Categoria: Grandi Felini

Il cimurro minaccia la tigre di Amur

Tigre di Amur. Credit: John Goodrich per Panthera Cats.
(Photo Credit: Panthera on Twitter, 16 giugno 2020)

Il potenziale esplosivo di un virus non riguarda solo le comunità umane. Ma anche i grandi carnivori, che sopravvivono in popolazioni frammentate e poco numerose. La tigre di Amur (Panthera tigris altaica), comunemente nota come tigre siberiana, è in cima alla lista.

Il patogeno killer è il cimurro canino (Canine morbillivirus), un virus della famiglia dei morbillivirus. I risultati di uno studio appena pubblicato sulla PNAS e condotto nell’estremo nord est della Russia (regione del Primorskii e del Sikothe Alin), in Siberia, l’ultimo habitat della tigre di Amur, conferma questa preoccupazione.

“Il cimurro è stato identificato per la prima volta fra le tigri di Amur nel 2003 e alcuni casi sono stati confermati nel 2010. Gli anticorpi per questa malattia non c’erano nei campioni di 18 tigri esaminati prima del 2000 e sono invece stati trovati in 20 delle 54 tigri prese in considerazione da allora. Il 54%”. 

Stiamo parlando di una specie che ad oggi conta meno di 554 individui allo stato selvaggio, la condizione perfetta perché un solo patogeno particolarmente mortale abbia un effetto catastrofico, insistendo sulla bassa diversità genetica della specie. 

Ma anche questa è una storia che racconta della linea di faglia sempre più rischiosa e pericolosa di “human encroanchment” e cioè del continuo incrocio tra esseri umani e faune selvatiche, perché il cimurro canino è un virus che ha come ospite di elezione il cane domestico.

Dove ci sono gli uomini, ci sono anche i cani, e dove ci sono tigri e cani a soccombere sono, ormai, le tigri.

Ma c’è una altra questione che emerge qui: la sovrapposizione di fattori ecologici differenti, che, mixati insieme, rendono sempre più difficili gli sforzi di conservazione e protezione di una specie, quando più punti critici vengono superati simultaneamente. A quel punto, l’equazione diventa non lineare e la buona volontà, o i nobili ideali attorno ad uno degli animali più belli del Pianeta, franano su una realtà fragilissima. 

Gli autori forniscono esempi di eventi devastanti che hanno già coinvolto altri carnivori, e il minimo comune denominatore sono patogeni virali provenienti dai cani domestici: “le malattie infettive sono sempre più spesso ritenute una minaccia di estinzione per i carnivori già in pericolo, e i virus, specialmente quelli associati al cane domestico, sono stati la causa del declino massiccio di diverse popolazioni”.

“Tra questi patogeni, il cimurro canino ha causato epidemie tra i leoni del Serengeti (Panthera leo), tra i lupi etiopi (Canis simensis) e tra le volpi della Channel Island, California (Urocyon littoralis)”.

Il rischio di estinzione per la tigre di Amur potrebbe essere fatale entro i prossimi 50 anni, se non si trova il modo di arginare la diffusione del cimurro canino.

Ma non sono soltanto i cani dei villaggi il vettore-ospite del cimurro, avverte questo studio a cui hanno collaborato alcuni tra i massimi esperti del grande gatto siberiano, come Dave Miquelle, della Wildlife Conservation Society, che ha trascorso ormai quasi 20 anni con le tigri. 

La Amur, infatti, caccia più mammiferi e vive in un habitat in cui ci sono 17 specie di carnivori, anch’essi potenzialmente ospiti del virus: “gli animali selvatici sono ospite-chiave per il cimurro canino e per la sua persistenza in tutto l’estremo oriente russo e sono una importante fonte di contagio per le tigri in questa regione. Ci sono diversi circuiti potenziali di trasmissione del virus dai carnivori selvatici alle tigri”.

“La recente scoperta del virus del cimurro in un cane procione (Nyctereutes procyonoides) ucciso da una tigre nel Primorskii meridionale suggerisce che la predazione sia uno di questi circuiti di infezione. Specie suscettibili (che includono la donnola siberiana, Mustela sibirica, lo zibellino, Martes zibellina, e il cinghiale selvatico) sono stati osservati attorno ai siti di uccisione delle prede della tigre e per questo costruiscono una possibile opportunità di trasmissione indiretta”. 

Individuare tutti gli ospiti per delimitare una area di rischio per la Amur è di fatto impossibile in una area estesa, con temperature polari in inverno e tagliata fuori da linee di comunicazione facilmente percorribili. Dove domina la tigre la taiga a conifere è incontrastata. Anche per questi motivi, finora, l’attenzione di tutti è stata su campagne di vaccinazione circoscritte ai cani domestici. 

L’obiettivo di questo studio è stato quindi raccogliere e valutare dati epidemiologici che facessero chiarezza sulla importanza nella trasmissione del cimurro alle tigri dei cani, appartenenti a 37 villaggi, e di 8 specie di ospiti selvatici. I campioni sierologici delle tigri sono stati raccolti dal 2000 al 2014 nella Lazovskii Zapovednik e nella leggendaria Sikhote-Alin Biosphere Zapovednik. 

“I dati genetici (sui ceppi di virus, ndr) mostrano che virus strettamente imparenti stanno infettando un ampio gruppo di carnivori selvaggi che funzionano da ospite attraverso una estesa area geografica già da parecchio tempo, ma non ci sono prove di una correlazione con i virus che, invece, circolano tra i cani domestici in questa stessa regione (…)”

“Il punto centrale è che, anche senza una comprensione completa del cimurro nei cani, abbiamo ormai sufficienti evidenze per suggerire che interventi focalizzati esclusivamente sui cani domestici non sarebbero efficaci nel prevenire l’infezione delle tigri, proprio per il ruolo degli animali selvatici”. 

In uno studio del 2009 apparso sulla ANIMAL CONSERVATION della Zoological Society London (ZSL) questo contesto ecologico appariva già preoccupante: “molti patogeni, e in particolare i virus, hanno una propensione a cambiare ospiti ed anche ad infettare la stessa popolazione ospite con risultati anche molto differenti”.

“Le co-infezioni, fattori ambientali e una miriade di fattori connessi al tipo di ospite possono interagire provocando una certa suscettibilità alla malattia. Ciò che è chiaro è che coloro che amministrano la fauna selvatica devono ormai essere preparati all’emergere di nuove malattie. Mentre il contatto tra animali domestici e specie selvatiche aumenta e le condizioni ambientali mutano, nuovi schemi di patologie a danno della wildlife, e quindi nuovi schemi di mortalità, verranno inevitabilmente a galla”. 

Gli autori suggeriscono che la vaccinazione delle ultime tigri siberiane sia l’unica via per arginare l’infezione e abbattere il rischio di estinzione, ma seguendo un “low-coverage vaccination approach” e cioè un programma di vaccinazione graduale.

Il team di ricercatori ha già testato una strategia del genere in una ridottissima popolazione di Amur in prossimità del Land of the Leopard National Park, con risultati incoraggianti. “La vaccinazione annuale di 2 tigri per anno ha  ridotto la probabilità di estinzione entro 50 anni dal 15.8% al 5.7%, con un costo annuo, per la campagna, di meno di 30mila dollari americani”.

Questa sub-popolazione è “di grande valore per la conservazione della specie, come fonte per ri-colonizzare il nord est della Cina”. 

Tutto questo conferma che, per quanto fragili, gli sforzi di recupero numerico di una specie ridotta a poche centinaia di esemplari sono la strategia di lungo periodo più efficace contro l’intero comparto di fattori distruttivi che nei prossimi decenni andranno intensificandosi.

Perché è la quantità di individui di una singola specie l’indice definitivo e inequivocabile del successo nella protezione di un habitat e di tutti i suoi attori, predatori di vertice compresi. 

Una-tantum
Mensile
Annuale

Fai una donazione a TRACKING EXTINCTION, l’unico magazine on line in Italia che esplora cause, effetti e conseguenze del collasso della biodiversità globale.

Fai una donazione mensilmente

Fai una donazione annualmente

Scegli un importo:

€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00

Oppure decidi tu la cifra:


Il tuo contributo fa la differenza : grazie !

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente

Sono i lupi i top predator del Wyoming

(Photo Credit : Neil Wight – Teton Cougar Project Panthera)
(Photo Credit : Neil Wight – Teton Cougar Project Panthera)

Sono i lupi i top predator del Wyoming. E questa è una magnifica, crudele epopea di carnivori di vertice. Nella regione nord occidentale del Wyoming, il lupo grigio ha un ruolo ecologico dominante come predatore di vertice, tanto da limitare il numero dei puma. Questo è il risultato di uno studio condotto da Panthera e pubblicato sulla PROCEEDINGS OF THE ROYAL SOCIETY B, che descrive un equilibrio tra predatori inaspettato nelle foreste degli Stati Uniti occidentali.

Per la prima volta, infatti, sono stati raccolti dati convincenti  sul fatto che qui il lupo grigio (quello dello Yellowstone, per intenderci) ha un impatto sulle popolazioni di puma peggiore degli effetti prodotti dalla caccia sportiva. Lo studio, durato 17 anni a partire dal 2000, condotto su 147 puma in un range di 2.300 chilometri quadrati, è ora una bussola per designare strategie di conservazione più dettagliate e specifiche per entrambi questi predatori. Mentre il lupo ha prosperato, i puma sono diminuiti del 48%. 

Il puma (Puma concolor) condivide con il giaguaro il destino di felino un tempo diffuso in buona parte di entrambi i continenti americani. Benché non sia classificato come felino a rischio in Red List, è una di quelle specie che reclama spazio e per cui servirebbero piani di protezione e di conservazione molto ambiziosi e coraggiosi negli Stati Uniti, soprattutto sull’enorme asse geografico Yellowstone-Yukon, fin dentro la taiga canadese.

Essendo un felino molto plastico, cioè capace di adattarsi ad habitat differenti per vegetazione e clima, il puma potrebbe stare potenzialmente, di nuovo, dappertutto. Nel 2013 il National Geographic pubblicava una foto quasi surreale di un puma che camminava nel buio alle spalle della scritta Hollywood, sulle colline della California.

“Negli ultimi 40 anni, i puma hanno continuato ad espandersi negli Stati Uniti occidentali. Sono spuntati anche a est, nelle Grandi Pianure, hanno fondato nuovi gruppi nel Missouri Breaks del Montana, nel Nord e nel Sud Dakota, e, più di recente, nel Nebraska occidentale. Di fatto, un numero crescente di avvistamenti confermati – più di 200 dal 1990 –  hanno svelato che i puma visitano praticamente ogni stato del Midwest, e anche le province del Canada, a nord”. 

All’inizio degli anni Duemila, l’interrogativo a cui il Teton Cougar Project di Panthera voleva dare una risposta ruotava attorno alle minacce che condizionano l’abbondanza o la scarsità di puma nel West Wyoming:  la caccia sportiva, i lupi o la scarsità di prede.

Al momento dell’inizio della ricerca erano già disponibili dati sul fatto che il lupo grigio può influenzare negativamente le dinamiche ecologiche del puma, ad esempio il tipo di prede scelte e il modo in cui il felino sfrutta le risorse del suo habitat.

Questo quadro è stato confermato e rafforzato, fornendo per la prima volta prove consistenti su come i lupi compromettono la sopravvivenza dei puma, riducendone la fitness riproduttiva. I lupi sono infatti anche i principali killer dei piccoli di puma. 

Anche la caccia da trofeo ha comunque il suo ruolo, avverte lo staff di Panthera, benché in questa regione del Wyoming si cacci molto meno che nel resto dei territori occidentali degli Stati Uniti. Da un punto di vista quantitativo, dal 200o al 2017 l’impatto medio annuale della caccia sportiva sull’equilibrio delle popolazioni di puma è stato equivalente a quello di 20 lupi.

“Gli ecosistemi sono interconnessi e quindi bisogna lavorare insieme sulla conservazione e sulla gestione delle specie selvatiche per una strategia multi-specie”

Il direttore del Panthera Puma Program, Mark Elbroch: “i puma modellano la loro vita attorno ai lupi, ma nessuno poteva immaginarsi che i lupi li condizionino addirittura di più della caccia da trofeo degli esseri umani. Questi risultati dovrebbe essere considerati nelle nostre valutazioni sulla gestione delle aree in cui coesistono questi due carnivori. E quindi se dovremmo o meno consentirne la caccia”.

È infatti chiaro che il numero di puma può diminuire rapidamente dove viene reintrodotto il lupo e dove il lupo, tornato al suo antico territorio, recupera: “questo studio sui puma dimostra una volta di più che gli ecosistemi sono interconnessi e che quindi bisogna lavorare insieme sulla conservazione e sulla gestione delle specie selvatiche per una strategia multi-specie, totalmente opposta ad una visione focalizzata su una singola specie”. 

Le evidenze raccolte sono utili per più di un motivo. Elbroch: “Questi risultati ci forniscono uno sguardo approfondito, storico dentro gli ecosistemi del Nord America. E suggeriscono che i puma, probabilmente, sono sempre stati meno numerosi di quanto siano oggi in molte parti dell’Ovest proprio perché i lupi controllavano il loro numero”. 

(Credits: Panthera)

Anche Howard Quigley, Panthera Conservation Science Executive Director, dà una lettura allargata dello studio: “queste scoperte non devono in alcun modo essere distorte a favore di un incoraggiamento su base scientifica alla caccia sul lupo grigio. Al contrario, se vogliamo proteggere questi predatori di vertice la cui sopravvivenza è davvero critica, per i loro ecosistemi e le comunità umane che li circondano, la scienza indica chiaramente che la strada da percorre è ridurre o eliminare la caccia sportiva sul puma, o, quanto meno, assumere un approccio molto conservativo laddove i puma convivono con i lupi”. 

(Credits: Panthera)
Una-tantum
Mensile
Annuale

FERMATI UN ATTIMO A RIFLETTERE – quello che hai appena letto richiedere lavoro e dedizione. Il giornalismo ambientale, benché animato da grandi ideali, ha sempre un costo. Sostenere economicamente lo sforzo di chi è impegnato a dire la verità sullo stato del Pianeta è una decisione di valore civile.

Donazione mensile

Donazione annuale

Scegli un importo

€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00
€5,00
€15,00
€100,00

Oppure inserisci la cifra che preferisci tu


Grazie !

Apprezziamo il tuo contributo.

Apprezziamo il tuo contributo.

Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente

Nelle Sundarbans non c’è posto per la tigre

IMG_1486 2

A dispetto di un ottimismo spesso di facciata, il futuro della tigre appare ormai in buona parte segnato. I numeri sono sconfortanti soprattutto nelle nazioni asiatiche che ancora ospitano le più consistenti popolazioni rimaste del grande gatto arancione e che, almeno sulla carta, avrebbero più opportunità e possibilità di dispiegare piani di conservazione realistici. Gli ultimi, terribili dati vengono dal Bangladesh. Nelle Sundarbans non c’è posto per la tigre.

Il punto è sempre lo stesso: le aree protette dovrebbero essere connesse le une con le altre e invece sono sempre più frammentate a causa dell’espansione della rete dei trasporti su gomma, dal farming e dalla presenza umana.

Il Bangladesh va avanti con convinzione nella costruzione del Padma Bridge, una infrastruttura lunga 6 chilometri che collegherà presto i distretti a nord e ad est del Paese con le province meridionali, attraversando le Sundarbans, ossia 10mila chilometri quadrati di foresta a mangrovie sul delta dei fiumi Gange e Brahmaputra, la più estesa di questo tipo rimasta sul Pianeta e quindi World Heritage Site UNESCO.

Gli effetti del mega-progetto, di sicuro devastanti, sono stati denunciati lo scorso 11 giugno in una Lettera pubblicata da SCIENCE da un team di ricercatori che ha studiato anche la popolazione di tigre del Bengala (Panthera tigris tigris) delle Sundarbans, la più numerosa, ormai, in Asia.

I risultati del lavoro di monitoraggio del felino, pubblicati nel gennaio del 2019 su Science of the Total Environment, sono sconcertanti: “entro il 2070 non ci sarà più un habitat adatto alla tigre del Bengala nelle Sundarbans”. Sulla carta, le Sundarbas sono un sito di importanza globale per la protezione e la conservazione della tigre, ma è evidente che il Bangladesh va in tutt’altra direzione, come del resto la vicina India.

La Lettera è stata firmata anche da Bill Laurance del Centre for Tropical Environmental and Sustainability Science alla James Cook University, Australia: praticamente una autorità mondiale in fatto di infrastrutture, strade e vie di accesso alle foreste tropicali. 

L’espansione delle grandi arterie per il traffico su gomma o su rotaia è una minaccia enorme alla biodiversità dell’Asia. L’India percorre una strada politica analoga a quella del Bangladesh.

“Quando è stato commissionato, ci si aspettava che il ponte sostenesse il prodotto interno lordo del Bangladesh di almeno l’1.2%, ma metterà anche a rischio il fragile ecosistema delle Sundarbabns. Il Bangladesh ha già peso le Chakaria Sundarbans, una delle più antiche foreste di mangrovie dell’Asia del Sud, come risultato della crescita dell’allevamento intensivo, commercialmente conveniente, dei gamberetti”, si legge nella Lettera pubblicata su SCIENCE.

“Lo stesso potrebbe accadere al distretto di Khulma, dove la costruzione del ponte ha già fatto lievitare il prezzo della terra e l’espansione delle settore edilizio, degli impianti ittici, del turismo e dei resort a ridosso delle Sundarbans”. 

E questo non è un habitat qualunque. Soltanto qui le tigri si sono adattate ad un ecosistema a mangrovie. Ce ne sono, secondo un censimento del 2015, tra le 83 e le 130, e queste poche decine di gatti sono la popolazione più numerosa rimasta di una specie che a inizio Novecento contava 100mila esemplari e che oggi è ridotta a 3890 ( cifra complessiva stimata dal WWF nel 2016).

La tigre oggi occupa solo il 7% del suo storico home range: 1.5 milioni di chilometri quadrati in tutto. A meno che, nel giro di un paio di decenni, non si liberi sul subcontinente indiano spazio sufficiente a sostenere popolazioni di tigre di qualche centinaio di esemplari ciascuna, le Sundabarns rimarranno il bacino genetico allo stato selvaggio più importante per la tigre del Bengala.

Perso questo, sarà finita. E lo studio proiettivo condotto da Sharif A. Mukul della Bangladesh University – che lavora anche nel Tropical Forestry Group della School of Agriculture and FoodSciences, alla University of Queensland, in Australia e ha firmato pure la Lettera a SCIENCE dell’11 giugno – dice però che “il nostro modello suggerisce una totale estinzione della tigre del Bengala nelle Sundabarns del Bangladesh dovuta al cambiamento climatico entro il 2070”. 

Certo, si tratta di ipotesi, ma sappiamo da quanto accade al clima che gli scenari più inquietanti andrebbero presi con la massima attenzione. 

Gli autori hanno usato un modello di simulazione con due scenari climatici, uno al 2050 e uno al 2070, entrambi dedotti dai recenti rapporti IPCC, per capire che cosa succederà all’innalzarsi del livello dei mari sul delta del Gange e del Brahmaputra, sulla costa meridionale del Bangladesh, e quindi nell’habitat delle tigri delle Sundarbans. Tra 50 anni quest’habitat non esisterà più. 

E come sempre, il cambiamento climatico non modellerà la geografia di queste regioni partendo dalla migliore situazione possibile al suolo, e cioè una scarsa demografia umana ed ecosistemi abbastanza estesi da contenere comunità numerose e diversificate di predatori ed erbivori.

Spiegano gli autori: “Nelle Sundarbans, messi insieme, i 3 santuari principali per la wildlife coprono circa il 23% del totale delle foreste di proprietà del Bangladesh Forest Department. Una percentuale ancora oggi inadeguata”. E cioè troppo piccola per fare sul serio con la conservazione della tigre. Del resto, esattamente come avviene in Africa con il leone, la competizione tra uomini e felini non è certo solo sullo spazio disponibile, ma anche sul suo correlato logico: il cibo.

Gli esseri umani cacciano le stesse prede della tigre e il resto lo fa il bracconaggio: “la preda principale della tigre del Bengala, qui, è il cervo maculato (Axis axis), benché la tigre si nutra anche di cinghiali (Sus scrofa), e di scimmie reso (Macaca mulatta), e anche di certi pesci e di granchi. Il bracconaggio e il prelievo delle specie preda riduce quindi la capacità della foresta delle Sundarbans di sostenere la sua popolazione di tigri”. 

Anche questa è una storia purtroppo già vista nel Sud Est Asiatico. La tigre della Cambogia è stata dichiarata estinta nel 2016: una clamorosa perdita di habitat l’ha condannata a morte, ma non poco ha contribuito anche il commercio alimentare di carne di Sambar (un cervo selvatico, Rusa unicolor, la sua preda principale), cacciato di frodo.

Secondo due Ngo, Conservation International (Greater Mekong Program) e la Wildlife Alliance, il traffico illegale di Sambar e altri ungulati ha compromesso in via definitiva la sopravvivenza in Cambogia sia dei leopardi che delle tigri.

Nel 2013 il WWF e la IUCN hanno condotto uno studio di fattibilità per la reintroduzione della tigre nelle pianure orientali della Cambogia, ma siamo ancora nell’ambito delle ipotesi e delle zone d’ombra, tipiche di ogni discorso molto ambizioso sul ritorno di specie di predatori di vertice in ecosistemi alterati o distrutti, senza nessun piano mai dichiarato in modo trasparente su come riportare allo stato selvaggio esemplari nati in cattività.

O, peggio ancora, senza rendere pubbliche davanti all’opinione pubblica le perplessità scientifiche dei conservazionisti che insistono sull’importanza degli adattamenti genetici a specifiche condizioni ambientali, che rendono i piani di “traslocazione” sempre incerti, scivolosi e pericolosi. 

Il dottor John Goodrich, Chief Scientist and Tiger Program Director di Panthera, l’organizzazione leader nel mondo per la conservazione globale dei grandi felini, così ha commentato la situazione per come si presenta oggi: “se, o, più realisticamente, quando perderemo le Sundarbans e le tigri che là ancora esistono, perderemo una popolazione unica di tigri e il loro irripetibile adattamento per la sopravvivenza in un habitat a mangrovie. Tutto questo sarà una enorme tragedia. E tuttavia, questo non significherà ancora la estinzione di questa sottospecie, che ancora esiste sparsa tra India, Nepal e Buthan, e anche Russia, Cina, Thailandia, Malesia, Indonesia e Myanmar, se si accetta la attuale tassonomia di sole 2 sottospecie di tigre”. 

Per quanto Sharif A. Mukul, raggiunto via email, abbia ribadito il suo punto di vista apparso su The Daily Star il a marzo del 2019 (“i risultati del nastri studio sono certamente allarmanti per il Bangladesh, per le Sundarbans e per la magnifica tigre del Bengala, orgoglio nazionale del Paese. Ciò nondimeno, come molti altri studi fondati su modelli, anche il nostro si fonda su una serie di ipotesi”), resta il fatto che le popolazioni di tigri sono sempre più isolate tra loro, sempre più minacciate dall’espansione umane e sempre più incompatibili con la traiettoria economica e culturale delle regioni asiatiche dove, solo un secolo fa, prosperavano. Il paragone e le analogie con il leone africano sono impressionanti e non lasciano sperare nulla di buono. 

 

Segnali positivi dalle tigri della Yai Forest

Yhu6Enyw

Segnali positivi dalle tigri della Yai Forest. Nella foresta del Dong Phayayen-Khao Yai Forest Complex della Tailandia (a nord di Bangkok e confinante, all’estremo est, con la Cambogia) 22 forse 30 tigri riescono ancora a riprodursi.

La conferma viene dalla pubblicazione sulla rivista Biological Conservation dei risultati di una ricerca effettuata da tre team: Panthera, il Dipartimento per la conservazione delle specie selvatiche e delle foreste della Thailandia (Department of National Parks, Wildlife and Plant Conservation, DNP), la Freeland Foundation (che si occupa di contrastare il traffico di animali selvatici e il bracconaggio) e WildCRU (il think tank della Università di Oxford per i grandi predatori). 

Qui, la densità demografica delle tigri è di 0.63 ogni 100 chilometri quadrati: “questo studio è stato condotto nel Thap Lan-Pang Sida Tiger Conservation Landscape (TCL) dello Yai Forest Complex che ha una estensione di 4445 chilometri quadrati e si pensa possa sostenere un habitat sufficiente per una media di 50 tigri adulte”.

I dati sono stati raccolti con fototrappole collocate in 88 punti strategici; le tigri sono state identificate e quindi contate grazie al particolare disegno di strisce nere che caratterizza in modo unico il manto di ciascun individuo. 

Anche la tigre indocinese è ad un passo dall’estinzione. Ce ne sono solo 221 ancora allo stato selvaggio nel mondo, in due soli Paesi dell’Asia: la Tailandia e il Myanmar.

Per capirci, stiamo parlando di una sottospecie di tigre, la Panthera tigris corbetti. La corbetti abitava un secolo fa tutte le foreste a latifoglie del sud est asiatico.

Ne ho vista una impagliata al museo di storia naturale di Hanoi, in Vietnam, nel 2015. Un esemplare rarissimo anche per il tachidermista che le ha regalato l’eternità. 

Ma le tigri della Yai Forest hanno davvero un futuro?

Perché futuro significa che la popolazione deve crescere e quindi allargare il proprio habitat.

“Le chance di aumentare numericamente dipende sostanzialmente dalla nostra abilità nel ridurre le minacce. In questo contesto geografico, per queste tigri, ciò significa lavorare a livello delle comunità locali, del governo e degli stakeholders, che devono mettere risorse economiche e volontà politica nel combattere il bracconaggio degli animali che sono le prede della tigre”, sostiene Chris Hallam, Monitoring Advisor Panthera.

Le premesse sono buone secondo Abishek Harihar, Population Ecologist nel Tiger Program sempre di Panthera: “Al momento, il governo della Tailandia è molto impegnato nella protezione di questa popolazione di tigri. E un supporto di questo tipo spesso si rivela decisivo per cominciare e sostenere un recupero numerico.

Il DPKY Landscape si estende su 4000 chilometri quadrati e il nostro studio era focalizzato su circa 500 chilometri quadrati. Sì, c’è spazio per le tigri qui”. 

SpaUPYlg

Ho chiesto ad Abishek Harihar se tutto questo ha un riscontro anche nella genetica.

Se cioè un gruppo così ridotto di individui può essere sufficiente per un incremento demografico funzionale: “22 individui è un numero molto piccolo, Da un punto di vista strettamente genetico si raccomanda sempre che una popolazione di circa 25 femmine in età riproduttiva.

Tuttavia, questa considerazione è basata sulla esperienza diretta più che sulla teoria. Anche se studiamo il corredo genetico di questa popolazione, non possiamo dire con certezza se 22 è un numero di tigri coerente con un recupero.

Detto tutto questo, questo paesaggio geografico ha il potenziale per sostenere più tigri di quante ce ne siano ora. Per questo, gli sforzi di conservazione devono essere indirizzati ad aiutare questo recupero in un contesto che ha importanza globale”. 

Questo studio sulle tigri della Yai Forest è rilevante anche per un altro motivo. 

I censimenti dei grandi predatori sono diventati una faccenda politica in tutto il mondo.

Nel 2010 tredici nazioni si sono incontrare a San Pietroburgo, in Russia, per il Global Tiger Summit. Obiettivo: pianificare interventi di conservazione che raddoppino i numeri della specie, da 3200 rimaste a 6400 entro il 2022. Un obiettivo di enorme ambizione, forse addirittura eccessiva. Perché le tigri aumentino, serve spazio. 

Lo scorso novembre è stato pubblicato sul magazine PHYS.ORG un articolo firmato da Biarne Rosjo dell’Università di Oslo dal titolo preoccupante: “Indian authorities may have exaggerated claims of rising tiger numbers”.

L’articolo è circolato su Twitter attraverso la rete di biologi e conservazioni che si occupano di grandi carnivori, dei grandi felini e dei problemi di conservazione delle popolazioni isolate, una condizione tipica, ormai, di tutte le tigri rimaste.

Le autorità indiane, scrive Rosjo, sostengono che il numero complessivo di tigri sia raddoppiato dal 2006, ma “è quasi impossibile che una popolazione di tigri cresca a questa velocità senza una spiegazione precisa”.

L’India dichiarava 1411 tigri nel 2006, mentre lo scorso luglio ha reso nota la cifra di 2.967 tigri. Secondo il dottor Arjun Gopalaswamy della Wildlife Conservation Society (WCS) questi numeri sarebbero il risultato di errori metodologici e matematici. 

AD8h0fnA

La tigre potrebbe essere già entrata nel novero di specie che il geografo ed ecologo Chris Darymont (nel 2015 coniò il termine di “super predatore” per Homo sapiens) insieme ad altri colleghi ha definitopolitical populations.

“Considerando il conflitto politico che circonda la protezione o la riduzione delle popolazioni di carnivori, avanziamo l’ipotesi che le stime sulle popolazioni (abbondanza e trend) e le politiche ad esse associate siano eccezionalmente sensibili proprio all’influenza politica.

Ipotizziamo che alcuni governi e altre organizzazioni giustifichino politicamente le loro preferenze per rapporti o sovra o sotto dimensionanti sulle popolazioni di carnivori senza giustificazioni empiriche, creando così ciò che noi definiamo political population”.

Un discorso che secondo gli autori vale già per orsi bruni, lupi e lince euro-asiatica. 

I predatori di vertice o di media taglia hanno ampi home-range ed entrano perciò in conflitto con le esigenze abitative, economiche e demografiche degli esseri umani. Ovunque: in Europa (pensiamo al Trentino), in Africa, in Nord America e a maggior ragione in Asia, nelle ex terre della tigre, tutte nazioni iperpopolate.

Non c’è green economy o Green New Deal che possa sovvertire questi semplice dato biologico. Tutte le specie, il milione a rischio di estinzione secondo il Rapporto Ipbes 2019, sono a un passo dall’abisso a causa della eccessiva demografia umana, ma per i grandi gatti lo scontro con l’essere umano è particolarmente fatale.

Come ha detto John Goodrich, coordinatore del Siberian Tiger Project “perché le tigri esistano, dobbiamo volerlo. Oggi come non mai”. Questo significa una sola cosa: affrontare con estrema schiettezza la questione della riproduzione umana. 

Photo Credits: Panthera Press Office

Amazzonia in fiamme: dispersi 500 giaguari

w80EOKzw
(Marsh Deer)

Si aggrava la situazione in Brasile. A causa degli incendi che da oltre un mese imperversano nella foresta tropicale amazzonica, sarebbero almeno 500 i giaguari rimasti senza un habitat in Bolivia e Brasile, riferisce Panthera Cats. Un pericolo di incalcolabile portata per il futuro di popolazioni già frammentate e per una specie che ha già perso il 40% del suo habitat ed è ora anche minacciata dalla ripresa della caccia di frodo. Sui mercati asiatici anche questo gatto, come il leone, comincia ad essere considerato un valido sostituto delle tigre nella medicina tradizionale cinese.

Il 23 agosto le stime erano di 100 giaguari dispersi, ma anche la cifra attuale di 500 esemplari è destinato probabilmente a salire. 

-pf0nyyg

Spiega Esteban Payan, Panthera South America Regional Director: “Gli incendi sono un grave colpo ad una wildlife estremamente preziosa, alle terre ancora selvagge e alle comunità umane che trovano riparo e sostentamento nelle foreste. I numeri ci dicono che almeno 500 giaguari sono rimasti senza home range o sono anche morti, insieme ad un quantità non definibile di specie più piccole, più diffuse e ancora più vulnerabili. Purtroppo, almeno finché non arriveranno le piogge, la situazione generale è destinata a peggiorare”. 

UVkUYa2g
(Armadillo gigante)

In Bolivia soprattutto gli incendi hanno divorato una parte consistente di un habitat insostituibile per diverse specie di felini del continente sudamericano. Una ricognizione recente dell’area di Santa Cruz, riferisce Panthera, ha permesso di comparare e sovrapporre le mappe delle porzioni di foresta divorate dal fuoco e quelle degli home range dei felini del cosiddetto “catscape”, un territorio unico di 2 milioni di ettari in cui coesistono 8 specie di gatti: giaguaro, puma, ocelotto, margay, oncilla, jaguarundi, gatto di Geoffrey e gatto delle pampas.

A parte il giaguaro, gli altri sono tutti “small cats”, specie magnifiche di cui tuttavia sappiamo ancora molto poco, tutte già estremamente rare. Ocelotto e margay sono stati decimati dalla caccia per via della loro pelliccia maculata fino al principio degli Ottanta. L’oncilla, il jaguarundi e il Geoffrey sono talmente difficili da avvisare che ne esistono solo un manciata di fotografie rintracciabili su Google. 

Il quartiere generale di Panthera, il San Miguelito Ranch, si trova proprio a ridosso delle aree in fiamme. Le stime dei giaguari dispersi sono basate sull’assessment del Brazilian National Institute for Space Research (INPE, su 4.281 chilometri quadrati di foresta) e sui dati dello Environmental Secretariat of the Governor’s office of Santa Cruz (raccolti su 2.440.000 ettari di foresta). 

Il Belize proteggerà il Maya Forest Corridor

Jaguar_Jayro Bardales
(Credits: Jayro Bardales)

Il governo del Belize proteggerà il Maya Corridor. Si tratta du un lembo di foresta tropicale cruciale per la sopravvivenza di specie iconiche della regione, come il giaguaro (Panthera Onca), la tartaruga di fiume (Dermatemys marwii), già sull’orlo dell’estinzione, e la scimmia-ragno (un primate della famiglia degli Ateli ormai criticamente minacciata) e il tapiro di Baird.

Tutte queste specie hanno bisogno di spostarsi su distese enormi, in poche parole su aree protette che abbiano l’ambizione di raggiungere una scala continentale. La decisione del Belize è stata quindi salutata con particolare soddisfazione dalle organizzazioni maggiormente impegnate nello studio e nel monitoraggio di questo hotspot di biodiversità tropicale: Panthera (per il giaguaro), Global Wildflife Conservation, WCS (World Conservation Society, che sta già facendo un lavoro immane in Africa con il Lion Recovery Fund per tirare su i numeri del leone in due-tre decenni), WWF, Monkey Bay Wildlife Sanctuary and Field School, e la University of Belize. 

Schermata 2019-06-21 alle 11.17.13

La caratteristica fondamentale del Maya Forest Corridor è la sua posizione geografica. Il Maya è nel centro del Brasile, che lo rende  un punto di passaggio e di connessione tra due altre aree di enorme valore ecologico: la Selva Maya, a nord, e le Maya Mountains, a sud.

Sugar Cane and linear corridor_Tony Rath
(le piantagioni di canna da zucchero. Credits: Tony Rath)

“Senza protezione, il Maya Corridor è in una condizione critica di rischio, perché è già stato ampiamente ridotto di almeno il 65% negli ultimi dieci anni, soprattutto a causa della deforestazione per l’agricoltura estensiva, inclusa la canna da zucchero”, si legge in una nota ufficiale di Panthera.

“Dal 2011, il Maya Corridor ha dovuto fronteggiare un tasso di deforestazione di almeno 4 volte superiore alla media nazionale e grossi disboscamenti negli ultimi mesi indicano che, senza una azione diretta come quella annunciata questa settimana, il più esteso blocco di foresta tropicale del Centro America rimarrà tagliato fuori dalla unità geografica più importante sul lato meridionale, e cioè il massiccio delle Maya Mountains”. 

Wetland pool on Coastal Road.

Secondo Panthera,  “Il corridoio è lungo solo 5-6 miglia, eppure è uno degli ultimi pertugi rimasti ai giaguari per entrare in Selva Maya a nord, e spostarsi verso il Centro e il Sud America”. E per quanto riguarda il giaguaro, una specie che ha uno home range immenso, che copre tutta l’America del Sud e arriva fino al Texas, negli Stati Uniti, questo è il punto essenziale.

Jaguars in Belize 1_Credit Panthera_UB ERI_BAS
(Credits: Panthera)

La connettività dei suoi habitat è il tassello strategico decisivo per portare la specie nel XXII secolo: “Il Maya Corridor è l’unica area che mette in comunicazione le due Jaguar Conservation Unit del Belize: il massiccio delle Maya Mountains e la Selva Maya a a nord, che si estende sin dentro il Messico e il Guatemala. Perdere la connettività genetica del Corridoio segnerebbe un passo in avanti verso l’estinzione del giaguaro e di molte altre specie terrestri di significato culturale del Belize”. 

Santander canal going into Freshwater Creek
(Il corridoio Maya e le piantagioni di canna da zucchero, Credits: Tony Rath)

Una nitida consapevolezza della posta in gioco sembra pervadere le istituzioni governative del Paese.

“Riconosciamo che la finestra di opportunità per assicurare la connettività nel Maya Forest Corridor si sta rapidamente chiudendo – ha detto il dottor Omar Figueroa, Ministro del Governo del Belize responsabile per l’Agricoltura, la Pesca, le Foreste, l’Ambiente e lo Sviluppo Sostenibile – Una squadra locale e internazionale di biologi esperti di conservazione, e di professionisti, si rende conto dell’importanza di tutto questo e collabora l’uno accanto all’altro per fornire un supporto valido alla protezione dell’integrità geografica di questa regione”.

tapir - Credit Nick Hawkins
(il tapiro di Baird. Credits: Nick Hawkins)

Nella costruzione di un sistema di aree protette ogni lembo di habitat conta. La Runaway Creek Nature Reserve si trova all’interno del corridoio e partecipa a questa visione condivisa. Gil Boese, fondatore della riserva per The Foundation for Wildlife Conservation, ha riassunto perfettamente i termini della questione: “un mondo con corridoi che connettono le aree protette dando agli animali l’opzione di spostarsi e di prosperare è fondamentale per la sopravvivenza delle specie.

Tutti questi piccoli puntini sulla mappa, se ne puoi salvarne uno, be’ è fantastico. Ma se riesci a salvare abbastanza di questi frammenti unici, in modo da legarli insieme, allora avrai creato un sistema. E se altri, in altri Paesi e continenti, faranno lo stesso, avremo allora un network per la sopravvivenza delle specie rimaste su questo Pianeta”. 

Jaguar in Big Falls Farm Belize near sugar plantation_Credit Panthera-UB ERI-BAS
(Un giaguaro in una piantagione di canna da zucchero. Credits: Panthera)

In Mongolia leopardi delle nevi e pastori convivono

Parco nazionale Siilkhem, in Mongolia (Monti Altai): habitat del leopardo delle nevi
(lo straordinario habitat del leopardo delle nevi nel parco nazionale Siilkhem, in Mongolia)

In Mongolia leopardi delle nevi e pastori convivono. Per capire il futuro del leopardo delle nevi (Panthera uncia) è indispensabile studiare le interazioni tra questo imperscrutabile predatore, le mandrie di pecore e capre che sempre più affollano i suoi habitat remoti e gelidi, e l’ibex (stambecco siberiano), la sua preda naturale.

Questo il compito di un lavoro di raccolta dati iniziato a marzo e concluso a giugno del 2015 dal gruppo di ricercatori del MUSE di Trento, guidati da Francesco Rovero e Simone Tenan, nel parco nazionale Siilkhem, in Mongolia, sui Monti Altai. I risultati dello studio, reso possibile da 49 fototrappole disposte su una area di 513 chilometri quadrati, sono stati pubblicati su ORYX, la prestigiosa rivista scientifica edita dalla Università di Cambridge.

Lo scopo della spedizione nel Siilkhem – a quasi 4000 metri di altitudine – era di meglio definire il livello di compatibilità tra il pastoralismo all’interno dell’habitat del leopardo delle nevi e le esigenze di conservazione.

La presenza di numeri consistenti di animali da allevamento (mandrie e greggi) in un ecosistema ancora integro ha effetti ecologici importanti: riduzione delle prede disponibili e uccisioni dei predatori da parte dei pastori, che perdono capi di bestiame.

Il sovraffollamento, infatti, peggiora il conflitto tra gli esseri umani e i predatori, soprattutto quelli di vertice, come i grossi felini. Produce quella che viene definita una “esclusione competitiva”, che finisce con il danneggiare gli erbivori selvatici e dirottare i carnivori sugli animali da allevamento.

Nell’Asia centrale, sotto la spinta di una “corsa al cashmere” a basso costo sui mercati occidentali, spiegano dal MUSE, è in corso da qualche anno un incremento esponenziale delle capre, fin dentro le aree protette di Mongolia e Cina: nel 1970 c’erano 21.937 capre, che nel 2015 erano diventate 105.376.

Impronte di leopardo nelle nevi in Mongolia
(impronta di leopardo delle nevi)

Le fototrappole del MUSE hanno registrato 494 intercettazioni di animali selvatici, e ben 912 di ungulati domestici, cani ed esseri umani (168 capre, 163 vacche e yak, 105 persone), 33 passaggi di ibex e 14 del leopardo delle nevi. La lettura di questi dati, per quanto limitati, non è del tutto negativa.

Le greggi hanno sicuramente un indice di presenza (occupancy) più alto dell’ibex (0,65), che è meno frequente quando deve fare i conti con animali allevati (0,11) rispetto a condizioni più selvagge (0,34-0,35).

Eppure, le interviste condotte con i pastori delle montagne dal team di Francesco Rovero descrivono una rapporto di convivenza culturale con il leopardo piuttosto variegato. I pastori tendono a riferire l’uccisione delle loro bestie, che avviene regolarmente, ai lupi e non ai leopardi.

foresta_due
(il parco nazionale Siilkhem in Mongolia)

Nelle loro izbe i pastori tengono pellicce di lupo, ma non di leopardo, e non ci sono tracce di bracconieri. Se dunque è vero che sugli Altai l’allevamento è diventato un fattore di disturbo ambientale cospicuo (pecore e greggi nel 43% dei siti di osservazione) non esistono per ora correlazioni solide su un declino del leopardo e le attività economiche umane.

È presto per definire gli Altai un paradiso per questo felino unico al mondo, ma lo studio del MUSE conferma che il punto di frizione tra i bisogni dei gruppi umani e i grandi predatori è ormai transnazionale. Sono le nostre abitudini, anche di acquisto, a decidere la qualità ecologica e l’estensione degli spazi selvaggi.

jeep
(la spedizione del MUSE di Trento in Mongolia)

Il programma di ricerca del MUSE in Mongolia è condotto in collaborazione con la Ong Green Initiative (Mongolia), il Museo Danese di Storia Naturale di Copenhagen e l’Università di Losanna. Una terza fase di ricerca è programmata per il 2018/2019.

foto_gruppo
(pastori e gente locale che ha collaborato con il MUSE per la ricerca sul leopardo delle nevi)

(Photo Credits: MUSE Trento)

Quasi estinti i leopardi della Cambogia

Quasi estinti i leopardi della Cambogia. Questa la condizione dell’ultima popolazione delle Eastern Plains ancora in grado di riprodursi, secondo una recente ricerca di Panthera Cats e WildCru Oxford. Negli ultimi 5 anni il loro numero è crollato del 72%.

Stiamo parlando degli ultimi 20-30 leopardi (Panthera pardus delacouri) dell’intera Indocina orientale e cioè dell Cambogia, del Laos e del Vietnam. La loro densità è la più bassa mai registrata in Asia per i leopardi: 1 individuo ogni 100 Km.

Il 95% dello home range originario della specie è ormai perso. La notizia, di impatto catastrofico per la tenuta di questi ecosistemi a foresta tropicale, non giunge purtroppo inaspettata. Già si sapeva della estrema frammentazione degli habitat e della scomparsa progressiva di grossi erbivori che sono la preda naturale del leopardo. I cacciatori di frodo riforniscono infatti i mercati rurali di carne selvatica (bushmeat) contribuendo ad una crisi ecologica in progressione, la defaunazione della Cambogia.

I leopardo della Cambogia è una sottospecie di leopardo e la sua scomparsa segna una semplificazione nella famiglia dei felidi irrecuperabile dal punto di vista evolutivo.

I dati sono usciti sul giornale ufficiale del gruppo WildCru di Oxford (University’s Wildlife Conservation Research Unit, lo stesso che aveva monitorato Cecil the Lion in Zimbabwe ), il Royal Society Open Science journal. Hanno collaborato WWF-Cambodia, l’American Museum of Natural History, e il Forestry Administration of the Ministry of Agriculture Forestry and Fisheries of Cambodia.

Jan Kamler è il coordinatore del Panthera Southeast Asia Leopard Program: “questa popolazione rappresenta l’ultimo barlume di speranza per i leopardi di tutto il Laos, la Cambogia e il Vietnam – una sottospecie sul punto di scomparire.

Questo conferma quanto sta emergendo dagli studi più aggiornati sui grandi felini che un tempo coesistevano in tutti i loro habitat, e cioè che i predatori di vertice compongono reti trofiche complesse e interdipendenti.

La fine della tigre in Asia orienta poi i bracconieri sui leopardi nebulosi e i leopardi, senza contare le ossa di giaguari importate illegalmente, e soprattutto quelle dei leoni africani. I bracconieri mettono trappole dappertutto per catturare maiali selvatici e cervi da destinare alle macellerie di bushmeat e puntano ai felini per rivendere a prezzi altissimi denti e pelli.

Da molto tempo ormai il sud est asiatico è diventato un laboratorio per il cocktail di defaunazione, demografia umana e cambiamenti climatici che segneranno il futuro della regione già in questo secolo.

Come comunità internazionale non possiamo più permetterci di trascurare la protezione di un felino assolutamente unico. Dobbiamo unire le forze per agire e non soltanto a parole. Con l’obiettivo di stroncare la diffusione epidemica del bracconaggio che minaccia questo animale meraviglioso”.

Nuove speranze per il leopardo in Nigeria

IMG_1992

Nuove speranze per il leopardo in Nigeria. Si densava che il leopardo fosse stato ormai estirpato dalla Yankari Game Reserve, un habitat a savana e alberi nella parte nord occidentale della Nigeria. L’area protetta più importante del Paese. Recentemente, però, la fototrappole hanno catturato immagini del felino, restituendo speranza per questa specie nella nazione più densamente popolata dell’Africa centro-occidentale.

Andrew Dunn lavora per la WCS NIGERIA e commenta la notizia al telefono con un cauto ottimismo: “eravamo semplicemente convinti che qui il leopardo fosse ormai estinto, e che però non lo fosse in tutto il paese. A Yankari l’ultimo avvistamento era stato nel 1986. E’ una buona notizia per il leopardo, eppure non siamo sorpresi. E’ una specie molto adattabile, notturna. Io credo che in tutti questi anni ci sia stato sempre a Yankari.

La caccia al leopardo è in declino da qualche tempo in questa regione, ma è stata consistente per parecchio. La pelle del leopardo è ancora molto ricercata più a sud per le cerimonie rituali. Qui, come. in molti altri Paesi africani, il tragico declino dei felini è dovuto alla catastrofica perdita di habitat adatto alla loro ecologia”.

Nel 2016 il censimento globale del leopardo pubblicato dalla rivista PEERJ ha rivelato che questo big cat (considerando tutte le sottospecie) occupa ormai soltanto il 25-35% del suo storico home range, calcolato a partire dal 1750. Soltanto 3 sottospecie (e tra queste il leopardo di Yankari) valgono per il 97% di ciò che resta di uno home range continentale.

IMG_1991

Andrew Dunn: “in Nigeria la popolazione umana sta esplodendo e non c’è quindi molta wildlife al di fuori delle aree protette. La caccia per la carne selvatica (bushmeat) e il conseguente impoverimento del numero di prede disponibili è una questione pesantissima come nella maggior parte dei Paesi dell’Africa centrale. E tuttavia, cosa ancora più decisiva, Yankari è una riserva isolata. E’ soltanto una grande isola verde. Fattorie e campi di mais attorno, sino ai margini del parco. Non so quanti leopardi ci siano adesso, ma se ben protetta questa isola potrebbe migliorare. Yankari è infatti abbastanza essa per supportare nei prossimi decenni una popolazione vitale di leopardi”. E qui ci sono ancora forse 25 leoni. Iene maculate, iene striate e caracal.

IMG_1993

“La conservazione non è facile in Nigeria. La popolazione umana è tanta e i parchi nazionali ricevono pochi fondi. La Nigeria ha inoltre una reputazione di nazione ricca e quindi non ha gli aiuti economici che finiscono sulla protezione della natura che finiscono, ad esempio, al Cameron. E’ una battaglia, non c’è che dire, ed è per questo che abbiamo piccole storie di grandi successi”.

Eppure, il ritorno del leopardo potrebbe cambiare il modo in cui le persone comuni guardano alla wildlife. Le classi medie hanno più opportunità di guadare i documentari e il National Geographic Channel è ancora una opzione per molte persone. Per la prima volta il leopardo di Yankari ha fatto la sua comparsa anche sui social media.

In un prossimo futuro, la questione sulla sopravvivenza degli ecosistemi ancora selvaggi, non solo per Yankari, sarà il numero delle mandrie di animali da allevamento. Secondo Dunn, le recinzioni (fence) potrebbero una soluzione ragionevole per proteggere la wildlife e tenere le vacche fuori dalla riserva. Per la Nigeria, come per il resto dell’Africa e del mondo, la visione Half Earth è ancora troppo ambiziosa.

(photos: thanks to Andrew Dunn)