gennaio, ha consegnato agli annali europei la vicenda del villaggio di Lützerath, in Germania, nel bacino carbonifero del Nord-Reno Westfalia, al centro di una battaglia a manganellate e accampamenti abusivi tra migliaia di attivisti e la polizia (regionale e federale). In gioco non c’era la sicurezza energetica della Repubblica Federale Tedesca o i compromessi sporchi fatti con il carbone più sporco per uscire dal carbone con otto anni di anticipo rispetto a quanto pianificato dall’ultimo governo Merkel. Il conflitto era tra due idee di felicità completamente opposte. Le nuove generazioni si battono per una idea di felicità che non sia più quella dello sperpero dei viventi (popoli del sud globale, specie vegetali e animali). Il governo federale (la “Ampel Koalition”) è invece perfettamente integrato nell’organigramma economico internazionale. Una guerra tra concorrenti interpretazioni dell’Essere, degli enti, dell’esistere e dell’esistenza. Ontologia politica

Marx diceva: la mia idea di felicità è la lotta. Alla faccia del suo materialismo filosofico, difeso con le unghie e con i denti, in questa affermazione Marx mise un significato esistenziale. Perché “lotta” non significa solo militanza politica. Significa soprattutto possibilità di qualcos’altro rispetto al buio del presente. Quindi la felicità coerente con i problemi dell’oggi non è una conquista di oggetti, di beni, di conferme sociali. È uno stato mentale. È una tensione. È una insofferenza. È l’accettazione di una voragine, dentro e fuori. Questa voragine, che certo mette paura, è lo spazio del possibile. Molti dicono: niente serve più a niente, l’apocalisse ecologica è inevitabile! Eppure, il vuoto di risultati immediati, di soluzioni miracolistiche a portata di mano (pale eoliche, CCS – Carbon Capture and Storage, idrogeno, immigrazione forzata di specie animali) è l’unico spazio che prepara l’arrivo di ciò di cui c’è bisogno ora

Oggi, considerato ciò che sappiamo del nostro impatto sulla biosfera, lo spazio del possibile (l’intelligenza critica) è il luogo in cui avventurarsi nella complessità della nostra epoca. Non c’è dubbio che l’avventura del sapere esponga all’angoscia del dopo. Che cosa succederà se mi addentro in una visione del mondo ancora perigliosa e incerta, totalmente diversa rispetto a quella a cui sono abituato? Eppure, ci sarà un dopo rispetto al capitalismo. Questo lo sappiamo già. Lo constatiamo già (…) La paura di perdere il lavoro, la precarietà abitativa, il restringimento del welfare state e dell’assistenzialismo sanitario fanno paura a chiunque. Sono timori destinati ad allargarsi a macchia d’olio. Eppure, per troppe persone questo funziona come un deterrente per pensare lo spazio del possibile. Gli stessi ecologisti si sono impantanati nel fango di questa meschinità. Se non posso fornire, tale il loro ragionamento, una alternativa immediata alla struttura dominante, e cioè al capitalismo estrattivo, tanto vale abbandonarmi alla ignavia emotiva. Non ci si accorge, tuttavia, di seguire così lo schema di pensiero a circolo logico chiuso a cui ci ha abituati il capitalismo. Se non c’è qualcosa che produce maggiori risultati del protocollo già adottato, allora non conviene sperimentarne un altro”. 

Secondo Donna Haraway il vuoto è il caos necessario di un pensiero efficace nel cogliere la complessità del XXI secolo. “Il nostro compito deve essere fare disordine e creare problemi, scatenare una risposta potente dinanzi ad eventi devastanti, ma anche di placare le acque tormentate e ricostruire luoghi di quiete”. Pretendere risultati immediatamente spendibili (“solo le cose che funzionano sono importanti”) è una pericolosa impasse intellettuale. “Restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati”. 

La catastrofe più o meno imminente non è sufficiente per cancellare il bisogno di un pensiero capace di pensare il reale e la presenza degli esseri umani dentro questo reale. In altre parole, è la realtà stessa che richiede di essere compresa in uno spazio aperto alle opzioni implicite nei fenomeni, nei processi ancora aperti, nelle decisioni non ancora prese. Se il criterio di esclusione della funzionalità e dell’efficienza viene accantonato “si resta a contatto con il problema in maniera più seria e vitale. Restare a contatto con il problema richiede la capacità di generare parentele di natura imprevista. Forme di socialità e di materialità cruciali per vivere e morire con le creature che rischiano di scomparire, in modo che possano invece continuare ad esistere”. 

Torniamo alle domande con cui abbiamo cominciato. Come trovare la propria gioia sapendo che la Terra è contaminata, avvelenata, sfregiata dalle azioni umane? Come può ogni singola esistenza non essere in contraddizione con la presenza vitale della biosfera? Ma soprattutto: possono individui radicalmente infelici divenire dei radicali rivoluzionari? No, non possono. E la risposta alle altre domande sta nella ricerca di una felicità personale. Ma questa felicità non significa appagamento o gratificazione. La felicità è un accordo: una consapevolezza della propria presenza sul Pianeta. Quando la domanda del singolo si scontra con la realtà, tenta di modificarla o manipolarla, di alterarla o di piegarla, ecco che una singola biografia diventa la biografia del Pianeta. È la “responso-abilità” di cui parla la Haraway: una adesione totale alla crisi globale. Un ritrovare la propria strada di casa riconoscendo i diritti dei viventi secondo delle forme creative di “sim-poiesi”, cioè di alleanza/convivenza/sperimentazione. “Passione e azione, distacco e attaccamento: ecco come si coltiva la responso-abilità, che è anche un modo collettivo di conoscere e di fare, un’ecologia di pratiche. Che lo chiediamo o no, la trama è nelle nostre mani. La risposta alla fiducia della mano tesa davanti a noi: pensare, pensare dobbiamo”. 

Pensare significa seguire il filo dei fenomeni, lasciarli trapelare, permettere al mondo di manifestarsi e arrivare, senza soffocarlo negli schemi logici e matematici (metafisici) dei secoli moderni. Collettivo vuol dire con gli animali, attraverso gli animali, grazie agli animali, insieme agli animali. 

Ma soltanto un rivoluzionario (un adepto della felicità) può intraprendere questo tipo di movimenti del corpo e del pensiero verso il regno animale. Verso l’entità del problema-mondo che abbiamo causato negli ultimi secoli. Soltanto chi è impegnato con tutte le sue forze a fare sì che il mondo ascolti la sua domanda di felicità può addentrarsi nei labirinti e negli abissi del diritto alla felicità ontologica del Pianeta (il diritto ad esistere delle altre specie). Perché sa che ogni suo pensiero e ogni sua azione appartengono non solo a lui, ma anche al Pianeta. Se esisto, è perché c’è il Pianeta. Quindi, anche la mia felicità (agognata, possibile, combattuta) è, nelle sue fibre, un fenomeno della Terra. Il Pianeta ci guarda.

Su questi temi è uscito LA STRADA DI CASA – La felicità al tempo della sesta estinzione di massa (disponibile su Amazon QUI). 

Un nome per la Terra

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Il Global Biodiversity Framework (GBF) firmato a Montreal segna il fallimento di un impegno durato 30 anni. Il tentativo della civiltà umana globale di trovare un nome per la Terra. Di pensare un Pianeta al di fuori delle regole e degli schemi del capitalismo moderno. 

L’accordo sottoscritto dalle parti il 19 dicembre non è giuridicamente vincolante. Si basa esclusivamente sulla “buona volontà e sulle buone intenzioni” dei Paesi che sceglieranno di tradurne in realtà i diversi capitoli. Molti Paesi africani e i movimenti per la protezione dei popoli nativi e indigeni hanno contestato il target del 30% di aree protette entro il 2030. “Il GBF avrebbe dovuto definire un importante piano d’azione per la ‘protezione della natura’ fino al 2030”, ha reso noto in un comunicato stampa di SURVIVAL. “Tuttavia, non è riuscito a compiere il passo coraggioso necessario per proteggere davvero la natura, ovvero riconoscere che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e che il modo migliore per proteggere la biodiversità è quello di proteggere i loro diritti territoriali”. Eppure, anche questa constatazione non centra del tutto il bersaglio.

La nozione classica di “conservazione” non include i Nativi. Conservate sono, storicamente,  le aree protette o i parchi nazionali chiusi alle attività umane. È la natura “intatta”, considerata da molti una astrazione ideologica di stampo razziale risalente all’Ottocento. Negli ultimi anni, però, l’appello alla conservazione delle cosiddette “regioni ancora selvagge” ha suscitato l’approvazione di quanti ritengono che, proprio in questo momento storico di debordante strapotere umano, sia più che legittimo lasciare alle altre specie almeno una parte del Pianeta. 

IMAGINE, la newsletter tematica di THE CONVERSATION (in un post firmato da Jack Marley, energy and environment editor) ha messo in discussione la presunta portata “storica” dell’accordo di Montreal. “In che modo la Storia ricorderà questo accordo? Come un punto di svolta nella relazione distruttiva dell’umanità con la natura? O soltanto come un altro passo avanti su una traiettoria funesta verso la rovina ambientale?”. Scetticismo motivato, secondo Marley, dalle inquietanti proiezioni di uno studio appena uscito su SCIENCE: “Coextinctions dominate future vertebrate losses from climate and land use change”. 

Il paper affronta la questione delle “co-estinzioni”, ossia delle estinzioni che seguono e affiancano la scomparsa di altre specie con cui un tempo condividevano l’habitat e, di conseguenza, strette relazioni ecologiche. Il concetto di co-estinzione completa quello di defaunazione. “C’è crescente consapevolezza della importanza delle interazioni tra specie diverse: la biodiversità è sempre più capita come un insieme di comunità naturali complesse. Per questo la perdita di biodiversità è ben rappresentata da un effetto di amplificazione delle estinzioni primarie (NB le estinzioni causate da un fattore a più grande impatto, come ad esempio la cancellazione di habitat e il cambiamento climatico) attraverso i network ecologici. La co-estinzione – la perdita di specie motivata dagli effetti diretti o indiretti di altre estinzioni – è ora riconosciuta come un contributo fondamentale al crollo della diversità biologica globale”. 

Le co-estinzioni aiutano a capire che cosa è la sesta estinzione di massa. Una condizione pervasiva, ubiqua e diacronica dell’assetto biologico del Pianeta. 

Il “Kunming-Montreal global biodiversity framework” (un altra definizione del GBF) tiene conto di questo scenario, che secondo gli autori potrebbe portare ad una perdita di specie di vertebrati terrestri del 30% entro il 2100?

I dubbi e le perplessità a riguardo sono immani. 

Ciò che la CBD non ha fatto, e che non può fare, è riconoscere che la concezione della natura di cui parla è occidentale. I Nativi incarnano una visione diversa della realtà. E quindi caricata di significati attribuiti e assorbiti dalle specie animali e dai paesaggi del Pianeta che non hanno nulla a che spartire con gli apparati di estrazione razionale del profitto usciti dal pensiero moderno a partire dal Cinquecento. Per Amitav Ghosh questa dissonanza originaria di pensiero consiste nel fatto che nelle culture native gli animali, gli alberi, le colline, i vulcani, le montagne, la terra “producono significato”. 

Ammettere che la conservazione stessa è una conseguenza di una visione “onnicida” del Pianeta, un altro termine di Amitav Ghosh, sarebbe come sconfessare il valore mainstream della nostra civiltà. Non ci sono, quindi, in gioco solo enormi interessi geopolitici e finanziari, nel mantenere saldo un paradigma che non è esplicativo dell’umanità tutta, ma solo di una parte di essa. 

Ecco perché persiste una ambiguità di fondo nel documento finale di Montreal, nonostante qualche incerto passo avanti, sottolineato da SURVIVAL: “ora, infatti, una sezione introduttiva (la sezione C) chiarisce che, per l’attuazione del Quadro, il nuovo piano deve garantire che i diritti, le visioni del mondo, i valori e le pratiche dei popoli indigeni e delle comunità locali siano rispettati, in linea con la Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni”. Nessuno sa come, dove e attraverso quali procedure di implementazione il pensiero non occidentale possa essere integrato in una economica mondiale capitalista, che fattura sulla natura e sugli animali.

Con il summit di Montreal crolla di fatto il significato della Convenzione. La CBD non può fornire le risposte che gli esseri umani attendono o temono sul futuro della biosfera. Il vizio di forma è che senza una idea (un concetto) di Pianeta, senza un nome per la Terra, non può esserci neppure un accordo che gli ecosistemi li protegga. La CBD ha un difetto congenito. Scritto nel preambolo del documento di battesimo della Convenzione stilato nel 1992: “le Parti sottoscriventi, consce dell’intrinseco valore della diversità biologica”. La biodiversità non è il contesto vitale delle specie di questo Pianeta (uomini, animali, piante, alberi). È piuttosto una dimensione fisico-biologica che può essere descritta in termini di valore. Una “natura eco-funzionale”. 

Sulla incapacità della Convenzione di trovare un posto per gli esseri viventi non umani nella civiltà del XXI secolo Bram Büscher (Wagenigen University, autore del libro The Truth about Nature e fondatore del gruppo di ricerca CONVIVIAL CONSERVATION) e Rosaleen Duffy (University of Sheffield, una esperta di fama mondiale sulla “conservazione fortezza” di stampo neo-coloniale) hanno firmato un editoriale tagliente e onesto sempre su THE CONVERSATION. La loro è una voce fuori dal coro. 

“Il vero problema non è mai incluso nel negoziato. Anche se il 30% della Terra fosse protetto, come, alla prova dei fatti, eviterebbe la perdita di biodiversità? La proliferazione della aree protette è avvenuta nello stesso periodo (a partire dagli anni ’60) in cui la crisi di estinzione andava intensificandosi. Certo, forse senza questi tentativi le cose avrebbero potuto andare anche peggio per la natura. Ma un argomento altrettanto valido sarebbe che la conservazione disegnata sulle riserve ha reso molti ciechi di fronte alle cause reali della diminuzione della biodiversità della Terra. Ossia un sistema economico in perenne espansione che spreme gli ecosistemi convertendone gli habitat in periferie suburbane o terreni agricoli, inquinando l’aria e l’acqua con sostanze sempre più tossiche e surriscaldando l’atmosfera con sempre più gas serra. Questi problemi strutturali vengono nominati, ma mai di fatto affrontati nei meeting internazionali sull’ambiente”. 

“I summit della Nazioni Unite sono ormai diventati poco più di circhi ambulanti pullulanti di speranze disperate, che non hanno alcuna influenza sul mondo reale. I meeting in agenda, gli annunci e gli accordi sono sempre più intrisi di un linguaggio da partita a scacchi, piuttosto triviale, da promesse vuote di contenuto e da decisioni non decisioni, molte sul funzionamento stesso della Convenzione. E dopo ogni summit, minuscole e qualche volta più grandi vittorie vengono celebrate come eventi epocali che il mondo attendeva con trepidazione. Ma cosa la convenzione per il clima e quella sulla biodiversità hanno davvero fatto per i problemi che si suppone debbano affrontare?”. 

La risposta è disarmante: nulla. 

Ci sono voluti tre decenni per chiederci che cosa intendiamo per conservazione. Eppure, se abitassimo un Pianeta, ci sarebbe ancora bisogno della conservazione? Certo che no. Staremmo qui in compagnia di tutte le altre specie. Coesistenza significa co-appartenenza. Quando si convive, non c’è spazio per aree cintate, aree protette, aree di esclusione e riserve. Lo spazio disponibile coincide con un progetto comune. Una vita insieme. L’intero impianto della Convenzione, e la nostra civiltà, nascondono quindi un difetto di comprensione. Non siamo in grado di comprendere il problema (l’estinzione progressiva delle specie animali, l’abbattimento sistematico delle foreste). Ci manca una capacità di comprensione. Non abbiamo una lingua per spiegare ciò che accade. Una lingua giusta. Una lingua viva.

“L’unica lingua comprensibile che parliamo fra noi sono i nostri oggetti in relazione fra loro. Una lingua umana non la capiremmo e resterebbe priva d’effetto; da una parte verrebbe intesa come preghiera, come supplica e perciò come un’umiliazione, e quindi sarebbe pronunciata con vergogna, con un senso di degradazione, dall’altra parte sarebbe presa e respinta come sfrontatezza o follia. Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che la lingua immediata di questa essenza ci sembra una ferita alla diginità umana, mentre la lingua alienata dei valori delle cose ci sembra la dignità umana, giustificata, fiduciosa di sé, che riconosce se stessa”, scrisse Karl Marx.

Questa situazione non è altro che lo specchio fedele di un atteggiamento ormai molto diffuso, un cocktail alcolico di sconforto e malinconia. Non c’è più nulla da fare! Non è rimasto più niente da salvare! Non riusciremo più a salvare nessuno! Sono sentimenti certo legittimi, che tuttavia possono liquefarsi e svanire (non servire più a nulla) nella nebulosa della indignazione. Ma cosa sono poi davvero questi sentimenti? Non sono forse anche loro gli idoli di una epoca che non sa più a che cosa aggrapparsi per sopravvivere? Non sono forse una rinuncia alla comprensione degli avvenimenti, della sofferenza delle specie animali, delle foreste e dei popoli nativi rimasti? Perché questi animali, questi alberi, queste persone di discendenza non europea sono vivi oggi, qui. Loro, tutti, sono ancora vivi. Perché non ce ne accorgiamo? Perché non li vediamo? Perché non conosciamo più la mappa per “tornare a casa, nella Valle degli Orsi”?  

Siamo davvero capaci di comprendere il nostro mondo? Come possiamo pubblicare un documento per “salvare il Pianeta dalle estinzioni”, se non conosciamo noi stessi in questo Pianeta del XXI secolo?

C’è differenza tra supporre e comprendere. C’è differenza tra esecrare e mettere in critica. C’è differenza tra maledire e condannare. Comprendere la nostra epoca non equivale affatto ad augurarsene la fine, tanto peggio tanto meglio, cogliendo, come Faust, un frutto già marcio. Noi esseri umani comprendiamo qualcosa non solo quando ci costruiamo attorno un concetto (come pensavano Kant e Hegel), ma soprattutto quando il nostro pensiero diventa esperienza. Avviene allora una corrispondenza, una sorta di domanda/risposta, tra noi e la realtà. La corrispondenza con la realtà fa della comprensione una attitudine verso il mondo. Ma senza il mondo non c’è neppure comprensione. È ciò che Hoelderlin intendeva quando parlava di Übereinstimmung. Soltanto l’uomo che si trovi in questa disposizione spirituale può conoscere se stesso e comprendere il mondo. La comprensione del mondo è un accordo. È uno dei modi in cui scopriamo di essere umani. 

(La civiltà moderna è stata la civiltà del carbone. Il cromatismo della fuliggine ha modificato il paesaggio europeo, soprattuttuo nelle città. Eppure, paradossalmente, l’elettricità ha anche creato una nuova dimenstione per l’oscurità, per le tenebre, per la vita notturna. Sono queste le contraddizioni che ci raccontano che cosa è l’Antropocene e le cause storiche della sesta estinzione di massa)

Uno stile di vita, e una questione scottante della civiltà moderna, di cui scrisse con incomparabile semplicità Aleksandr Solẑenicyn. “Solo se le forze attive dell’umanità si indirizzassero creativamente alla ricerca delle modalità per un graduale ed efficace contenimento degli aspetti distruttivi della natura umana e la crescita di una accentuata coscienza personale, solo in questo caso possiamo nutrire una qualche lontana speranza. Tuttavia si può iniziare questo cammino e percorrerlo unicamente con cuore puro e sinceramente pentito, disposto ad attenersi al saggio criterio non solo di accettare limitazioni nella propria sfera d’influenza, anche di carattere personale, ma di iniziare a praticarle prima che lo facciano gli altri. Ma proprio questo cammino incontra nel mondo odierno solo sorrisi ironici se non aperti dileggi”. 

Solẑenicyn offre una etica umanistica. Una comprensione etica delle cose. Non nichilista e neppure edonista. Quindi profondamente ecologista. L’uomo etico di Solẑenicyn è un uomo salvo, perché è completamente coinvolto dallo sforzo di comprendersi attraverso la comprensione del mondo. Questa etica la argomenta un uomo che è stato in un gulag. Un uomo che inventò un rosario di palline di pane per memorizzare i versi delle proprie poesie (che poi diventeranno il poema La Stradina). 

Poche sono le istruzioni essenziali per la svolta umanistica: “cosa vorrei dire alla giovane generazione? Anzitutto, di non arrendersi al consumismo (…) La vita non sarà facile, ma le circostanze non sono mai più forti della volontà umana. La volontà e coscienza umane sono più forti delle circostanze e lo dice uno che è passato per la guerra al fronte, per il campo di lavoro forzato e una malattia mortale. La volontà umana è superiore alle circostanze, le può dominare, ma deve concentrarsi e non seguire falsi orientamenti. Ecco cosa mi sentirei di dire”.

È significativo che per tutta la vita Solẑenicyn parlò di una esistenza i cui pilastri non sono affatto diversi da quelli auspicati da Amitav Ghosh: cura per il cibo (cucinare, mangiare insieme), rifiuto della cultura del fast food, dedicare molto tempo alla lettura di libri. È il “lessico politico di Occupy”, poi adottato “da Black Lives Matter”. Ma è anche ciò che sperimentarono le migliaia di persone di ogni nazionalità (non solo Nativi Lakota) che vissero nell’accampamento di Standing Rock, nel Dakota, per protestare contro il gigantesco oleodotto XL. “I dimostranti a Standing Rock non si limitavano a presentare una serie di richieste, o a sostenere determinate misure politiche: stavano sperimentando, ed esibendo, un diverso modo di vivere”.

Comprendere vuol dire quindi anche vivere. Vivere in un modo nuovo.

Come per Ghosh, anche secondo Solẑenicyn siamo chiamati a comprendere molto seriamente come siamo giunti fin qui. 

“Da più di un secolo nel mondo civilizzato è in corso un processo, che sfugge ai più, di perdita di concentrazione interiore ed elevatezza di sentimenti, di generalizzata dispersione, forse di irrimediabile eclisse dei valori spirituali. In particolare nel XIX secolo queste tendenza raramente veniva notata. Ma già tutto il XX secolo, un secolo di successo quanto agli aspetti tecnici  e di eccessiva precipitazione sotto il profilo psicologico, ha contribuito per diverse vie a un declino della cultura. (…) Questo universale processo distruttivo, costante decennio dopo decennio, ci ha colti nonostante la sua persistenza impreparati”. 

“Alla crescita sorprendentemente veloce e largamente diffusa del benessere, determinato dai progressi nelle nuove tecnologie, non ha affatto corrisposto un adeguato livello di autoeducazione delle persone alle nuove circostanze, quale sarebbe stato auspicabile: mantenersi cioè uomini dotati di anima. (…) il diffuso comfort ha comportato un inaridimento delle facoltà spirituali”. 

Centrale è per Solẑenicyn il concetto di limite. “La parte più sviluppata dell’umanità si è talmente abituata al consumismo – all’abbondanza e varietà delle sue espressioni – da diventarne schiava. Porsi di punto in bianco dei limiti? Come è possibile? E anche poi? L’autolimitazione volontaria è una qualità di difficile acquisizione, già per la singola persona, ma tanto più per un partito politico, uno Stato, un’azienda, una corporazione. Si è smarrito il senso più autentico della libertà, la sua più nobile applicazione, che consiste appunto nell’imporsi volontariamente un freno, rinunciando ad espandersi e a tratte profitto a qualsiasi costo e ovunque. È anche un atteggiamento lungimirante, perché allontana il pericolo di dirompenti conflitti futuri”. 

Questo tipo di etica umanistica può espandersi sino a diventare una ontologia. Possiamo scoprire che l’intera struttura della realtà protegge e contiene una somiglianza strettissima tra noi e il Pianeta. E che proprio in questa somiglianza, in questa affinità, abbiano origine i nostri comportamenti etici e la nostra preoccupazione per le altre specie. 

La comprensione del mondo è una etica, suggerì Martin Heidegger in Essere e Tempo, perché coglie il modo in cui gli esseri viventi (gli enti) si presentano ai nostri sensi ed alla nostra intelligenza. Comprendere come siamo nel mondo ci aiuta quindi a interpretare la nostra esistenza come parte dell’essere del mondo. 

Noi comprendiamo noi stessi comprendendo le cose. Accogliendo quindi le cose di natura dentro il nostro pensiero di esistere qui ed ora. “Il comprendere è concepito come un modo fondamentale dell’esser-ci (…) è l’esistente essere-nel-mondo in quanto tale”. Il disvelarsi delle cose attraverso la comprensione riguarda quindi “co-originariamente il pieno essere-nel-mondo”. Ciò che del mondo e di noi riusciamo a cogliere come possibile è un “esistenziale”, ossia è “l’essere in quanto esistere”. Se non appartenessimo già e sempre al mondo inteso come presenza viva delle cose che esistono (gli animali, le piante, gli ecosistemi), non potremmo neppure comprendere il nostro esser-ci. Non avremmo, in altre parole, neppure il pensiero del nostro esistere come persone o individui o protagonisti nella nostra epoca. 

“L’esser-ci può comprendersi in prima istanza e per lo più a partire dal suo mondo (…) l’esser-ci esiste nel mondo in quanto se stesso (…) il mondo fa parte del suo essere se stesso, in quanto essere nel mondo”. È questa, tra le altre cose, una definizione bellissima della nostra identità di specie. Perché, dice Heidegger, “comprendere l’esistenza in quanto tale è sempre comprensione di un mondo”. 

All’interno di questa prospettiva ontologica e umanistica, la biodiversità è già al suo posto. Non ha bisogno di un trattato internazionale per diventare ciò che già è. La biodiversità ha un nome per il fatto che esiste. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è una comprensione etica della realtà. Questo significa mettersi sulla strada per comprendere dove ciò che è vivo dentro di noi è tale perché altri fuori da noi sono vivi. In una svolta politica e civile di questo tipo la CBD non avrebbe semplicemente più ragione di stare in piedi. 

Per saperne di più: CAPIRE LA SESTA ESTINZIONE.

Siamo noi gli eredi del Pianeta?

Il Nobel a Svante Pääbo, l’eredità evolutiva della nostra specie è un tema centrale del XXI secolo: siamo noi gli eredi del Pianeta?
(Musée du Quai Branly, Paris. Collezione di Arte Africana)

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Il Nobel a Svante Pääbo per la paleo-genetica mostra che l’eredità evolutiva della nostra specie (l’ibridazione con specie umane estinte, la supremazia culturale di Homo sapiens) è un tema centrale del XXI secolo: siamo noi gli eredi del Pianeta? Un Nobel importantissimo per la scienza dell’estinzione, ma dalla netta impronta filosofica.

Nel suo Urfaust, Goethe fa dire a Faust, il solitario medico insoddisfatto di tutto: “L’eredità dei tuoi padri, se vuoi averla, devi guadagnartela (Das du ererbt von deinen Vätern hast, Erwirb es, um es zu besitzen!)”. Faust è l’uomo moderno. Non gli manca nulla, ha successo, prestigio sociale e denaro. Eppure, gli manca qualcosa, che lo tormenta instancabilmente. Per questo non sa come ereditare la conoscenza che la saggezza antica gli promette, sbirciando il suo cruccio dalle pagine polverose di una biblioteca gigantesca e ombrosa. Dovrà inventarsi qualcosa di nuovo? O accontentarsi di quanto è già stato scoperto? E se la scoperta non fosse abbastanza ardita da svelare il segreto dell’esistenza del mondo? Ma se “conoscessi il mondo, che cos’è che lo connette nell’intimo, tutte le forze che agiscono, e i semi eterni, vedessi, senza frugare più tra le parole”(Daß ich erkenne, was die Welt im Innersten zusammenhält, Schau alle Wirkenskraft und Samen / Und tu nicht mehr im Worten kramen”), allora, si chiede Faust, che cosa mi succederebbe? Avrei tradito i Padri? La paleo-genetica è il nostro modo di porci lo stesso interrogativo di Faust. 

Le ricerche di Svante Paabo “mostrano che le sequenze di geni che abbiamo ereditato dai nostri parenti estinti influenzano la fisiologia degli esseri umani moderni”. La motivazione del premio è chiarissima: “Nobel per le sue scoperte sul genoma degli ominini estinti e quindi sull’evoluzione umana”. Paabo ha dimostrato che ciascuno di noi, se pur in proporzioni diverse, porta i geni dei Neanderthal e dei Denisova, introiettati nel nostro genoma durante l’ultima era glaciale, il Pleistocene. Questa evidenza apre il sipario su interrogativi epocali, nuovi per una umanità che si confronta con il peso delle proprie attitudini ecologiche.

Se riconosciamo nel nostro patrimonio genetico i nostri antenati, di che cosa possiamo dirci eredi? Del Pianeta? O solo di lontani parenti estinti? E se fossimo stati noi, Homo sapiens, i responsabili della scomparsa dei cugini incontrati in Europa continentale e nella lontana Siberia? Il passato estinto è sopravvissuto alla maniera con cui la vita sulla Terra (i geni) perpetua se stessa: la trasmissione del patrimonio genetico. Ma proprio per questo, se anche noi Sapiens siamo stati gli ultimi ad arrivare e gli unici a rimanere, questo non significa tout court che gli avi estinti appartengano ad un tempo indefinito e insignificante. Tutt’altro. Noi ci definiamo all’interno di un passato di estinzione. Apparteniamo alla nostra specie anche in virtù di specie estinte. Tramite il loro contributo biologico. Noi siamo e prosperiamo attraverso un tempo che è fatto di storia e di estinzione. Questo ha profonde implicazioni anche nella relazione moderna con gli animali. Questa natura ibrida che siamo noi stessi in quanto Homo sapiens, questa nostra convivenza con chi è estinto, ha contribuito a plasmare la nostra risposta adattativa e culturale nei confronti della presenza degli animali. Lungo i millenni, abbiamo portato con noi storie intime di estinzione, di vuoti incolmabili e inconsapevoli, provocando altre estinzioni nel regno animale. Il nostro tempo di specie ha intrecciato la nostra presenza terrestre con la mancanza, la scomparsa e la lontananza. E così l’estinzione dei Neanderthal e dei Denisova ci rammenta che il passato è fatto più di fratture e buio che di certezze e pietre miliari. Ma proprio per questo il tempo profondo, più ancora del tempo storico, apre nello spirito dell’uomo quelle distanze nostalgiche e ambigue che così bene caratterizzano la nostra intelligenza (der Sinn) delle cose del mondo. Anche là dove risuona, sulla superficie abrasa dei reperti fossili, la lenta eco dell’estinzione, anche lì c’è per noi esseri umani completamente moderni la possibilità radiosa di una piena comprensione di noi stessi. Conviviamo con l’estinzione da sempre. Perché siamo vivi. Perché siamo umani. L’estinzione degli altri (i Neanderthal, i Denisova, gli uomini dell’isola di Flores, l’Homo naledi del Sudafrica) prova quanto fragile e imperfetta sia la natura di noi umani. Perché la nostra natura è stata scritta dentro e attraverso storie altrui. Nonostante il nostro successo. Questo, forse, più di molto altro, potrebbe aiutarci a capire che cosa è la sesta estinzione di massa. 

Ma eredità vuol dire anche: che cosa siamo disposti a lasciare alle prossime generazioni? È infatti proprio la crisi ecologica ed umanistica del XXI secolo a mostrare che il patrimonio – ciò che abbiamo ereditato e ciò che lasceremo a chi verrà dopo di noi – è intrecciato alla giustizia sociale. È uno strumento di giustizia sociale. L’umanesimo occidentale, con il suo carattere espansivo ed aggressivo, ha inventato la Modernità, costringendo però l’umanità intera dentro categorie di mondo (economia di profitto, discriminazione razziale, appropriazione delle specie animali) che sono ancora oggi una escoriazione scabrosa proprio nel concetto di “umano” che difendiamo con accanimento sulla scena politica internazionale. Nella strumentalizzazione dell’umano ereditata dai secoli centrali della modernità (Seicento e Settecento) stanno le cause prime delle pretese di risarcimento morale esplose negli ultimi anni. L’attivismo africano ed asiatico contro la dittatura climatica del nord globale e il suo monopolio dell’energia, la richiesta di riparazioni delle comunità afro-americane e afro-europee, le rivendicazioni di attivisti e accademici per una protezione della natura fuori dal capitalismo e dal sapore amaro del colonialismo. E, infine, l’autocritica del mondo scientifico, che denuncia la “legacy of colonialism”, l’eredità del colonialismo nella ricerca, nell’eugenetica, nell’editoria scientifica di riviste autorevoli come NATURE. “Gli archivi di NATURE includono anche contributi offensivi nel campo dell’ecologia, dell’evoluzione, dell’antropologia, dell’etnografia. Contributi inestricabilmente coinvolti con l’espansione coloniale. Un editoriale del 1921, ad esempio, esprime apertamente un punto di vista imperialista e razzista, raccontando di una riunione di quella che era allora la British Association for the Advancement of Science. Ecco cosa vi era scritto: ‘è con sentita convinzione che siamo impegnati a discutere i modi e i mezzi con cui la scienza dell’antropologia possa essere di maggiore utilità nell’amministrazione dell’Impero, soprattutto nel governo delle razze a noi soggette, che sono ad un inferiore livello di sviluppo rispetto a noi’”. Neppure la natura era dunque esente dalle deformazioni del concetto restrittivo e denigratorio di “umanità” che a lungo il pensiero scientifico ritenne legittimo. Questo significa che se parliamo di protezione della natura, non solo dobbiamo parlare di colonialismo. Dobbiamo parlare anche della concezione di umanità (umanismo e umanesimo) che ha assorbito la presenza del mondo naturale facendone qualcosa di storicamente proprio. 

Uomo e umanità sono, infatti, dimensioni storiche della nostra esistenza. Abbiamo imparato a declinare la parola “uomo” in un certo modo, stando dentro certe storie (la Modernità economica e scientifica, la conquista della biodiversità, la metafisica occidentale) e selezionandone altre (la pace religiosa in Europa dopo il 1648, il carbone, i viaggi oceanici) tra una infinità di opzioni. “La Storia, a partire dal XIX secolo, definisce il luogo di nascita di ciò che è empirico, vale a dire il luogo in cui, di qua da ogni cronologia fissata, esso acquista il suo essere proprio”, scrive Michel Foucault. “La Storia, come si sa, è sì la regione più erudita, più avveduta, più desta, più ingombra, forse, della nostra memoria; ma è parimenti il fondo da cui tutti gli esseri si dipartono per giungere alla propria esistenza e al proprio effimero scintillio”. Quel che intende Foucault è che noi immaginiamo noi stessi storicamente, come eredi ed epigoni. È il nostro sentimento di storicità che orienta la nostra interpretazione delle cose, anche sui tavoli di lavoro della scienza. Questa sensibilità moderna per l’appartenenza ad un passato, per il lavoro di scavo dentro quel passato (la paleoantropologia e oggi la paleo-genetica), rappresenta però anche l’occasione che sempre ha l’uomo per muoversi secondo cultura sulla scena del mondo. Vale a dire che proprio il passato spiegato e tornato alla luce (il nostro essere nella storia), l’archeologia della nostra presenza terrestre, mostra che oggi Homo sapiens non è imprigionato in un destino.

Nel recondito segreto dei geni investigato da Pääbo sta questa prodigiosa capacità di Homo sapiens, la possibilità di scegliere per se stesso. Di inventarsi strade nuove. In una lunga intervista su DIE ZEIT, Svante Pääbo si è chiesto: “Se gli antichi esseri umani, come i Denisova, fossero sopravvissuti, li avremmo chiusi in uno zoo? (…) il nostro sviluppo culturale poggia su un fondamento biologico. Uno scimpanzé non può eguagliare la nostra cultura e la nostra tecnologia, nonostante gli scimpanzé abbiano ottime capacità di apprendimento. Io spero che, grazie al patrimonio genetico, si possa arrivare a comprendere alcuni aspetti dell’origine biologica della cultura umana. Che queste scoperte ci diano migliori opportunità per la ricerca in tal senso. Eccone un esempio. Soltanto due settimane fa un paper su SCIENCE mostrava che i geni umani, a confronto con quelli dei Neanderthal, codificano per una maggiore produzione di neuroni”. 

Ogni pensiero (anche quelli auto-denigratori sul carattere distruttivo di Homo sapiens) è fatto della stessa materia di cui è fatto il Pianeta. Se abbiamo delle colpe, quelle colpe sono organiche. Possono decomporsi e ritornare nella terra, ormai frammentate in elementi chimici di base. Come i tessuti, il sangue, i capelli, i denti, le ossa. Al contrario di quanto pensavano i grandi Europei del ‘600 e del ‘700, non abbiamo ereditato il Pianeta, che non ci appartiene di diritto. Ma abbiamo ereditato la nostra appartenenza alla Terra.  

La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera

Noi siamo parte del Pianeta perché abbiamo una storia. La cultura, in senso propriamente evolutivo, ci rende capaci di storia. E noi sappiamo di esistere perché abbiamo una storia. La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera.
(Il giardino del Petit Palais, a Parigi, durante un temporale dello scorso maggio)

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Noi siamo parte del Pianeta perché abbiamo una storia. La cultura, in senso propriamente evolutivo, ci rende capaci di storia. E noi sappiamo di esistere perché abbiamo una storia. La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera. Eppure, questa condizione dell’esistenza umana è ampiamente misconosciuta. Ma immaginare la nostra specie come soggetto iper-morale a causa dei suoi crimini ambientali, indipendente da una natura sfregiata e umiliata, guardata da lontano con cordoglio e disperazione, impedisce di capire che cosa è la sesta estinzione di massa. Solo attraverso la nostra storicità possiamo infatti entrare nel problema della natura.

Comprendere la “questione della natura” è la premessa per ottenere un accordo globale sulla protezione del Pianeta. Il prossimo dicembre a Montreal, in Canada, la Convenzione Mondiale per la Biodiversità (CBD) dovrà firmare una carta di intenti per conservare quel che resta del patrimonio di biodiversità del nostro Pianeta. La Germania ha annunciato un contributo economico senza precedenti per il successo dell’accordo (1 miliardo e mezzo di euro): finora nessun Paese si è impegnato tanto dal punto di vista economico. Ma secondo gli esperti servirebbero 700 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2024 per salvaguardare la biosfera. Il tentativo di arginare i processi di estinzione, però, non è mai stato tanto nebuloso.

Il lungo percorso negoziale della CBD verso Montreal è stato segnato da molti ostacoli. Ma il disaccordo principale sulla possibilità di proteggere giuridicamente una parte del Pianeta sta nella mancanza di una idea condivisa e univoca di “natura”. 

Questa lacuna si somma a qualcosa di ancora più preoccupante. L’agenda dei negoziati è priva di una valutazione preliminare essenziale. I parchi nazionali, infatti, non sono il Pianeta: sono solo una porzione di Terra risparmiata all’espansione economica. Nel XXI secolo la società umana globale si sovrappone perfettamente al Pianeta, fagocitandolo. Questo significa che nell’assetto attuale della civiltà la biosfera non è lo spazio comune che contiene e sostiene il fenomeno biologico (le specie e l’umanità). È piuttosto tutto ciò che “avanza” fuori dei confini dinamici e fluidi dell’impresa economica. E anche questo resto, ben inteso, è messo a profitto. Le geografie della conservazione (aree protette) fatturano al turismo internazionale. Alcuni storici dell’ecologia ritengono che la natura affidata al turismo sia stata ormai assorbita dallo schema neo-liberista, in “un progetto socio-ecologico, i cui effetti sono, appunto, sociali ed anche biofisici”. Ma se non c’è una biosfera, in senso propriamente ontologico, come disegnare un accordo giuridico adeguato?

L’essere umano (Homo sapiens) è parte della natura. É un elemento costitutivo della storia naturale ed evolutiva della Terra, esattamente come la Terra stessa è la causa dell’esistenza degli esseri umani. Benché gli uomini siano ovunque e abbiano modificato la geologia stessa del Pianeta (è una delle tesi che sostengono la nozione di Antropocene), l’umanità attuale non sa se e come possa affermare di appartenere ancora alla Terra. Il Pianeta è diventato estraneo alla nostra costituzione d’essere, e per questo ne disponiamo a piacimento; oppure siamo intrappolati in una concezione delle cose di natura e di noi stessi che, pur essendo soltanto una elaborazione di un segmento piuttosto recente della nostra storia moderna, noi abbiamo elevato a unica dimensione possibile del reale. Come se non potesse esserci nulla di alternativo a ciò che è consolidato. Un pensiero che accumuna l’accettazione dello status quo ad una concezione della vita di tipo dittatoriale. Sono infatti i regimi totalitari le forme di organizzazione politica che pretendono di offrire ai propri cittadini il migliore dei mondi possibili. Il più perfetto. E la perfezione, si sa, non ha bisogno di essere emendata. Può solo emanare felicità. Questa è una concordanza essenziale tra il comunismo, il capitalismo e il pessimismo ecologista ormai datato agli anni Settanta. 

Questi sistemi di pensiero hanno esaurito la propria concezione della natura. Non dicono più nulla sulla natura che torni utile al nostro secolo. Ma il tramonto della prospettiva tradizionale sulla biosfera (coloniale, pura, edenica, marxista) ha permesso di chiudere con il pregiudizio sul capitalismo moderno. Non possiamo continuare a spiegare tutto con il Capitalismo. Perché il capitalismo è molto di più di quanto abbiamo finora immaginato. “Il capitalismo storico non è soltanto una formazione sociale”, scrive lo storico Jason Moore. “È anche una costruzione ontologica. Il suo modus operandi costitutivo è la natura a basso costo (cheap nature), decisiva per l’espansione e la riproduzione del capitale stesso”. La biosfera a prezzi stracciati è una premessa della Modernità: “bisogna intendere ‘a basso costo’ (cheap) in un doppio significato: gli elementi naturali costano molto poco;  ma l’impresa economica, dal canto suo, si riserva il compito di abbassare il prezzo di qualunque cosa (to cheapen), e quindi di degradare e di rendere inferiore ciò che le occorre dal punto di vista etico, politico e anche morale”. 

Questo significa che l’economia moderna si afferma in virtù di un certo modo di intendere la realtà, che è qualcosa di molto più brutale di una semplice sovrapposizione tra una idea astratta e la sua messa in pratica. È la realtà in sé che, dal Cinquecento, subisce una trasformazione. Dopo la Riforma protestante (1517), il problema della realtà (cosa è reale?) entra con prepotenza nel pensiero filosofico europeo. Rimanendoci fino agli anni ’30 del Novecento. La civiltà moderna ha della realtà una concezione, un concetto e una forma mentale ben precise. La realtà da sola non basta più. Il sentimento di sufficienza del mondo dentro il progetto divino della creazione va spegnendosi. Giunge invece a maturazione qualcosa di più ardito. Se il globo può essere misurato e circumnavigato, allora tutto ciò che esiste lo possiamo usare e conquistare per il semplice motivo che può essere pensato. L’ontologia del capitalismo non è null’altro che una ideologia del pensiero possibile. Questa relazione con gli enti di natura (popoli, animali, foreste, oceani) è una caratteristica intrinseca alla cultura europea. L’espansione geografica, coloniale ed imprenditoriale proviene da questo: il mondo può essere pensato.  E se lo posso pensare, lo posso manipolare. 

È questo strapotere del pensiero che calcola, spiega, inventa a trovare nella natura un campo di azione illimitato. Il limite allo sfruttamento introdurrebbe nella realtà una contraddizione logica. La progettualità umana è consequenziale perché la razionalità che la regge è in sé non contraddittoria. Se la circumnavigazione del globo è fattibile, allora non soltanto la Terra è rotonda e tutti i mari sono un unico, grande oceano. Quello che gli Europei scoprono, scoprendo il Pianeta, è che la biosfera stessa coincide con la propria immaginazione scientifica. Questa è la modernità: trasformare l’ontologia (i viventi esistono) in una organizzazione economica secondo criteri di pianificazione e di estrazione di materie prime, corpi, risorse naturali. La pianificazione, allora, si sostituisce al fenomeno biologico. Ciò che conta non è neppure la risorsa in sé, ma ciò che con quella risorsa può essere fatto. Questo non è un paradigma economico: è prima di tutto una struttura della realtà. Una ontologia, appunto. 

La biosfera (la “natura”) è così spinta in una categoria ontologica nuova, che ne tutela l’esistenza perché ne presuppone la manipolazione. Ma questo dualismo (da una parte gli uomini, dall’altra la biosfera) è una astrazione inconcludente. Non descrive nulla degli effettivi legami che integrano Homo sapiens nel suo contesto ecologico, l’unico in cui la nostra specie si muove da sempre. “La contrapposizione dualistica impedisce di vedere che l’accumulazione di capitale è un intreccio di interdipendenze tra specie, in cui l’una condiziona l’altra”, scrive anche Jason Moore.  Vale a dire che la storia dell’economia moderna, senza neppure sospettarlo, è ormai una “co-produzione di nature storiche”. 

Il nostro secolo non è l’apogeo di un distanziamento patologico dalla natura. Al contrario: è il passaggio storico in cui la nostra totale appartenenza all’ordine naturale delle cose appare in tutta la sua coerenza. Soltanto oggi, infatti, è chiaro il destino comune tra le faune e i popoli non Europei. Oggi la povertà raccapricciante del sud globale rispetto al ricco Nord del mondo denuda le premesse della Modernità: interi popoli considerati inferiori dal punto di vista razziale dovevano essere equiparati alla natura inesplorata, pronta per essere saccheggiata. 

“Quando Patterson (autore del libro “Slavery as social Death” edito nel 1982 dalla Harvard University Press) descrive la schiavitù come una ‘morte sociale’, intende riferirsi ad una vera e propria configurazione storica su scala globale, fondata su di un concetto razziale, secondo il quale gli Africani erano effettivamente trattati come parte della Natura e non della Società. Dovevano quindi costare poco. Di continuo quindi la maggior parte degli esseri umani erano descritti come selvaggi, mentre la civiltà era altrove. Questo giustificava l’espropriazione sanguinaria dei loro corpi”, scrive Moore. La piantagione di cotone e di zucchero era una enorme metafora di un ordine mentale in cui trovavano posto la nuova economia e la nuova umanità: “la logica dell’isolamento, della frammentazione e della semplificazione dette forma non soltanto ai paesaggi convertiti alle monocolture del primo capitalismo, come la piantagione per la canna da zucchero. Plasmò anche le vite degli esseri umani espulsi dall’Umanità, ossia le popolazioni coloniali costrette a insediarsi in ‘villaggi strategici’, dall’Irlanda, al Perù, alle Isole delle Spezie”. La frammentazione della natura (aree protette isolate o cintate) è un aspetto della pianificazione razionale di un Pianeta pensato per essere riscritto e reinventato. 

Lo scorso luglio il NATIONAL GEOGRAPHIC ha dedicato la copertina ai Lakota Sioux del South Dakota. Le comunità Native Americane sono in prima linea per rivendicare il diritto a vivere secondo le proprie tradizioni offrendo così alla nostra epoca una alternativa filosofica alla distruzione della biosfera e alla sistematica umiliazione della vita. Quannah Chasinghorse è una attivista e volto icona di Chloé per scelta della designer della Maison, la signora Gabriela Hearst, lei stessa molto impegnata nella ricerca di un modo nuovo di sentirsi parte di questo secolo.

Negli ultimi anni questa prospettiva è stata integrata nel dibattito sulla conservazione delle specie. È emersa infatti l’esigenza di far spazio ai sistemi di conoscenza non europei ( i cosiddetti “popoli indigeni”) nella cornica internazionale della protezione della natura. La volontà di giungere ad un accordo globale per la salvaguardia degli habitat ha come obiettivo “living in harmony with nature”, dando ascolto a sguardi sulle cose di natura diversi da quelli europei. Per quanto tardiva, questa apertura oltre i confini della filosofia economica europea si è dimostrata funzionale a spostare anche la conversazione sulla posizione di Homo sapiens nel Pianeta. Sempre meno “uomo contro natura” e sempre più, invece, “nature-culture”. Ossia: siamo una specie che attraverso la cultura ha trovato il suo posto nella natura. È stata quindi la cultura a permetterci di costruire realtà di nostra elaborazione, pronte ad essere proiettate sulla biosfera. 

(BROADVIEW è una rivista canadese che parla di ambiente e spiritualità. Lo spazio dedicato alla cultura dei nativi canadesi è in costante aumento. La scelta editoriale, molto meditata, è di offrire non soltanto uno sguardo attento e rispettoso sulle concezioni esistenziali dei popoli originari del Canada, che anche qui, purtroppo, vivono per lo più in condizioni di forte emarginazione sociale ed economica; BROADVIEW mostra come queste Nazioni abbiano molto da insegnarci sulla relazione con il passato storico e paleo-geologico di noi stessi e del Pianeta che abitiamo. Sono voci dissidenti, ma acutissime, che ruotano attorno alla domanda: che cosa è la sesta estinzione di massa per noi esseri umani? Perché ci sentiamo ormai così soli nei confronti della Terra? In Canada è anche in corso un progetto gigantesco di conservazione dell’ecosistema sub-artico: gli Łı́ı́dlı̨ı̨ Kų́ę́, utilizzando strumenti legali, hanno escluso decine di milioni di chilometri quadrati di foresta da ogni uso industriale. Solo i Nativi vi possono cacciare e raccogliere frutta, pesce, legname )

Con il passare dei secoli, ci siamo dimenticati che la realtà in sé e per sé non è un giudizio sintetico a priori o una rappresentazione della coscienza. È prima di tutto un contesto di esistenza per l’esistenza, che possiamo descrivere e comprendere attraverso la geografia, la biologia evolutiva e l’ecologia. Poco più di dieci anni fa (nel 2010) la rivisitazione della relazione tra uomini e natura acquisì popolarità grazie al concetto di “antroma”, coniato da Erle Ellis, forse il più brillante ricercatore nel vasto campo della storia dell’Antropocene. “Cresce il consenso sul fatto che gli esseri umani hanno ormai finito con il trasformare l’ecosystem pattern e i processi intrinseci all’intera biosfera terrestre”, scriveva Ellis. Questo significa che per capire come funzionano gli ecosistemi non bastano i dati dedotti dal clima e dalle variabili fisiche che condizionano la vegetazione, la fauna e l’ambiente in generale. 

Noi siamo parte del Pianeta perché abbiamo una storia. La cultura, in senso propriamente evolutivo, ci rende capaci di storia. E noi sappiamo di esistere perché abbiamo una storia. La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera.
(Il salone al primo piano del Petit Palais, a Parigi. La grandiosità delle opere artistiche europee è un proxy per comprendere la sesta estinzione di massa. La defaunazione del Pianeta è infatti una conseguenza del talento creativo della nostra specie)

“Ovunque siano presenti popolazioni e attività umane l’aspetto e le dinamiche degli ecosistemi terrestri (inclusa la presenza di alberi e la loro persistenza) sono determinate soprattutto dal tipo, dall’intensità e dalla durata delle interazioni degli esseri umani stessi con questi ecosistemi”. Tutti gli ecosistemi della Terra sono dunque antromi, ossia geografie su cui Homo sapiens ha lasciato un segno semplicemente dimorandovi e trovando nelle risorse naturali quanto gli occorreva per sopravvivere. È al culmine dell’impresa (l’espansione geografica iniziata nel ‘500), e cioè dal 1700, che c’è un cambiamento di passo non nel modo in cui gli uomini stanno sulla Terra, insiste Ellis, ma nella intensità con cui cominciano a fare ciò che hanno sempre fatto coltivando, disboscando, costruendo, allevando animali. Oggi viviamo in una completa “anthropogenic biosphere”. La storia naturale coincide con la storia umana. Non ha più senso discutere di natura selvaggia o addomesticata, ma piuttosto di “una storia globale della natura antropogenica”, insiste Ellis. Se ogni contrada del Pianeta porta il nome della nostra specie, perché allora insistiamo a considerarci ormai fuori della natura?

I popoli indigeni rivendicano il diritto a recuperare e coltivare i legami ancestrali con gli antenati per non smarrire la propria eredità genetica, ecologica e culturale. Questa domanda di giustizia verrà posta con convinzione a Montreal. Noi Europei, invece, abbiamo relegato queste preoccupazioni agli scaffali delle biblioteche di antropologia. Nessuno oggi in Europa, o poco più, sente di possedere ancora un cordone ombelicale con i maestri, i pensatori, i pittori e i compositori di qualche secolo fa. Non ci servono più, per coltivare i nostri desideri, le nostre speranze, le nostre aspirazioni. Eppure, solo attraverso la nostra storicità possiamo davvero entrare nel “problema natura”. La storicità è il modo europeo di stare dentro il campo di possibilità offerto dall’esistenza: il carattere che ci ha resi moderni. È la storicità (aver costruito una storia ed esserne stati costruiti) a interrogarci su che cosa sia oggi il Pianeta Terra, e se noi vi dimoriamo ancora, recuperando quella domanda sulla realtà che affliggeva gli uomini del ‘500 e del ‘600. “In che modo deve essere il mondo, perché l’EsserCi possa esistere come essere-nel-mondo?”, si chiedeva Heidegger in “Essere e Tempo”.  

L’Europa ha dato il ritmo al resto del mondo. È questo che ci conduce dentro l’importanza del problema della realtà, anche quando pensiamo alle foreste tropicali, alle specie animali, alle batterie delle auto elettriche e alle pale eoliche. Perché le nuove tecnologie e le nuove fonti energetiche, proprio come i carburanti fossili, sono sostenute da racconti potenti e convincenti (molto spesso auto-assolutori) sulla struttura della realtà (“i fatti”). Nel lontano 1991, del resto, William Cronon aveva già spiegato come la stessa storia naturale, nella cultura occidentale, sia una narrazione.

Gli esseri umani sono narratori per natura. Le società costruiscono valori, intessuti di fatti e di credenze, che ci guidano ad agire nel mondo. Ma è anche vero che gli umani sono inclini a costruire narrative come se fossero reali. Ogni ideologia politica, dottrina religiosa o paradigma economico, la stessa cultura, e non ultime le teorie scientifiche, sono storie che hanno una base sociale, che rappresentano più o meno accuratamente la realtà che intendono spiegare. Una volta che una configurazione culturale e narrativa è stata assorbita, chi vi aderisce tende a considerarla più seriamente delle prove, giunte da direzione contraria, che ne smentiscono la cornice concettuale”. Dobbiamo cioè stare attenti a non confondere la realtà del capitalismo, che è poi la Terra degli uomini moderni, con la condizione presente del Pianeta. 

La defaunazione, l’estinzione delle specie di alberi a legno duro e il riscaldamento del clima ricalibrano la bussola della realtà. No, il Pianeta pensato non è il Pianeta. È soltanto (per quanto immane possa essere questo ‘soltanto’) una opzione, una scelta, una direzione che ha preso velocità. Che ha fatto il suo corso. Isolando la nostra storia dal XXI secolo, non riusciamo più a capire cosa sia la natura. Manchiamo l’appuntamento con la realtà. Siamo soggetti storici, e anche la natura, per opera di Homo sapiens, è un soggetto della storia. In questo fenomeno ecologico globale (gli esseri umani attraverso le altre specie animali) il Pianeta appare per quello che è, come un oggetto finalmente portato alla luce del sole. Questo è il punto di partenza per comprendere cosa sono oggi gli ecosistemi, e cosa è la sesta estinzione di massa. 

Non più natura pura o incontaminata (neppure nella preistoria di Homo sapiens era così). E invece: habitat as multispecies landscapes, nature-cultures, overlapping ecologies”.  Habitat come sovrapposizione di storie umane, animali e vegetali, che si danno significato ecologico ed evolutivo le une dentro le altre. Quando siamo presenti alla nostra epoca (il XXI secolo, l’epoca della sesta estinzione di massa) abbiamo già dentro di noi l’intero passato della nostra specie. Il futuro si apre dinanzi a noi proprio perché abbiamo già fatto esperienza di noi stessi. È la storicità della nostra esperienza del Pianeta a dirci chi siamo e se saremo capaci di fare altrimenti. L’appartenere al tempo, insomma, rende accessibile la condizione attuale della biosfera. Il presente del XXI secolo è quindi piuttosto un “essere presente”: scoprirsi consapevoli di ciò che accade perché si appartiene storicamente ad ogni singolo avvenimento come fosse il proprio.

Ecco perché dobbiamo ripensare la nostra storia, prima di provare a vedere la natura con lo sguardo del XXI secolo. “Cominciamo soltanto ora a vedere quanto l’organizzazione delle comunità umane sia completamente porosa rispetto ai sistemi naturali, su una variabile enorme di interdipendenze”, dichiara Jason Moore. Senza una tale permeabilità reciproca, il capitalismo non sarebbe mai sbocciato. 

Ma da qui scaturisce anche l’imperativo morale europeo ad affrontare l’origine del benessere occidentale andato in pezzi sulle scogliere del disastro ecologico alle soglie di un inverno, o quel che ne resta, freddo e buio. Sono sono questi i veri argomenti spinosi della conferenza di Montreal. È tempo di una robusta “politica della colpa”, che metta a carte quarantotto il nostro perbenismo politico, come ha scritto su DIE ZEIT il giornalista tedesco Georg Diez: “una socialdemocrazia del 21esimo secolo non può permettersi di concentrarsi sulle ormai vecchie questioni dell’ascensore sociale e dell’uguaglianza, in un mondo del lavoro che è comunque oggi già radicalmente cambiato. Giustizia vuol dire ormai animali e diritti degli animali, pensiero sulle generazioni future, sulla colpa ereditata, ad esempio attraverso la storia coloniale”. Vale a dire che neppure nel Paese più ricco d’Europa la più prossima e contingente questione nazionale (il caro energia, le fibrillazioni sociali dei ceti medi impoveriti, il conflitto politico tra i Verdi e i Socialdemocratici) può permettersi di tagliar fuori la più generale questione della biosfera e degli esseri viventi che la abitano. Questa è la storicità europea. Questa è la storicità della sesta estinzione di massa. 

Noi siamo parte del Pianeta perché abbiamo una storia. La cultura, in senso propriamente evolutivo, ci rende capaci di storia. E noi sappiamo di esistere perché abbiamo una storia. La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera.

“Al momento se ne parla poco, eppure questo 2022 non è semplicemente un annus horribilis. È l’inizio di una nuova epoca”, scrive, sempre su DIE ZEIT, Bern Ulrich, un esperto di clima, un convinto vegano (e un feroce critico delle politiche sociali tedesche, a cui non basta neppure una coalizione di governo con i Verdi in posizioni di primaria rilevanza). “S’è consumata una frattura con il passato. Questi sono tempi in cui i Governi non possono più fare politica per i cittadini senza i cittadini; non si può stoccare riserve di gas senza risparmiarlo il gas, ed offrire solidarietà sociale senza imporre rinunce a chi quelle rinunce le può sopportare. Non ci può essere neppure vera protezione della natura senza che ciascuno di noi abbia meno spazio a sua disposizione; nessuna protezione delle specie animali senza mangiare meno carne, nessuna sicurezza senza dover vedere fuori della finestra una pala eolica”. Uno schietto realismo, insomma, che dovrebbe funzionare come programma politico europeo. E come programma occidentale al tavolo dei negoziati di Montreal.

La defaunazione è il volto della civiltà

La defaunazione è il volto della civiltà. La vera minaccia alla biosfera sono le miriadi di estinzioni delle popolazioni sull’intero spazio geografico della specie.
(Petis Palais, Parigi- il quadro, dipinto a metà Ottocento, rappresenta il grande ottimismo dell’umanità occidentale nel pieno dell’epoca del “progresso”, del Positivismo e dell’industrializzazione. La nostra demografia era percepita come una manifestazione di dinamismo, nonostante le condizioni di vita terribili dei ceti operai, soprattutto nelle grandi città. Questa è la Parigi raccontata da Emile Zola. Oggi, invece, l’iper-demografia umana aggrava i fronti di crisi dell’Antropocene ed è una delle cause della defaunazione del Pianeta)
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La defaunazione è il volto della civiltà globale. La vera minaccia alla biosfera sono le miriadi di estinzioni delle popolazioni animali un tempo presenti sull’intero spazio geografico della loro specie. Non la scomparsa conclamata di una specie. Ma il suo lento accomiatarsi da intere regioni su scala continentale.

A condurci al centro del problema è ancora una volta è il Gruppo di Stanford (Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos, Paul Ehrlich). I tre massimi esperti di questo fenomeno firmano uno studio se possibile più incisivo dei precedenti, uscito lo scorso 27 giugno su PHILOSOPHICAL TRANSACTION B della Royal Society: “Circling the drain: the extinction crisis and the future of humanity”.

Eppure, la defaunazione rimane una emergenza globale sconosciuta all’opinione pubblica. Su Instagram ci sono circa un centinaio di persone che ne parlano. Ma la defaunazione offre la chiave di interpretazione più importante del collasso della biodiversità. Per descriverne gli effetti, infatti, l’ecologia deve allearsi con lo studio della culture umane moderne e con l’economia. 

C’è anche un altro vantaggio, quando ci si addentra nelle foreste tropicali sempre più povere di vertebrati ed invertebrati. La defaunazione è lenta e impercettibile fino a quando le sue conseguenze diventano irreversibili. È, quindi, un fenomeno biologico, ma anche una grande metafora della civiltà umana iper-moderna. Anno dopo anno, ci inoltriamo in un esperimento inedito (Antropocene) dandone per scontate le conseguenze, che filtrano come banale routine nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Ma la sesta estinzione di massa, preparata da cambiamento climatico e defaunazione, preannuncia un impoverimento radicale del nostro sentimento di umanità. 

Negli ultimi 8 anni le certezze scientifiche sulla defaunazione hanno letteralmente cambiato il modo in cui pensiamo la sesta estinzione di massa. La diversità biologica del Pianeta va scemando, perché avanza la defaunazione: lo spopolamento interno di una specie, che perde progressivamente spazio geografico. E quindi un numero incalcolabile di sottili differenze (fenotipi) e adattamenti particolari, unici, che, nella somma delle sue popolazioni, rendevano quella specie molti diversificata, plastica e resiliente. Anche la IUCN include ormai il monitoraggio della diversità genetica tra i principali strumenti di conservazione del XXI secolo. 

Non sono tempi in cui risulti poi così arduo interrogarsi sul futuro dell’umanità. Sulla PNAS – PERSPECTIVE, un gruppo di ricercatori che invece si occupano soprattutto del sistema climatico terrestre ha lanciato una provocazione (“Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios”) politicamente appropriata (forse loro malgrado). Coerente con il caos che la crisi energetica ha portato nel cuore stesso dell’Europa, messa a ferro e fuoco da incendi, siccità e temperature ben oltre i 40 gradi Celsius. Lo scenario climatico peggiore, quello da fine corsa per la biosfera e l’umanità, il “Climate Endgame”, meriterebbe ormai una agenda politica e scientifica a parte, questo sostengono gli autori. Finora considerata troppo remota, la possibilità che anche un aumento di 2 gradi Celsius di temperatura possa innescare un collasso del Pianeta e della comunità umana è invece verosimile.

Accettarlo aiuterebbe a mettere in campo l’applicazione massima del principio di precauzione. Il rischio maggiore non è tanto il riscaldamento della Terra: “particolarmente preoccupante è l’innesco di una effetto domino a cascata di processi di non ritorno, che cominciano ad interagire tra loro in modo che una soglia limite superata su un aspetto ne mette in movimento un’altra, altrove”. Questo ha a che fare prepotentemente con la defaunazione: “la crescita delle temperature dipende, in modo cruciale, dall’insieme delle dinamiche del Sistema Terra, non soltanto dalla traiettoria delle emissioni antropogeniche”. La biosfera  contribuisce infatti alla regolazione e all’equilibrio del sistema climatico. 

L’intreccio di pericoli letali comprende la disintegrazione delle reti finanziarie, il conflitto sociale violento, i tassi di mortalità e la diffusione di zoonosi favorite dal caldo torrido sempre più frequente.

Che cosa dovremmo aspettarci? “É tempo per la comunità scientifica di venire a patti con la sfida di una migliore comprensione di un cambiamento climatico catastrofico. Una valutazione del rischio dovrebbe considerare come i rischi stessi si diffondo, interagiscono e si amplificano, aggravati, anche, dalla possibile risposta umana. La pandemia da Covid-19 ha indicato l’importanza di prepararsi a pericoli non frequenti, ma di alto impatto globale, e dotati di un gradiente di rischio sistemico. Gestire in modo prudente queste eventualità implica di tenere sempre in considerazione gli scenari peggiori”. Le crisi globali del XXI secolo, infatti, si espandono attraverso “fallimenti di risposta che tendono poi a funzionare in sincrono”, come la crisi finanziaria del 2008. 

La definizione corretta per una valutazione di impatto di questo tipo è “integrated catastrophe assessment”. Uno dei capitoli riguarda il potenziale del cambiamento climatico di innescare ed accelerare eventi di estinzione di massa. 

Tra i servizi ecosistemici decimati e compromessi dalla defaunazione c’è la dispersione dei semi nei contesti tropicali garantita da numerose specie di uccelli e di mammiferi in contrazione numerica: è un tema che negli ultimi dieci anni è andato imponendosi con sempre maggiore forza sulle principali riviste scientifiche.

Il Gruppo di Stanford non usa un tono meno preoccupato. Anche perché stavolta il messaggio sulla defaunazione supera i confini delle foreste tropicali. Se vogliamo capire fino in fondo cosa è la defaunazione, dobbiamo prendere in considerazione la geografia delle specie. Ovunque. Anche dove i parchi nazionali sono spacciati come la soluzione-panacea a tutti i nostri problemi. 

Il “cantiere” dell’estinzione di massa del nostro secolo sono le migliaia di estinzioni delle popolazioni locali di una specie. La rarefazione del numero di individui che compone una specie avviene sullo spazio geografico (home range) effettivamente occupato dalla specie stessa prima che l’espansione delle attività umane cominciasse a ridurne l’estensione. 

Dirzo, Ceballos ed Ehrlich, però, dicono che questa situazione, che siamo abituati a considerare circoscritta a poche specie molto minacciate, è in realtà ormai la realtà storica di moltissimi animali. Animali a cui continuiamo ad attribuire un significato speciale nel nostro immaginario del Pianeta selvaggio. 

L’analisi geografica, combinata con le proiezioni sul numero di animali che compongono una specie, rivela che elefante africano, orso grizzly, giaguaro, lupo, rinoceronte nero, ippopotamo, bisonte nordamericano, orango sono specie già defaunizzate. Gli ecosistemi (e le nazioni) che le ospitano patiscono oggi gli effetti sistemici del degrado ambientale prodotto dal loro crollo numerico. Ecco qui dove si propaga, lontano dai riflettori, il crollo della resilienza anche del Nord ricco del Pianeta al caldo rovente che verrà.

Le cinque, grandi estinzioni di massa che abbiamo alle spalle dovrebbero ricordarci una doppia lezione molto importante. La diversità biologica della Terra può recuperare e tornare, ma questo recupero richiede milioni di anni. Ma soprattutto “dopo una estinzione di questa scala l’albero della vita si evolve in una configurazione radicalmente nuova. L’identità degli organismi che, per così dire, emergeranno dalle ceneri e la struttura delle comunità e degli ecosistemi di cui saranno parte, differirà profondamente dal periodo ‘normale’ prima dell’estinzione”. 

La seconda lezione è questa. La nostra specie è comparsa in un momento della storia del Pianeta in cui la diversificazione biologica dell’età dei mammiferi raggiunse una intensità numerica e qualitativa prodigiosa, “la più varia ed intensa nell’intera storia della vita”. Questo significa che è stata la ricchezza di specie della Terra a rendere possibile tanto la nostra nascita ed evoluzione quanto le nostre caratteristiche più specifiche e stupefacenti. Non saremmo mai diventati completamente “umani” senza le specie con cui abbiamo condiviso, sin dalle proto-scimmie del Miocene (4.5 milioni di anni fa) la nostra storia evolutiva. 

Civiltà e culture possono esistere, senza animali selvatici? 

Il Gruppo di Stanford invita insomma a leggere la defaunazione nel quadro più generale dell’emergere dell’Antropocene, l’esperimento di adattamento ecologico planetario di Homo sapiens. Negli ultimi 5 secoli, la strategia di espansione delle comunità umane ha potuto contare su un fattore moltiplicativo di impatto e trasformazione di ecosistemi e risorse naturali che oggi chiamiamo “crescita”. Qui sta l’origine del cambiamento climatico (la mobilitazione della produzione netta primaria fossile, ossia petrolio e carbone) e l’inizio moderno dell’Antropocene. 

La defaunazione è il sintomo più importante della sesta estinzione di massa. Negli ultimi 520 anni si sono estinte “solo” 700 specie di vertebrati. Un numero che parrebbe confortante. In realtà, sono stati spazzati via milioni di animali. 

Una specie che prospera sulla misura del tempo lungo (secoli) conta migliaia di individui distribuiti su territori enormi, e non qualche centinaio confinato in un parco nazionale o in una area protetta. Geografia e genetica sono i due fattori fondamentali della diversificazione delle popolazioni animali in una stessa specie.

“All’interno del loro range originario, gli individui che compongono queste popolazioni sono abbastanza numerosi da rendere queste popolazioni demograficamente e geneticamente vitali. Ma poi accade che questi mosaici di popolazioni siano investiti dai alcuni fattori di impatto antropogenico, uno per volta o di più contemporaneamente, intrecciati in sinergie complesse. Ecco, allora, che sotto stress, l’abbondanza degli individui comincia e declinare, e alcune popolazioni riducono la loro densità sotto il limite di guardia della vitalità di una popolazione. In qualche caso, le popolazioni avranno un declino ancora più marcato, scivolando verso l’estinzione e la contrazione del range della specie. Mentre questo processo avanza e progrediscono le estinzioni delle singole popolazioni, si contrae e riduce anche lo spazio originale della specie, fino al punto che soltanto poche popolazioni, composte da un numero molto basso di individui, sopravviveranno in popolazioni ora non più vitali dal punto di vista demografico e genetico. Ormai, la specie certamente c’è ancora, non è estinta, e tuttavia ha fatto esperienza di un collasso interno e l’umanità ha perso i servizi ecosistemi che un tempo essa garantiva”

È un “olocausto biologico”, secondo il Gruppo di Standord. Tra i pochi che hanno colto la gravità della situazione c’è Jedediha Brodie, ecologo alla University of Montana, che nel 2021 ha pubblicato sulla PNAS un lavoro pionieristico su quanto conta la diversità evolutiva delle faune del Pianeta. “La diversità filogenetica è una misura fondamentale della biodiversità, probabilmente la migliore delle misure”, scrisse in quell’occasione Brodie. Questo è il concetto più importante dell’intero discorso sulla conservazione, almeno dopo l’uscita del 2014 di Rodolfo Dirzo sulla defaunazione stessa.

Gli ecosistemi “funzionano” e tengono quando sono popolati da migliaia di animali di migliaia di specie differenti. Se potessimo sommarne la storia evolutiva presente e passata, scopriremmo che dovremmo risalire a milioni di anni fa per rintracciare il momento in cui tutte queste specie hanno cominciato a differenziarsi le une dalle altre, attraverso i loro antenati. 

Un esempio impressionante di defaunazione è quanto accaduto alla Castiglia (Spagna) esattamente negli ultimi 5 secoli. Duarte Viana, un ecologo della Doñana Biological Station del Consiglio Nazionale per la Ricerca in Spagna, ha esaminato le registrazioni storiche di un “censimento della flora e della fauna” deciso da Filippo II di Spagna tra il 1574 e il 1578. I documenti rimasti testimoniano che all’inizio delle Guerre di Religione europee tra Cattolici e Protestanti nella Spagna centrale c’erano specie animali oggi estinte o rarissime come l’orso bruno cantrabrico e il lupo iberico. Anche l’anguilla europea (Anguilla anguilla), a quei tempi presente in tutti i corsi d’acqua del Paese, e allora fondamentale risorsa alimentare, è oggi confinata solo negli estuari dei fiumi spagnoli. Il paesaggio faunistico della Spagna è radicalmente mutato in 500 anni.

A partire dal XVI secolo i racconti di viaggio sono la fonte primaria sulla defaunazione. Pullulano di inconsapevoli esempi della decimazione in atto delle popolazioni di specie animali che generavano profitti economici.  Oppure, all’opposto, descrivono le strabilianti moltitudini di animali presenti in regioni oggi completamente spoglie di quelle specie. 

I leoni regnano in Etiopia, in Africa Settentrionale, in Persia vicino a Bassora, o anche sulla strada del nord-ovest dell’India, verso l’Afghanistan”. La Siberia, in mano ai Russi dall’inizio del ‘500, offre alla vista spettacoli analoghi. Nella primavera del 1776 una spedizione di ufficiali russi risale il fiume Ob e uno di loro annota: “ho contato almeno cinquanta isole, sulle quali il numero delle volpi, delle lepri e dei castori era tale che li vedevamo scendere fino all’acqua”. La penisola della Kamcatka diventa un paradiso per la caccia alla lontra di mare, che verso il 1786 è ormai quasi scomparsa. A nord di Pechino i cavalli selvatici sono così numerosi da essere regolarmente presi al laccio. 

Già a ridosso della Riforma, però, proliferano anche le politiche di decimazione di animali considerati nocivi. Nel 1520 Francesco I di Francia istituisce per legge la professione dei grands louvetiers, i cacciatori di lupi. Nel 1779, una fonte francese scrive, sui lupi: “sembra che se ne voglia annientare la specie in Francia, come è stato fatto da più di seicento anni in Inghilterra”. Non sono solo gli Europei a cacciare senza remore. “In Manciuria, dove viaggia on l’enorme seguito dell’Imperatore della Cina – centomila cavalli – padre Verbiest assiste nel 1682 a fantastiche cacce, alle quali partecipa suo malgrado (…) in un sol giorno vengono abbattuti un migliaio di cervi e sessanta tigri”. 

Un altro esempio di defaunazione è contenuto niente meno che nell’Urfaust di Goethe. Per indicare il gufo reale, ai versi 3273 e 3889 Goethe fa ricorso ad un sostantivo onomatopeico (“der Shuhu”), che ricreava il fruscio delle ali di questo predatore quando planava di notte fra i rami degli alberi, nei boschi tedeschi. Oggi il gufo reale è funzionalmente estinto in Germania. E con lui la parola dall’eco magica che lo descriveva.

Il fatto che la diversità filogenetica diminuisca significa che la biosfera entra in una condizione di “omogeneizzazione”. Il Pianeta diventa più omogeneo: meno specie, molto simili tra loro. 

Gli uccelli, ad esempio. Le specie più particolari, quelle endemiche di piccoli habitat, quelle più specializzate, sono a maggior rischio di estinzione rispetto ai generalisti. Il cambiamento climatico stesso è un potente fattore di omogeneizzazione perché spinge il “climate-driver shift”: le specie si spostano per insediarsi in nuovi territori con temperature simili a quelle in cui si sono evolute ed adattate. I generalisti sono meno sensibili alle caratteristiche uniche di una foresta tropicale o di un paesaggio collinare ai piedi dell’Himalaya. “L’impatto delle azioni umane è plausibile sia addirittura peggiore di quanto abbiamo pensato finora, basandoci solo sul conto delle specie”, ha commentato Brodie su SCIENCE. In totale sintonia con il Gruppo di Stanford.

Tra pochi mesi la CBD si riunirà a Montreal in Canada per definire l’accordo globale sulla protezione del Pianeta. Se la defaunazione è il sintomo principale dell’estinzione, perché se ne parla così poco? “Le domande che mi fai sono eccellenti, e vanno al cuore della questione della conservazione. Direi che la defaunazione è il secondo più importante fattore di estinzione, perché il primo rimane la perdita di habitat, che ne è il presupposto. Presto, probabilmente, il cambiamento climatico li surclasserà entrambi. Ma non dobbiamo vedere il cambiamento climatico come un fattore separato, anzi”, mi scrive Brodie. “Interagisce sia con la perdita di habitat che con la defaunazione, peggiorando entrambi. Si fa un gran parlare del cambiamento climatico, ma non c’è una sola grande nazione che si muova nella direzione adeguata a contrastarlo sul serio. È una mentalità da testa sotto la sabbia. Ci si preoccupa di più dei social media che della distruzione di interi ecosistemi e culture, una distruzione che è vicina, sulla linea del tempo”. 

Nonostante tutte le controversie e le polemiche, l’ipotesi del 30% entro il 2030 rimane la migliore opzione sul tavolo. Purtroppo. “Hai ragione quando affermi che il 30×30 non sarà sufficiente a frenare e fermare la perdita di diversità filogenetica. Credo però sia importante. Aiuterà, e forse più di qualunque altra azione attualmente percorribile. A parte, almeno in teoria, un decisionismo più forte sul cambiamento climatico”. 

Una ulteriore riflessione va aggiunta. Polarizzare l’attenzione sulle singole specie distorce il ragionamento, compromettendo la nostra capacità di comprensione. Ogni impatto ambientale è infatti la combinazione di una sinergia di fattori addizionali, ma non lineari o deterministici. Per analizzarli, serve un pensiero votato a cogliere la complessità del reale.

Siamo invece abituati a semplificare. 

Ma un pensiero rarefatto tende sempre ad essere omogeneo. Povero di dialettica e di provocazioni. Monocolore. Incapace di reggere il confronto delle proprie e altrui argomentazioni. In fondo, è proprio questo il pensiero dello status quo (non cambiare nulla per non rischiare nulla) che ancora oggi ci impedisce di prendere coscienza della nostra condizione nel XXI secolo. 

La defaunazione ci dice che, invece, la sesta estinzione è storia di economia e di cultura. Nessuna di queste due dimensioni dell’esperienza umana risponde a logiche unidirezionali. 

La biodiversità è un concetto olistico, insegna Telmo Pievani. Riguarda anche la nostra cultura. Gli hot spot di biodiversità sono anche i luoghi del Pianeta dove maggiore è la diversità culturale. 

Imparare a pensare il nostro secolo significa quindi imparare a pensare la defaunazione del Pianeta, che è un tratto caratteristico della civiltà umana globale. 

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E alla fine una stanza piena di ossa

(Museo di Storia Naturale di Parigi, il Gabinetto Anatomico in omaggio di George Cuvier)

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Si esce dal Musée du Quai Branly sotto chock. Che cosa abbiamo fatto? Perché non ce ne siamo accorti? Perché non sappiamo niente degli Africani? E alla fine una stanza piena di ossa (gli estinti, quelli in via di estinzione, i quasi estinti da salvare non si sa come) sembra essere l’eredità europea sul mondo.

Questo è un Louvre, proprio perché è un contro-Louvre. Ma c’è anche una altra sensazione. Il Musée du Quai Branly è diventato un posto chic. Va bene, centro di ricerca prestigioso, forse in futuro uno dei più rilevanti nella costruzione di un sapere di sintesi sull’Antropocene. Ma anche un luogo alla moda, la cui eleganza sposta tutta l’attenzione sulla piacevolezza di un caldo mezzogiorno di estate precoce. 

Il Café Jacques (in onore di Jacques Chirac che volle il museo) è una leziosa veranda ai cui tavolini siedono abiti di costosa sartoria, collane di perle, abbronzature da weekend in campagna e conversazioni leggere. Ascolto qualcuno commentare l’ultima collezione di Givenchy. Io non mangiavo del pollo da, credo, 5 anni. 

Nella sola Europa vengono allevati almeno 2 miliardi di polli. Sono di più di tutti gli uccelli selvatici del nostro continente messi insieme, che appartengono a 144 specie. Milioni di ossa di pollo fritto, arrostito, grigliato, marinato, rimarranno a decomporsi nei secoli a venire nelle discariche o saranno incenerite. Ossa ormai inutili, cheap nature, vite di scarto. 

Eppure, è dalle ossa che è cominciata buona parte di questa storia. Prendo la RER sul Ponte dell’Alma e scendo alla Gare d’Austerlitz, a sud est della città (ci sono 30 gradi, e siamo a metà maggio). Obiettivo: il Jarden des Plantes, ossia il Museo di Storia Naturale di Parigi dove lavorava George Cuvier.

Cuvier fu uno dei geni del periodo rivoluzionario, prima sotto il Terrore di Robespierre e poi in epoca napoleonica. Era un teorico della fissità delle specie (Dio ce ne scampi dall’ipotizzare una evoluzione intrinseca, Monsieur Lamarque, lei è un imbecille !), ma qualcosa di giusto lo intuì su quelle che lui chiamava  “catastrofi ricorrenti”, e cioè (in lessico scientifico corretto) le estinzioni di massa. Cuvier fu anche, forse questa è la cosa più importante, un eccellente anatomista. Sezionava e comparava le differenti parti di organismi diversi, stabilendo connessioni funzionali di strutture e organi. I suoi studi diedero un impulso gigantesco alle allora nascenti scienze naturali. Di fatto, Cuvier figura tra coloro che inventarono il modo moderno di vedere gli animali. 

Eppure, era anche un razzista impenitente. Certo la catalogazione della natura, gli animali, gli diedero agio e strumenti di immaginare una organizzazione della vita che a quel tempo era quasi fantascienza. Ma le tassonomie sono servite anche per tentare di dimostrare che un nero africano non poteva essere parente di un bianco francese. Ma poi, che cosa significa catalogare gli esseri viventi secondo i rapporti e le proporzioni delle ossa e degli arti, e categorie di somiglianza e divergenza ? Significa elaborare per il fenomeno biologico una interpretazione logico-razionale. 

Da qui parte il viaggio dell’uso della natura. Capisco, quindi manipolo. Dilemma ancora incompreso della coscienza scientifica europea. Non è poi troppo strano, per quanto mostruoso, che tutto ciò che rimane di Cuvier sia questa stanza (il suo Gabinetto anatomico) popolato di scheletri. 

Questo è l’esito di ciò che è accaduto dentro il Musée du Quai Branly. Anonimi sono da secoli per noi i popoli africani da cui abbiamo preso tutto. Anonimi sono gli animali sezionati per estrapolare dai loro tessuti e dal loro respiro il segreto della nascita e della morte. E così anonimo diventa sinonimo di estinto.

Per saperne di più: CAPIRE LA SESTA ESTINZIONE – LA PIU’ GRANDE RIVOLUZIONE UMANISTICA DELLA STORIA

La civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare se stessa

La nostra civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare ciò che è. Ci sono voluti cinque secoli. Oggi questo percorso è compiuto e la civiltà ha esaurito le proprie possibilità.
(Figura maschile di un portatore di coppe, popolo Bekom, Cameroon, provincia di Nord-Ovest, Regno di Kom, XIX secolo – Musée du Quai Branly, Parigi)
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La civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare se stessa. Ci sono voluti cinque secoli. Oggi questo percorso è compiuto e la civiltà ha esaurito le proprie possibilità. Eccolo il potere divinatorio e profetico del Quai Branly.

Si entra nel cuore del Musée du Quai Branly (la roccaforte dell’etnografia europea) percorrendo un lungo tunnel buio. E questo è un museo scuro, dove filtra pochissima luce. Come nelle foreste tropicali. Lucien Fevre, padre della storiografia moderna, non credeva che interi popoli potessero abitare le foreste tropicali, “così debordanti e potenti da non permettere alcuna vita se non la propria”. Era il mito dell’oscurità tropicale. E se oggi avessimo paura di noi stessi, anche se abbiamo vinto su ogni animale e su ogni foresta e su ogni popolo delle foreste? Se fossimo noi Europei, adesso, a vivere nel buio?

Jacques Chiraq volle il Musée du Quai Branly nel 2006. Chiraq volle questo museo per favorire il dialogo tra i popoli. Ma dove è menzionato il genocidio? Dove l’ecocidio?

Nietzsche pensava che la nostra civiltà avesse smesso di essere crudele, che non fosse più capace di quella ferocia che le aveva consentito di diventare grande. Il Quai Branly smentisce Nietzsche. Non solo siamo stati crudelissimi. Oggi la maggiore crudeltà la infliggiamo proprio a noi stessi perché non ci rendiamo conto del nostro nome. Non siamo capaci di decifrare noi stessi nella civiltà che abbiamo edificato.

Siamo prigionieri della nostra interpretazione del mondo. E il Quai Branly racconta questa interpretazione europea del mondo. 

Quando arrivammo sulle coste africane, usammo l’arma dell’interpretazione. Perché anche la civiltà è una interpretazione del mondo. Michel Foucault lo sapeva bene. Credeva che addirittura la Modernità fosse una invenzione, che persino l’uomo fosse una invenzione culturale del Cinquecento e del Seicento. Siamo stati capaci, in nome della nostra interpretazione del mondo, di estinguere intere porzioni di Pianeta. Le persone, le civiltà, le storie, le biografie, enormi assemblage di specie.

Eppure, qui non c’è una parola sulla deforestazione. Non ci sono indicazioni sulle specie arboree dai cui alberi a legno duro venne tagliato il legno per queste figure di antenati e demoni. Questo congela le collezioni, non le lascia parlare fino in fondo. Mozza loro la voce sul confine del tempo presente. Effetti dell’interpretazione.

Ecco qui, non nella questione della restituzione sollevata da Savoy e Macron, il rischio di una rappresentazione neo-coloniale delle civiltà africane. Tagliando fuori il XXI secolo. In modo da essere politicamente corretti. Ma non possiamo occultare il presente per non far torto al passato. O per lenire i sensi di colpa. In questa lacuna di riferimenti e di rimandi alla cronaca ambientale dell’Africa Occidentale e del Congo Basin c’è un limite gigantesco della nostra esperienza di quelle geografie e di quei popoli.

(Musée du Quai Branly, Special Exhibition sull’istutuzione politica della Chefferie in Cameroon – la chefferie è un territorio caratterizzato dalla presenza specifica di un popolo e della sua cultura, alla cui guida c’è un capo (chef). In questo contesto il mondo dei vivi (la comunità) è in costante dialogo con il regno degli antenati (i morti). Gli antenati sono il fondamento di una famiglia. Lo chef, quindi, rapprenta il consesso degli antenati, amministra la guerra e la giustizia. Anche alcuni animali figurano nel novero degli antenati. Questa è una delle idee centrali del totemismo. Ad esempio, nella società Bamileke: i legami tra regno animale e uomini sono radicati nella storia stessa degli individui e delle famiglie. In Cameroon la chefferie, spiega la Exhibition, è presente nella regione di Grassfield, i cui totem-antenati sono specie iconiche: leoni, leopardi, elefanti, bufali, gorilla, pitoni).

Qui c’è una voragine neocoloniale. Perché, se escludo a priori di far convergere sul presente le condizioni d’essere, storiche, di quelle opere (ad esempio, il fatto che oggi il leone in Cameroon sopravvive solo nel Bénoué Ecosystem, nel nord del Paese, che si estende su 3 parchi nazionali formalmente protetti e 32 zone di caccia, “una delle ultime 3 roccaforti per i grandi carnivori in tutta l’Africa centrale e occidentale”; questa sub-popolazione del leone occidentale è studiata soltanto da un uomo, il dr Serge Alexis Kamgang, vincitore del prestigiossimo Whitley Award) , le loro premesse simboliche (le specie animali); se evito di aggiungere dettagli sui materiali (e invece di marmo, pittura a olio, pigmenti minerali, azzurro-lapislazzuolo si parla sempre), nel timore di sgarrare e di infrangere un codice di buona condotta che identifica il rispetto con la sola esposizione  dell’opera (come una offerta allo sguardo bianco); se lo faccio, tutto questo, allora ottengo l’effetto opposto della guerra senza quartiere al razzismo. Ho buone intenzioni, ma ho troppa paura per andare fino in fondo.

Ebbene sì, agisco in modo coloniale. Perché l’opera finisce immobile, incastonata e muta. E anche chi guarda si vede sottratto un momento fondamentale del comprendere. Mettere in sequenza cronologica ciò che fu commesso contro quell’opera (spostandola in Europa), contro quel popolo (sottraendogli la sovranità ambientale) e le conseguenze ecologiche sistemiche di simili politiche. 

La nostra civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare ciò che è. Ci sono voluti cinque secoli. Oggi questo percorso è compiuto e la civiltà ha esaurito le proprie possibilità.
(Musée du Quai Branly, Maschera Epa – Yoruba (Nigeria), legno, XX secolo, leopardo che preda una gazzella. I leopardi oggi sono quasi estinti nella regione)

Lo sgomento del visitatore si scioglie nell’oscurità. Mestizia di tenebre. Sontuosità artistica spalancata sul mistero dell’essere umano. Certamente, passeggiando tra questi volti, cercando di cogliere un senso complessivo nella loro presenza, ci si chiede per quale motivo l’Africa dovrebbe interessarci. Un sentimento meschino che così facilmente può diventare ripulsa spirituale. Così siamo stati educati. Non è la stessa familiarità che abbiamo con i marmi del Partenone… È arte primitiva…Come potrebbe mai essere paragonata a Michelangelo?

Queste figure (dei, totem, antenati) raccontano di relazioni ecologiche (con gli alberi, con le specie animali) diverse da quelle che noi europei abbiamo saputo intessere e coltivare. Le civiltà non europee, oggi agganciate ai meccanismi dell’economia globale, attribuivano al proprio contesto ecologico un valore bio-culturale che non poteva essere soppresso o smantellato, pena la disintegrazione stessa della comunità. 

Ancora oggi nei popoli indigeni la relazione eco-evolutiva tra esseri umani ed animali è un patrimonio collettivo che dà un senso all’esistenza. La vita umana è regolata e circoscritta entro cosmologie eco-culturali. Questo dimostra che lo schema contemporaneo della conservazione della natura non è un dato di fatto, ma un prodotto ben preciso della mentalità occidentale. 

“Le strategie indigene di uso delle risorse sono il prodotto di una trasmissione di conoscenza intergenerazionale. Spesso questo sapere viene passato attraverso il racconto orale: tiene insieme sistemi di classificazione delle specie animali e delle caratteristiche del paesaggio, informazioni su come impiegare in modo sapiente le risorse, rituali simboli e pratiche religiose.

Nel tempo, questi sistemi di pensiero hanno permesso alle società indigene di persistere per millenni in una varietà enorme di ambienti, spesso coesistendo perfettamente con la biodiversità, primati compresi. Inoltre, per lo più questo sapere tradizionale è articolato su un lingua altamente specifica. Questo significa che ogni lingua indigna contiene e rappresenta informazioni uniche su piante, animali, ambienti e il modo in cui questi esseri umani sanno interagire con tutto questo”.

“I Baka del Cameroon considerano i gorilla (di pianura) e gli scimpanzé animali speciali che hanno legami con gli esseri umani per via di processi magici di reincarnazione. Ma anche nelle ontologie di altri popoli raccoglitori del Congo Basin i primati possano passare le barriere tra specie, quelle che dividono gli umani dai non-umani. Non sorprende, quindi, che molte di queste popolazioni caccino meno primati rispetto a quanto invece fanno le popolazioni del Congo che non vivono più in modo tradizionale”. 

(Feticcio contenete metà uomo e metà scimmia – Departimento di Bamboutos, Regione dell’Ovest, Cameroon, Chef de Bamendjo, Museé du Quai Branly

Ecco perché nei popoli e nelle nazioni a noi Occidentali pressoché sconosciuti del sud globale – i volti che incontriamo al Quai Branly – portano scritte nei propri corpi intere “sociocosmologie che danno valore alla biodiversità”. 

L’Africa è lontana. Dobbiamo ammetterlo. Anche se è vicinissima (Rue Saint Martin, Rue Saint Denis, Chateau l’Eau, Republique). L’Africa ci sfugge. Il giovane del Senegal che vende su un lenzuolo piccole Tour Eiffel Made in China sul Quai. L’Africa noi Europei non la vogliamo toccare a mani nude. Ma è lei che ci raggiunge. Ci afferra. Ci costringe. Ci avvinghia. Ci fa innamorare del nostro tempo, di tutto il tempo che ci è concesso in questo secolo maledetto e abbagliante. 

Per saperne di più: MUSEO ANTROPOCENE

Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane

Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane
(Il giardino del Musée du Quai Branly a Parigi)
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Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane: questo è il posto migliore di Parigi per parlare di cosa accadrà alle primarie rimaste dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo. Nel racconto artistico e culturale delle sue opere, già avvolte da controversie e polemiche sempre più accese da quando Emmanuel Macron commissionò una investigazione speciale sulla loro provenienza alla storica francese Bénédicte Savoy e al filosofo senegalese Felwine Sarr, queste collezioni sono diventate centrali nel dibattito sulla sopravvivenza di alcuni degli ecosistemi più importanti del nostro Pianeta. 

(La facciata esterna del Museo fotografata dal Quai Branly annuncia la Special Exhibition sul Cameroon)

Il fronte alternativo della conservazione (che include i rappresentanti dei cosiddetti popoli indigeni) si batte contro i metodi di misurazione degli habitat ancora selvaggi. Questi ricercatori, e questi attivisti, ritengono infatti che i criteri per definire gli ecosistemi “ricchi di biodiversità” siano di fatto riconducibili ad un concetto errato di integrità ecologica. Ottocentesco e coloniale: una natura svuotata della presenza di qualsivoglia comunità umana. In realtà, anche questa posizione rischia di assumere un carattere prepotentemente ideologico e politico. Negli ultimi 7 anni, infatti, la ricerca scientifica ha rivisto il concetto di “intactness” e di “pristine wilderness”. Non solo includendo nel discorso sul futuro di questi ecosistemi le popolazioni native delle regioni ancora oggi ricchissime di specie vegetali e animali. Ma anche articolando in modo decisamente più dettagliato che in passato la definizione stessa di habitat selvaggio. 

Che cosa si intende, oggi, per natura selvaggia? Ormai lo sappiamo: non basta che un ecosistema sia ricco di un certo numero di specie, e cioè biologicamente diversificato. Bisogna capirne la funzionalità ecologica: sono presenti tutte le tipologie di specie che permettono gli scambi di sostanze nutritive, i flussi di sostanze chimiche di rilevanza biologica e addirittura la riproduzione di numerosi alberi e piante? Vale a dire, questo ecosistema ospita i frugivori, i carnivori e gli onnivori in gruppi abbastanza numerosi da interagire tra loro? Questo ecosistema contiene dunque una diversità filogenetica tra le sue specie, ossia una lunga storia evolutiva di tutte queste specie messe insieme tale da aver definito nel tempo lungo il ruolo di ciascuna, e le une rispetto alle altre?

Ecco quindi che nel 2016 la IUCN ha proposto un set di nuovi criteri per identificare le aree più importanti del mondo pullulanti di biodiversità. L’integrità ecologica è il più importante, perché somma tutte queste caratteristiche in una sola: l’integrità biologica di un ecosistema. Le aree selvagge devono essere abbastanza estese da ospitare la maggior parte dei processi ecologici, compresa la presenza dei grandi predatori altamente mobili (che si spostano cioè su larghe distanze). E dei grandi mammiferi: erbivori di media-grossa taglia e frugivori esperti nel disperdere i semi delle specie di alberi a legno duro, come quelli endemici delle foreste tropicali primarie che stoccano anche più carbonio.

(Il giardino del Musée du Quai Branly con il Café Jacques e la biglietteria)

I luoghi da cui provengono (spesso attraverso la violenza coloniale) le opere d’arte dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo custodite nel Quai Branly non sono più, a oltre un secolo di distanza, quelli che erano al tempo del dominio straniero. Molto spesso, non hanno più queste caratteristiche ecologiche. Moltissime delle specie che avevano un ruolo nel pantheon simbolico, demonologico e religioso delle civiltà indigene sono ormai scomparse, o molto rare. Le figure religiose, gli antenati e i protagonisti della vita spirituale di queste nazioni oggi al Quai Branly sono dunque testimoni silenziosi di estinzioni già avvenute (è il caso del leone occidentale) o ancora in corso. Senza le specie animali che oggi è difficile incontrare o anche ricordare, quelle opere d’arte non sarebbero mai state pensate, nel loro simbolismo e nel loro significato sociale. Nel legame che stringeva uomini, donne, animali e foreste in una unica civiltà. 

Oggi queste regioni sono infatti drammaticamente defaunizzate. In Africa occidentale i mammiferi sono crollati del 70%. In Cameroon, Costa d’Avorio, Benin, Gabon le specie animali sono sempre più sfoltite, sempre meno numerose. Qui, come in ogni altra parte del mondo, si è sempre cacciato, però la pressione della caccia oggi è oltre il limite di recupero delle specie. Ma, al declinare della complessità e della diversità delle comunità di mammiferi, in queste che sono le foreste – insieme al Congo Basin – tropicali primarie tra le ultime rimaste cominciano a collassare gli interi ecosistemi, perché con gli animali scompaiono le loro funzioni ecologiche. Foreste ricche di animali sono anche una garanzia per la tenuta del sistema climatico terrestre. La defaunazione è quindi una minaccia globale. 

Nonostante le dimensioni, e la scala di impatto, della “crisi del bushmeat” in Africa, nel mondo scientifico cresce il consenso su una valutazione positiva della caccia tradizionale. Anche in Africa. “Quando è parte dell’economia dei popoli indigeni, la caccia è per lo più coerente con un modello fondamentale: definire un perimetro circolare con un raggio di 10-15 chilometri attorno agli insediamenti umani, che viene progressivamente colonizzato da animali che si spostano e arrivano qui dalle aree delle foresta dove non si caccia. Queste aree geografiche escluse dal prelievo animale sono spesso paesaggi sacri”. È una dinamica detta a “sink”, che garantisce una pressione costante e accettabile anche su specie sensibili e minacciate, come i primati. Oggi gli ecologi definiscono queste strategie “natural mechanism of species recovery”. 

Non c’è altro contesto per capire direttamente quanto la crisi di estinzione coincida con l’evaporazione delle condizioni ecologiche storiche che resero possibile l’emergere delle civiltà africane. Ma questa situazione è anche una conseguenza diretta del colonialismo. È stato il colonialismo (dall’impianto del traffico di schiavi neri a partire dalla fine del XVII secolo) a mettere fuori equilibrio l’Africa Occidentale e Tropicale, agganciando l’Africa al disegno capitalistico europeo ed americano. Ecco perché, ora, la defaunazione dell’Africa Occidentale e del Congo Basin è una responsabilità storica globale. 

(NB – Il secondo video contiene un errore. Le specie che disperdono semi nel loro ambiente mangiando i frutti di alcune specie arboree favorendone la riproduzione si chiamano FRUGIVORI. L’entusiasmo a volte gioca brutti scherzi con i refusi. Grazie della pazienza!)

Per saperne di più sulle collezione etnografiche europee e la crisi di estinzione: MUSEO ANTROPOCENE. Per capire di più sui processi di estinzione in corso: CAPIRE LA SESTA ESTINZIONE.