Il Nobel a Svante Pääbo per la paleo-genetica mostra che l’eredità evolutiva della nostra specie (l’ibridazione con specie umane estinte, la supremazia culturale di Homo sapiens) è un tema centrale del XXI secolo: siamo noi gli eredi del Pianeta? Un Nobel importantissimo per la scienza dell’estinzione, ma dalla netta impronta filosofica.
Nel suo Urfaust, Goethe fa dire a Faust, il solitario medico insoddisfatto di tutto: “L’eredità dei tuoi padri, se vuoi averla, devi guadagnartela (Das du ererbt von deinen Vätern hast, Erwirb es, um es zu besitzen!)”. Faust è l’uomo moderno. Non gli manca nulla, ha successo, prestigio sociale e denaro. Eppure, gli manca qualcosa, che lo tormenta instancabilmente. Per questo non sa come ereditare la conoscenza che la saggezza antica gli promette, sbirciando il suo cruccio dalle pagine polverose di una biblioteca gigantesca e ombrosa. Dovrà inventarsi qualcosa di nuovo? O accontentarsi di quanto è già stato scoperto? E se la scoperta non fosse abbastanza ardita da svelare il segreto dell’esistenza del mondo? Ma se “conoscessi il mondo, che cos’è che lo connette nell’intimo, tutte le forze che agiscono, e i semi eterni, vedessi, senza frugare più tra le parole”(Daß ich erkenne, was die Welt im Innersten zusammenhält, Schau alle Wirkenskraft und Samen / Und tu nicht mehr im Worten kramen”), allora, si chiede Faust, che cosa mi succederebbe? Avrei tradito i Padri? La paleo-genetica è il nostro modo di porci lo stesso interrogativo di Faust.
Le ricerche di Svante Paabo “mostrano che le sequenze di geni che abbiamo ereditato dai nostri parenti estinti influenzano la fisiologia degli esseri umani moderni”. La motivazione del premio è chiarissima: “Nobel per le sue scoperte sul genoma degli ominini estinti e quindi sull’evoluzione umana”. Paabo ha dimostrato che ciascuno di noi, se pur in proporzioni diverse, porta i geni dei Neanderthal e dei Denisova, introiettati nel nostro genoma durante l’ultima era glaciale, il Pleistocene. Questa evidenza apre il sipario su interrogativi epocali, nuovi per una umanità che si confronta con il peso delle proprie attitudini ecologiche.
Se riconosciamo nel nostro patrimonio genetico i nostri antenati, di che cosa possiamo dirci eredi? Del Pianeta? O solo di lontani parenti estinti? E se fossimo stati noi, Homo sapiens, i responsabili della scomparsa dei cugini incontrati in Europa continentale e nella lontana Siberia? Il passato estinto è sopravvissuto alla maniera con cui la vita sulla Terra (i geni) perpetua se stessa: la trasmissione del patrimonio genetico. Ma proprio per questo, se anche noi Sapiens siamo stati gli ultimi ad arrivare e gli unici a rimanere, questo non significa tout court che gli avi estinti appartengano ad un tempo indefinito e insignificante. Tutt’altro. Noi ci definiamo all’interno di un passato di estinzione. Apparteniamo alla nostra specie anche in virtù di specie estinte. Tramite il loro contributo biologico. Noi siamo e prosperiamo attraverso un tempo che è fatto di storia e di estinzione. Questo ha profonde implicazioni anche nella relazione moderna con gli animali. Questa natura ibrida che siamo noi stessi in quanto Homo sapiens, questa nostra convivenza con chi è estinto, ha contribuito a plasmare la nostra risposta adattativa e culturale nei confronti della presenza degli animali. Lungo i millenni, abbiamo portato con noi storie intime di estinzione, di vuoti incolmabili e inconsapevoli, provocando altre estinzioni nel regno animale. Il nostro tempo di specie ha intrecciato la nostra presenza terrestre con la mancanza, la scomparsa e la lontananza. E così l’estinzione dei Neanderthal e dei Denisova ci rammenta che il passato è fatto più di fratture e buio che di certezze e pietre miliari. Ma proprio per questo il tempo profondo, più ancora del tempo storico, apre nello spirito dell’uomo quelle distanze nostalgiche e ambigue che così bene caratterizzano la nostra intelligenza (der Sinn) delle cose del mondo. Anche là dove risuona, sulla superficie abrasa dei reperti fossili, la lenta eco dell’estinzione, anche lì c’è per noi esseri umani completamente moderni la possibilità radiosa di una piena comprensione di noi stessi. Conviviamo con l’estinzione da sempre. Perché siamo vivi. Perché siamo umani. L’estinzione degli altri (i Neanderthal, i Denisova, gli uomini dell’isola di Flores, l’Homo naledi del Sudafrica) prova quanto fragile e imperfetta sia la natura di noi umani. Perché la nostra natura è stata scritta dentro e attraverso storie altrui. Nonostante il nostro successo. Questo, forse, più di molto altro, potrebbe aiutarci a capire che cosa è la sesta estinzione di massa.
Ma eredità vuol dire anche: che cosa siamo disposti a lasciare alle prossime generazioni? È infatti proprio la crisi ecologica ed umanistica del XXI secolo a mostrare che il patrimonio – ciò che abbiamo ereditato e ciò che lasceremo a chi verrà dopo di noi – è intrecciato alla giustizia sociale. È uno strumento di giustizia sociale. L’umanesimo occidentale, con il suo carattere espansivo ed aggressivo, ha inventato la Modernità, costringendo però l’umanità intera dentro categorie di mondo (economia di profitto, discriminazione razziale, appropriazione delle specie animali) che sono ancora oggi una escoriazione scabrosa proprio nel concetto di “umano” che difendiamo con accanimento sulla scena politica internazionale. Nella strumentalizzazione dell’umano ereditata dai secoli centrali della modernità (Seicento e Settecento) stanno le cause prime delle pretese di risarcimento morale esplose negli ultimi anni. L’attivismo africano ed asiatico contro la dittatura climatica del nord globale e il suo monopolio dell’energia, la richiesta di riparazioni delle comunità afro-americane e afro-europee, le rivendicazioni di attivisti e accademici per una protezione della natura fuori dal capitalismo e dal sapore amaro del colonialismo. E, infine, l’autocritica del mondo scientifico, che denuncia la “legacy of colonialism”, l’eredità del colonialismo nella ricerca, nell’eugenetica, nell’editoria scientifica di riviste autorevoli come NATURE. “Gli archivi di NATURE includono anche contributi offensivi nel campo dell’ecologia, dell’evoluzione, dell’antropologia, dell’etnografia. Contributi inestricabilmente coinvolti con l’espansione coloniale. Un editoriale del 1921, ad esempio, esprime apertamente un punto di vista imperialista e razzista, raccontando di una riunione di quella che era allora la British Association for the Advancement of Science. Ecco cosa vi era scritto: ‘è con sentita convinzione che siamo impegnati a discutere i modi e i mezzi con cui la scienza dell’antropologia possa essere di maggiore utilità nell’amministrazione dell’Impero, soprattutto nel governo delle razze a noi soggette, che sono ad un inferiore livello di sviluppo rispetto a noi’”. Neppure la natura era dunque esente dalle deformazioni del concetto restrittivo e denigratorio di “umanità” che a lungo il pensiero scientifico ritenne legittimo. Questo significa che se parliamo di protezione della natura, non solo dobbiamo parlare di colonialismo. Dobbiamo parlare anche della concezione di umanità (umanismo e umanesimo) che ha assorbito la presenza del mondo naturale facendone qualcosa di storicamente proprio.
Uomo e umanità sono, infatti, dimensioni storiche della nostra esistenza. Abbiamo imparato a declinare la parola “uomo” in un certo modo, stando dentro certe storie (la Modernità economica e scientifica, la conquista della biodiversità, la metafisica occidentale) e selezionandone altre (la pace religiosa in Europa dopo il 1648, il carbone, i viaggi oceanici) tra una infinità di opzioni. “La Storia, a partire dal XIX secolo, definisce il luogo di nascita di ciò che è empirico, vale a dire il luogo in cui, di qua da ogni cronologia fissata, esso acquista il suo essere proprio”, scrive Michel Foucault. “La Storia, come si sa, è sì la regione più erudita, più avveduta, più desta, più ingombra, forse, della nostra memoria; ma è parimenti il fondo da cui tutti gli esseri si dipartono per giungere alla propria esistenza e al proprio effimero scintillio”. Quel che intende Foucault è che noi immaginiamo noi stessi storicamente, come eredi ed epigoni. È il nostro sentimento di storicità che orienta la nostra interpretazione delle cose, anche sui tavoli di lavoro della scienza. Questa sensibilità moderna per l’appartenenza ad un passato, per il lavoro di scavo dentro quel passato (la paleoantropologia e oggi la paleo-genetica), rappresenta però anche l’occasione che sempre ha l’uomo per muoversi secondo cultura sulla scena del mondo. Vale a dire che proprio il passato spiegato e tornato alla luce (il nostro essere nella storia), l’archeologia della nostra presenza terrestre, mostra che oggi Homo sapiens non è imprigionato in un destino.
Nel recondito segreto dei geni investigato da Pääbo sta questa prodigiosa capacità di Homo sapiens, la possibilità di scegliere per se stesso. Di inventarsi strade nuove. In una lunga intervista su DIE ZEIT, Svante Pääbo si è chiesto: “Se gli antichi esseri umani, come i Denisova, fossero sopravvissuti, li avremmo chiusi in uno zoo? (…) il nostro sviluppo culturale poggia su un fondamento biologico. Uno scimpanzé non può eguagliare la nostra cultura e la nostra tecnologia, nonostante gli scimpanzé abbiano ottime capacità di apprendimento. Io spero che, grazie al patrimonio genetico, si possa arrivare a comprendere alcuni aspetti dell’origine biologica della cultura umana. Che queste scoperte ci diano migliori opportunità per la ricerca in tal senso. Eccone un esempio. Soltanto due settimane fa un paper su SCIENCE mostrava che i geni umani, a confronto con quelli dei Neanderthal, codificano per una maggiore produzione di neuroni”.
Ogni pensiero (anche quelli auto-denigratori sul carattere distruttivo di Homo sapiens) è fatto della stessa materia di cui è fatto il Pianeta. Se abbiamo delle colpe, quelle colpe sono organiche. Possono decomporsi e ritornare nella terra, ormai frammentate in elementi chimici di base. Come i tessuti, il sangue, i capelli, i denti, le ossa. Al contrario di quanto pensavano i grandi Europei del ‘600 e del ‘700, non abbiamo ereditato il Pianeta, che non ci appartiene di diritto. Ma abbiamo ereditato la nostra appartenenza alla Terra.
Noi siamo parte del Pianeta perché abbiamo una storia. La cultura, in senso propriamente evolutivo, ci rende capaci di storia. E noi sappiamo di esistere perché abbiamo una storia. La storicità definisce Homo sapiens nella biosfera. Eppure, questa condizione dell’esistenza umana è ampiamente misconosciuta. Ma immaginare la nostra specie come soggetto iper-morale a causa dei suoi crimini ambientali, indipendente da una natura sfregiata e umiliata, guardata da lontano con cordoglio e disperazione, impedisce di capire che cosa è la sesta estinzione di massa. Solo attraverso la nostra storicità possiamo infatti entrare nel problema della natura.
Il lungo percorso negoziale della CBD verso Montreal è stato segnato da molti ostacoli. Ma il disaccordo principale sulla possibilità di proteggere giuridicamente una parte del Pianeta sta nella mancanza di una idea condivisa e univoca di “natura”.
Questa lacuna si somma a qualcosa di ancora più preoccupante. L’agenda dei negoziati è priva di una valutazione preliminare essenziale. I parchi nazionali, infatti, non sono il Pianeta: sono solo una porzione di Terra risparmiata all’espansione economica. Nel XXI secolo la società umana globale si sovrappone perfettamente al Pianeta, fagocitandolo. Questo significa che nell’assetto attuale della civiltà la biosfera non è lo spazio comune che contiene e sostiene il fenomeno biologico (le specie e l’umanità). È piuttosto tutto ciò che “avanza” fuori dei confini dinamici e fluidi dell’impresa economica. E anche questo resto, ben inteso, è messo a profitto. Le geografie della conservazione (aree protette) fatturano al turismo internazionale. Alcuni storici dell’ecologia ritengono che la natura affidata al turismo sia stata ormai assorbita dallo schema neo-liberista, in “un progetto socio-ecologico, i cui effetti sono, appunto, sociali ed anche biofisici”. Ma se non c’è una biosfera, in senso propriamente ontologico, come disegnare un accordo giuridico adeguato?
L’essere umano (Homo sapiens) è parte della natura. É un elemento costitutivo della storia naturale ed evolutiva della Terra, esattamente come la Terra stessa è la causa dell’esistenza degli esseri umani. Benché gli uomini siano ovunque e abbiano modificato la geologia stessa del Pianeta (è una delle tesi che sostengono la nozione di Antropocene), l’umanità attuale non sa se e come possa affermare di appartenere ancora alla Terra. Il Pianeta è diventato estraneo alla nostra costituzione d’essere, e per questo ne disponiamo a piacimento; oppure siamo intrappolati in una concezione delle cose di natura e di noi stessi che, pur essendo soltanto una elaborazione di un segmento piuttosto recente della nostra storia moderna, noi abbiamo elevato a unica dimensione possibile del reale. Come se non potesse esserci nulla di alternativo a ciò che è consolidato. Un pensiero che accumuna l’accettazione dello status quo ad una concezione della vita di tipo dittatoriale. Sono infatti i regimi totalitari le forme di organizzazione politica che pretendono di offrire ai propri cittadini il migliore dei mondi possibili. Il più perfetto. E la perfezione, si sa, non ha bisogno di essere emendata. Può solo emanare felicità. Questa è una concordanza essenziale tra il comunismo, il capitalismo e il pessimismo ecologista ormai datato agli anni Settanta.
Questi sistemi di pensiero hanno esaurito la propria concezione della natura. Non dicono più nulla sulla natura che torni utile al nostro secolo. Ma il tramonto della prospettiva tradizionale sulla biosfera (coloniale, pura, edenica, marxista) ha permesso di chiudere con il pregiudizio sul capitalismo moderno. Non possiamo continuare a spiegare tutto con il Capitalismo. Perché il capitalismo è molto di più di quanto abbiamo finora immaginato. “Il capitalismo storico non è soltanto una formazione sociale”, scrive lo storico Jason Moore. “È anche una costruzione ontologica. Il suo modus operandi costitutivo è la natura a basso costo (cheap nature), decisiva per l’espansione e la riproduzione del capitale stesso”. La biosfera a prezzi stracciati è una premessa della Modernità: “bisogna intendere ‘a basso costo’ (cheap) in un doppio significato: gli elementi naturali costano molto poco; ma l’impresa economica, dal canto suo, si riserva il compito di abbassare il prezzo di qualunque cosa (to cheapen), e quindi di degradare e di rendere inferiore ciò che le occorre dal punto di vista etico, politico e anche morale”.
Questo significa che l’economia moderna si afferma in virtù di un certo modo di intendere la realtà, che è qualcosa di molto più brutale di una semplice sovrapposizione tra una idea astratta e la sua messa in pratica. È la realtà in sé che, dal Cinquecento, subisce una trasformazione. Dopo la Riforma protestante (1517), il problema della realtà (cosa è reale?) entra con prepotenza nel pensiero filosofico europeo. Rimanendoci fino agli anni ’30 del Novecento. La civiltà moderna ha della realtà una concezione, un concetto e una forma mentale ben precise. La realtà da sola non basta più. Il sentimento di sufficienza del mondo dentro il progetto divino della creazione va spegnendosi. Giunge invece a maturazione qualcosa di più ardito. Se il globo può essere misurato e circumnavigato, allora tutto ciò che esiste lo possiamo usare e conquistare per il semplice motivo che può essere pensato. L’ontologia del capitalismo non è null’altro che una ideologia del pensiero possibile. Questa relazione con gli enti di natura (popoli, animali, foreste, oceani) è una caratteristica intrinseca alla cultura europea. L’espansione geografica, coloniale ed imprenditoriale proviene da questo: il mondo può essere pensato. E se lo posso pensare, lo posso manipolare.
È questo strapotere del pensiero che calcola, spiega, inventa a trovare nella natura un campo di azione illimitato. Il limite allo sfruttamento introdurrebbe nella realtà una contraddizione logica. La progettualità umana è consequenziale perché la razionalità che la regge è in sé non contraddittoria. Se la circumnavigazione del globo è fattibile, allora non soltanto la Terra è rotonda e tutti i mari sono un unico, grande oceano. Quello che gli Europei scoprono, scoprendo il Pianeta, è che la biosfera stessa coincide con la propria immaginazione scientifica. Questa è la modernità: trasformare l’ontologia (i viventi esistono) in una organizzazione economica secondo criteri di pianificazione e di estrazione di materie prime, corpi, risorse naturali. La pianificazione, allora, si sostituisce al fenomeno biologico. Ciò che conta non è neppure la risorsa in sé, ma ciò che con quella risorsa può essere fatto. Questo non è un paradigma economico: è prima di tutto una struttura della realtà. Una ontologia, appunto.
La biosfera (la “natura”) è così spinta in una categoria ontologica nuova, che ne tutela l’esistenza perché ne presuppone la manipolazione. Ma questo dualismo (da una parte gli uomini, dall’altra la biosfera) è una astrazione inconcludente. Non descrive nulla degli effettivi legami che integrano Homo sapiens nel suo contesto ecologico, l’unico in cui la nostra specie si muove da sempre. “La contrapposizione dualistica impedisce di vedere che l’accumulazione di capitale è un intreccio di interdipendenze tra specie, in cui l’una condiziona l’altra”, scrive anche Jason Moore. Vale a dire che la storia dell’economia moderna, senza neppure sospettarlo, è ormai una “co-produzione di nature storiche”.
“Quando Patterson (autore del libro “Slavery as social Death” edito nel 1982 dalla Harvard University Press) descrive la schiavitù come una ‘morte sociale’, intende riferirsi ad una vera e propria configurazione storica su scala globale, fondata su di un concetto razziale, secondo il quale gli Africani erano effettivamente trattati come parte della Natura e non della Società. Dovevano quindi costare poco. Di continuo quindi la maggior parte degli esseri umani erano descritti come selvaggi, mentre la civiltà era altrove. Questo giustificava l’espropriazione sanguinaria dei loro corpi”, scrive Moore. La piantagione di cotone e di zucchero era una enorme metafora di un ordine mentale in cui trovavano posto la nuova economia e la nuova umanità: “la logica dell’isolamento, della frammentazione e della semplificazione dette forma non soltanto ai paesaggi convertiti alle monocolture del primo capitalismo, come la piantagione per la canna da zucchero. Plasmò anche le vite degli esseri umani espulsi dall’Umanità, ossia le popolazioni coloniali costrette a insediarsi in ‘villaggi strategici’, dall’Irlanda, al Perù, alle Isole delle Spezie”. La frammentazione della natura (aree protette isolate o cintate) è un aspetto della pianificazione razionale di un Pianeta pensato per essere riscritto e reinventato.
Lo scorso luglio il NATIONAL GEOGRAPHIC ha dedicato la copertina ai Lakota Sioux del South Dakota. Le comunità Native Americane sono in prima linea per rivendicare il diritto a vivere secondo le proprie tradizioni offrendo così alla nostra epoca una alternativa filosofica alla distruzione della biosfera e alla sistematica umiliazione della vita. Quannah Chasinghorse è una attivista e volto icona di Chloé per scelta della designer della Maison, la signora Gabriela Hearst, lei stessa molto impegnata nella ricerca di un modo nuovo di sentirsi parte di questo secolo.
Negli ultimi anni questa prospettiva è stata integrata nel dibattito sulla conservazione delle specie. È emersa infatti l’esigenza di far spazio ai sistemi di conoscenza non europei ( i cosiddetti “popoli indigeni”) nella cornica internazionale della protezione della natura. La volontà di giungere ad un accordo globale per la salvaguardia degli habitat ha come obiettivo “living in harmony with nature”, dando ascolto a sguardi sulle cose di natura diversi da quelli europei. Per quanto tardiva, questa apertura oltre i confini della filosofia economica europea si è dimostrata funzionale a spostare anche la conversazione sulla posizione di Homo sapiens nel Pianeta. Sempre meno “uomo contro natura” e sempre più, invece, “nature-culture”. Ossia: siamo una specie che attraverso la cultura ha trovato il suo posto nella natura. È stata quindi la cultura a permetterci di costruire realtà di nostra elaborazione, pronte ad essere proiettate sulla biosfera.
(BROADVIEW è una rivista canadese che parla di ambiente e spiritualità. Lo spazio dedicato alla cultura dei nativi canadesi è in costante aumento. La scelta editoriale, molto meditata, è di offrire non soltanto uno sguardo attento e rispettoso sulle concezioni esistenziali dei popoli originari del Canada, che anche qui, purtroppo, vivono per lo più in condizioni di forte emarginazione sociale ed economica; BROADVIEW mostra come queste Nazioni abbiano molto da insegnarci sulla relazione con il passato storico e paleo-geologico di noi stessi e del Pianeta che abitiamo. Sono voci dissidenti, ma acutissime, che ruotano attorno alla domanda: che cosa è la sesta estinzione di massa per noi esseri umani? Perché ci sentiamo ormai così soli nei confronti della Terra? In Canada è anche in corso un progetto gigantesco di conservazione dell’ecosistema sub-artico: gli Łı́ı́dlı̨ı̨ Kų́ę́, utilizzando strumenti legali, hanno escluso decine di milioni di chilometri quadrati di foresta da ogni uso industriale. Solo i Nativi vi possono cacciare e raccogliere frutta, pesce, legname )
Con il passare dei secoli, ci siamo dimenticati che la realtà in sé e per sé non è un giudizio sintetico a priori o una rappresentazione della coscienza. È prima di tutto un contesto di esistenza per l’esistenza, che possiamo descrivere e comprendere attraverso la geografia, la biologia evolutiva e l’ecologia. Poco più di dieci anni fa (nel 2010) la rivisitazione della relazione tra uomini e natura acquisì popolarità grazie al concetto di “antroma”, coniato da Erle Ellis, forse il più brillante ricercatore nel vasto campo della storia dell’Antropocene. “Cresce il consenso sul fatto che gli esseri umani hanno ormai finito con il trasformare l’ecosystem pattern e i processi intrinseci all’intera biosfera terrestre”, scriveva Ellis. Questo significa che per capire come funzionano gli ecosistemi non bastano i dati dedotti dal clima e dalle variabili fisiche che condizionano la vegetazione, la fauna e l’ambiente in generale.
(Il salone al primo piano del Petit Palais, a Parigi. La grandiosità delle opere artistiche europee è un proxy per comprendere la sesta estinzione di massa. La defaunazione del Pianeta è infatti una conseguenza del talento creativo della nostra specie)
“Ovunque siano presenti popolazioni e attività umane l’aspetto e le dinamiche degli ecosistemi terrestri (inclusa la presenza di alberi e la loro persistenza) sono determinate soprattutto dal tipo, dall’intensità e dalla durata delle interazioni degli esseri umani stessi con questi ecosistemi”. Tutti gli ecosistemi della Terra sono dunque antromi, ossia geografie su cui Homo sapiens ha lasciato un segno semplicemente dimorandovi e trovando nelle risorse naturali quanto gli occorreva per sopravvivere. È al culmine dell’impresa (l’espansione geografica iniziata nel ‘500), e cioè dal 1700, che c’è un cambiamento di passo non nel modo in cui gli uomini stanno sulla Terra, insiste Ellis, ma nella intensità con cui cominciano a fare ciò che hanno sempre fatto coltivando, disboscando, costruendo, allevando animali. Oggi viviamo in una completa “anthropogenic biosphere”. La storia naturale coincide con la storia umana. Non ha più senso discutere di natura selvaggia o addomesticata, ma piuttosto di “una storia globale della natura antropogenica”, insiste Ellis. Se ogni contrada del Pianeta porta il nome della nostra specie, perché allora insistiamo a considerarci ormai fuori della natura?
I popoli indigeni rivendicano il diritto a recuperare e coltivare i legami ancestrali con gli antenati per non smarrire la propria eredità genetica, ecologica e culturale. Questa domanda di giustizia verrà posta con convinzione a Montreal. Noi Europei, invece, abbiamo relegato queste preoccupazioni agli scaffali delle biblioteche di antropologia. Nessuno oggi in Europa, o poco più, sente di possedere ancora un cordone ombelicale con i maestri, i pensatori, i pittori e i compositori di qualche secolo fa. Non ci servono più, per coltivare i nostri desideri, le nostre speranze, le nostre aspirazioni. Eppure, solo attraverso la nostra storicità possiamo davvero entrare nel “problema natura”. La storicità è il modo europeo di stare dentro il campo di possibilità offerto dall’esistenza: il carattere che ci ha resi moderni. È la storicità (aver costruito una storia ed esserne stati costruiti) a interrogarci su che cosa sia oggi il Pianeta Terra, e se noi vi dimoriamo ancora, recuperando quella domanda sulla realtà che affliggeva gli uomini del ‘500 e del ‘600. “In che modo deve essere il mondo, perché l’EsserCi possa esistere come essere-nel-mondo?”, si chiedeva Heidegger in “Essere e Tempo”.
L’Europa ha dato il ritmo al resto del mondo. È questo che ci conduce dentro l’importanza del problema della realtà, anche quando pensiamo alle foreste tropicali, alle specie animali, alle batterie delle auto elettriche e alle pale eoliche. Perché le nuove tecnologie e le nuove fonti energetiche, proprio come i carburanti fossili, sono sostenute da racconti potenti e convincenti (molto spesso auto-assolutori) sulla struttura della realtà (“i fatti”). Nel lontano 1991, del resto, William Cronon aveva già spiegato come la stessa storia naturale, nella cultura occidentale, sia una narrazione.
“Gli esseri umani sono narratori per natura. Le società costruiscono valori, intessuti di fatti e di credenze, che ci guidano ad agire nel mondo. Ma è anche vero che gli umani sono inclini a costruire narrative come se fossero reali. Ogni ideologia politica, dottrina religiosa o paradigma economico, la stessa cultura, e non ultime le teorie scientifiche, sono storie che hanno una base sociale, che rappresentano più o meno accuratamente la realtà che intendono spiegare. Una volta che una configurazione culturale e narrativa è stata assorbita, chi vi aderisce tende a considerarla più seriamente delle prove, giunte da direzione contraria, che ne smentiscono la cornice concettuale”. Dobbiamo cioè stare attenti a non confondere la realtà del capitalismo, che è poi la Terra degli uomini moderni, con la condizione presente del Pianeta.
La defaunazione, l’estinzione delle specie di alberi a legno duro e il riscaldamento del clima ricalibrano la bussola della realtà. No, il Pianeta pensato non è il Pianeta. È soltanto (per quanto immane possa essere questo ‘soltanto’) una opzione, una scelta, una direzione che ha preso velocità. Che ha fatto il suo corso. Isolando la nostra storia dal XXI secolo, non riusciamo più a capire cosa sia la natura. Manchiamo l’appuntamento con la realtà. Siamo soggetti storici, e anche la natura, per opera di Homo sapiens, è un soggetto della storia. In questo fenomeno ecologico globale (gli esseri umani attraverso le altre specie animali) il Pianeta appare per quello che è, come un oggetto finalmente portato alla luce del sole. Questo è il punto di partenza per comprendere cosa sono oggi gli ecosistemi, e cosa è la sesta estinzione di massa.
Non più natura pura o incontaminata (neppure nella preistoria di Homo sapiens era così). E invece: “habitat as multispecies landscapes, nature-cultures, overlapping ecologies”. Habitat come sovrapposizione di storie umane, animali e vegetali, che si danno significato ecologico ed evolutivo le une dentro le altre. Quando siamo presenti alla nostra epoca (il XXI secolo, l’epoca della sesta estinzione di massa) abbiamo già dentro di noi l’intero passato della nostra specie. Il futuro si apre dinanzi a noi proprio perché abbiamo già fatto esperienza di noi stessi. È la storicità della nostra esperienza del Pianeta a dirci chi siamo e se saremo capaci di fare altrimenti. L’appartenere al tempo, insomma, rende accessibile la condizione attuale della biosfera. Il presente del XXI secolo è quindi piuttosto un “essere presente”: scoprirsi consapevoli di ciò che accade perché si appartiene storicamente ad ogni singolo avvenimento come fosse il proprio.
Ecco perché dobbiamo ripensare la nostra storia, prima di provare a vedere la natura con lo sguardo del XXI secolo. “Cominciamo soltanto ora a vedere quanto l’organizzazione delle comunità umane sia completamente porosa rispetto ai sistemi naturali, su una variabile enorme di interdipendenze”, dichiara Jason Moore. Senza una tale permeabilità reciproca, il capitalismo non sarebbe mai sbocciato.
Ma da qui scaturisce anche l’imperativo morale europeo ad affrontare l’origine del benessere occidentale andato in pezzi sulle scogliere del disastro ecologico alle soglie di un inverno, o quel che ne resta, freddo e buio. Sono sono questi i veri argomenti spinosi della conferenza di Montreal. È tempo di una robusta “politica della colpa”, che metta a carte quarantotto il nostro perbenismo politico, come ha scritto su DIE ZEIT il giornalista tedesco Georg Diez: “una socialdemocrazia del 21esimo secolo non può permettersi di concentrarsi sulle ormai vecchie questioni dell’ascensore sociale e dell’uguaglianza, in un mondo del lavoro che è comunque oggi già radicalmente cambiato. Giustizia vuol dire ormai animali e diritti degli animali, pensiero sulle generazioni future, sulla colpa ereditata, ad esempio attraverso la storia coloniale”. Vale a dire che neppure nel Paese più ricco d’Europa la più prossima e contingente questione nazionale (il caro energia, le fibrillazioni sociali dei ceti medi impoveriti, il conflitto politico tra i Verdi e i Socialdemocratici) può permettersi di tagliar fuori la più generale questione della biosfera e degli esseri viventi che la abitano. Questa è la storicità europea. Questa è la storicità della sesta estinzione di massa.
“Al momento se ne parla poco, eppure questo 2022 non è semplicemente un annus horribilis. È l’inizio di una nuova epoca”, scrive, sempre su DIE ZEIT, Bern Ulrich, un esperto di clima, un convinto vegano (e un feroce critico delle politiche sociali tedesche, a cui non basta neppure una coalizione di governo con i Verdi in posizioni di primaria rilevanza). “S’è consumata una frattura con il passato. Questi sono tempi in cui i Governi non possono più fare politica per i cittadini senza i cittadini; non si può stoccare riserve di gas senza risparmiarlo il gas, ed offrire solidarietà sociale senza imporre rinunce a chi quelle rinunce le può sopportare. Non ci può essere neppure vera protezione della natura senza che ciascuno di noi abbia meno spazio a sua disposizione; nessuna protezione delle specie animali senza mangiare meno carne, nessuna sicurezza senza dover vedere fuori della finestra una pala eolica”. Uno schietto realismo, insomma, che dovrebbe funzionare come programma politico europeo. E come programma occidentale al tavolo dei negoziati di Montreal.
Si esce dal Musée du Quai Branly sotto chock. Che cosa abbiamo fatto? Perché non ce ne siamo accorti? Perché non sappiamo niente degli Africani? E alla fine una stanza piena di ossa (gli estinti, quelli in via di estinzione, i quasi estinti da salvare non si sa come) sembra essere l’eredità europea sul mondo.
Il Café Jacques (in onore di Jacques Chirac che volle il museo) è una leziosa veranda ai cui tavolini siedono abiti di costosa sartoria, collane di perle, abbronzature da weekend in campagna e conversazioni leggere. Ascolto qualcuno commentare l’ultima collezione di Givenchy. Io non mangiavo del pollo da, credo, 5 anni.
Nella sola Europa vengono allevati almeno 2 miliardi di polli. Sono di più di tutti gli uccelli selvatici del nostro continente messi insieme, che appartengono a 144 specie. Milioni di ossa di pollo fritto, arrostito, grigliato, marinato, rimarranno a decomporsi nei secoli a venire nelle discariche o saranno incenerite. Ossa ormai inutili, cheap nature, vite di scarto.
Eppure, è dalle ossa che è cominciata buona parte di questa storia. Prendo la RER sul Ponte dell’Alma e scendo alla Gare d’Austerlitz, a sud est della città (ci sono 30 gradi, e siamo a metà maggio). Obiettivo: il Jarden des Plantes, ossia il Museo di Storia Naturale di Parigi dove lavorava George Cuvier.
Cuvier fu uno dei geni del periodo rivoluzionario, prima sotto il Terrore di Robespierre e poi in epoca napoleonica. Era un teorico della fissità delle specie (Dio ce ne scampi dall’ipotizzare una evoluzione intrinseca, Monsieur Lamarque, lei è un imbecille !), ma qualcosa di giusto lo intuì su quelle che lui chiamava “catastrofi ricorrenti”, e cioè (in lessico scientifico corretto) le estinzioni di massa. Cuvier fu anche, forse questa è la cosa più importante, un eccellente anatomista. Sezionava e comparava le differenti parti di organismi diversi, stabilendo connessioni funzionali di strutture e organi. I suoi studi diedero un impulso gigantesco alle allora nascenti scienze naturali. Di fatto, Cuvier figura tra coloro che inventarono il modo moderno di vedere gli animali.
Eppure, era anche un razzista impenitente. Certo la catalogazione della natura, gli animali, gli diedero agio e strumenti di immaginare una organizzazione della vita che a quel tempo era quasi fantascienza. Ma le tassonomie sono servite anche per tentare di dimostrare che un nero africano non poteva essere parente di un bianco francese. Ma poi, che cosa significa catalogare gli esseri viventi secondo i rapporti e le proporzioni delle ossa e degli arti, e categorie di somiglianza e divergenza ? Significa elaborare per il fenomeno biologico una interpretazione logico-razionale.
Da qui parte il viaggio dell’uso della natura. Capisco, quindi manipolo. Dilemma ancora incompreso della coscienza scientifica europea. Non è poi troppo strano, per quanto mostruoso, che tutto ciò che rimane di Cuvier sia questa stanza (il suo Gabinetto anatomico) popolato di scheletri.
Questo è l’esito di ciò che è accaduto dentro il Musée du Quai Branly. Anonimi sono da secoli per noi i popoli africani da cui abbiamo preso tutto. Anonimi sono gli animali sezionati per estrapolare dai loro tessuti e dal loro respiro il segreto della nascita e della morte. E così anonimo diventa sinonimo di estinto.
La civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare se stessa. Ci sono voluti cinque secoli. Oggi questo percorso è compiuto e la civiltà ha esaurito le proprie possibilità. Eccolo il potere divinatorio e profetico del Quai Branly.
Si entra nel cuore del Musée du Quai Branly (la roccaforte dell’etnografia europea) percorrendo un lungo tunnel buio. E questo è un museo scuro, dove filtra pochissima luce. Come nelle foreste tropicali. Lucien Fevre, padre della storiografia moderna, non credeva che interi popoli potessero abitare le foreste tropicali, “così debordanti e potenti da non permettere alcuna vita se non la propria”. Era il mito dell’oscurità tropicale. E se oggi avessimo paura di noi stessi, anche se abbiamo vinto su ogni animale e su ogni foresta e su ogni popolo delle foreste? Se fossimo noi Europei, adesso, a vivere nel buio?
Jacques Chiraq volle il Musée du Quai Branly nel 2006. Chiraq volle questo museo per favorire il dialogo tra i popoli. Ma dove è menzionato il genocidio? Dove l’ecocidio?
Nietzsche pensava che la nostra civiltà avesse smesso di essere crudele, che non fosse più capace di quella ferocia che le aveva consentito di diventare grande. Il Quai Branly smentisce Nietzsche. Non solo siamo stati crudelissimi. Oggi la maggiore crudeltà la infliggiamo proprio a noi stessi perché non ci rendiamo conto del nostro nome. Non siamo capaci di decifrare noi stessi nella civiltà che abbiamo edificato.
Siamo prigionieri della nostra interpretazione del mondo. E il Quai Branly racconta questa interpretazione europea del mondo.
Quando arrivammo sulle coste africane, usammo l’arma dell’interpretazione. Perché anche la civiltà è una interpretazione del mondo. Michel Foucault lo sapeva bene. Credeva che addirittura la Modernità fosse una invenzione, che persino l’uomo fosse una invenzione culturale del Cinquecento e del Seicento. Siamo stati capaci, in nome della nostra interpretazione del mondo, di estinguere intere porzioni di Pianeta. Le persone, le civiltà, le storie, le biografie, enormi assemblage di specie.
Eppure, qui non c’è una parola sulla deforestazione. Non ci sono indicazioni sulle specie arboree dai cui alberi a legno duro venne tagliato il legno per queste figure di antenati e demoni. Questo congela le collezioni, non le lascia parlare fino in fondo. Mozza loro la voce sul confine del tempo presente. Effetti dell’interpretazione.
Ecco qui, non nella questione della restituzione sollevata da Savoy e Macron, il rischio di una rappresentazione neo-coloniale delle civiltà africane. Tagliando fuori il XXI secolo. In modo da essere politicamente corretti. Ma non possiamo occultare il presente per non far torto al passato. O per lenire i sensi di colpa. In questa lacuna di riferimenti e di rimandi alla cronaca ambientale dell’Africa Occidentale e del Congo Basin c’è un limite gigantesco della nostra esperienza di quelle geografie e di quei popoli.
(Musée du Quai Branly, Special Exhibition sull’istutuzione politica della Chefferie in Cameroon – la chefferie è un territorio caratterizzato dalla presenza specifica di un popolo e della sua cultura, alla cui guida c’è un capo (chef). In questo contesto il mondo dei vivi (la comunità) è in costante dialogo con il regno degli antenati (i morti). Gli antenati sono il fondamento di una famiglia. Lo chef, quindi, rapprenta il consesso degli antenati, amministra la guerra e la giustizia. Anche alcuni animali figurano nel novero degli antenati. Questa è una delle idee centrali del totemismo. Ad esempio, nella società Bamileke: i legami tra regno animale e uomini sono radicati nella storia stessa degli individui e delle famiglie. In Cameroon la chefferie, spiega la Exhibition, è presente nella regione di Grassfield, i cui totem-antenati sono specie iconiche: leoni, leopardi, elefanti, bufali, gorilla, pitoni).
Ebbene sì, agisco in modo coloniale. Perché l’opera finisce immobile, incastonata e muta. E anche chi guarda si vede sottratto un momento fondamentale del comprendere. Mettere in sequenza cronologica ciò che fu commesso contro quell’opera (spostandola in Europa), contro quel popolo (sottraendogli la sovranità ambientale) e le conseguenze ecologiche sistemiche di simili politiche.
Lo sgomento del visitatore si scioglie nell’oscurità. Mestizia di tenebre. Sontuosità artistica spalancata sul mistero dell’essere umano. Certamente, passeggiando tra questi volti, cercando di cogliere un senso complessivo nella loro presenza, ci si chiede per quale motivo l’Africa dovrebbe interessarci. Un sentimento meschino che così facilmente può diventare ripulsa spirituale. Così siamo stati educati.Non è la stessa familiarità che abbiamo con i marmi del Partenone… È arte primitiva…Come potrebbe mai essere paragonata a Michelangelo?
Queste figure (dei, totem, antenati) raccontano di relazioni ecologiche (con gli alberi, con le specie animali) diverse da quelle che noi europei abbiamo saputo intessere e coltivare. Le civiltà non europee, oggi agganciate ai meccanismi dell’economia globale, attribuivano al proprio contesto ecologico un valore bio-culturale che non poteva essere soppresso o smantellato, pena la disintegrazione stessa della comunità.
“Le strategie indigene di uso delle risorse sono il prodotto di una trasmissione di conoscenza intergenerazionale. Spesso questo sapere viene passato attraverso il racconto orale: tiene insieme sistemi di classificazione delle specie animali e delle caratteristiche del paesaggio, informazioni su come impiegare in modo sapiente le risorse, rituali simboli e pratiche religiose.
Nel tempo, questi sistemi di pensiero hanno permesso alle società indigene di persistere per millenni in una varietà enorme di ambienti, spesso coesistendo perfettamente con la biodiversità, primati compresi. Inoltre, per lo più questo sapere tradizionale è articolato su un lingua altamente specifica. Questo significa che ogni lingua indigna contiene e rappresenta informazioni uniche su piante, animali, ambienti e il modo in cui questi esseri umani sanno interagire con tutto questo”.
“I Baka del Cameroon considerano i gorilla (di pianura) e gli scimpanzé animali speciali che hanno legami con gli esseri umani per via di processi magici di reincarnazione. Ma anche nelle ontologie di altri popoli raccoglitori del Congo Basin i primati possano passare le barriere tra specie, quelle che dividono gli umani dai non-umani. Non sorprende, quindi, che molte di queste popolazioni caccino meno primati rispetto a quanto invece fanno le popolazioni del Congo che non vivono più in modo tradizionale”.
(Feticcio contenete metà uomo e metà scimmia – Departimento di Bamboutos, Regione dell’Ovest, Cameroon, Chef de Bamendjo, Museé du Quai Branly
Ecco perché nei popoli e nelle nazioni a noi Occidentali pressoché sconosciuti del sud globale – i volti che incontriamo al Quai Branly – portano scritte nei propri corpi intere “sociocosmologie che danno valore alla biodiversità”.
L’Africa è lontana. Dobbiamo ammetterlo. Anche se è vicinissima (Rue Saint Martin, Rue Saint Denis, Chateau l’Eau, Republique). L’Africa ci sfugge. Il giovane del Senegal che vende su un lenzuolo piccole Tour Eiffel Made in China sul Quai. L’Africa noi Europei non la vogliamo toccare a mani nude. Ma è lei che ci raggiunge. Ci afferra. Ci costringe. Ci avvinghia. Ci fa innamorare del nostro tempo, di tutto il tempo che ci è concesso in questo secolo maledetto e abbagliante.
Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane: questo è il posto migliore di Parigi per parlare di cosa accadrà alle primarie rimaste dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo. Nel racconto artistico e culturale delle sue opere, già avvolte da controversie e polemiche sempre più accese da quando Emmanuel Macron commissionò una investigazione speciale sulla loro provenienza alla storica francese Bénédicte Savoy e al filosofo senegalese Felwine Sarr, queste collezioni sono diventate centrali nel dibattito sulla sopravvivenza di alcuni degli ecosistemi più importanti del nostro Pianeta.
(La facciata esterna del Museo fotografata dal Quai Branly annuncia la Special Exhibition sul Cameroon)
Che cosa si intende, oggi, per natura selvaggia? Ormai lo sappiamo: non basta che un ecosistema sia ricco di un certo numero di specie, e cioè biologicamente diversificato. Bisogna capirne la funzionalità ecologica: sono presenti tutte le tipologie di specie che permettono gli scambi di sostanze nutritive, i flussi di sostanze chimiche di rilevanza biologica e addirittura la riproduzione di numerosi alberi e piante? Vale a dire, questo ecosistema ospita i frugivori, i carnivori e gli onnivori in gruppi abbastanza numerosi da interagire tra loro? Questo ecosistema contiene dunque una diversità filogenetica tra le sue specie, ossia una lunga storia evolutiva di tutte queste specie messe insieme tale da aver definito nel tempo lungo il ruolo di ciascuna, e le une rispetto alle altre?
Ecco quindi che nel 2016 la IUCN ha proposto un set di nuovi criteri per identificare le aree più importanti del mondo pullulanti di biodiversità. L’integrità ecologica è il più importante, perché somma tutte queste caratteristiche in una sola: l’integrità biologica di un ecosistema. Le aree selvagge devono essere abbastanza estese da ospitare la maggior parte dei processi ecologici, compresa la presenza dei grandi predatori altamente mobili (che si spostano cioè su larghe distanze). E dei grandi mammiferi: erbivori di media-grossa taglia e frugivori esperti nel disperdere i semi delle specie di alberi a legno duro, come quelli endemici delle foreste tropicali primarie che stoccano anche più carbonio.
(Il giardino del Musée du Quai Branly con il Café Jacques e la biglietteria)
I luoghi da cui provengono (spesso attraverso la violenza coloniale) le opere d’arte dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo custodite nel Quai Branly non sono più, a oltre un secolo di distanza, quelli che erano al tempo del dominio straniero. Molto spesso, non hanno più queste caratteristiche ecologiche. Moltissime delle specie che avevano un ruolo nel pantheon simbolico, demonologico e religioso delle civiltà indigene sono ormai scomparse, o molto rare. Le figure religiose, gli antenati e i protagonisti della vita spirituale di queste nazioni oggi al Quai Branly sono dunque testimoni silenziosi di estinzioni già avvenute (è il caso del leone occidentale) o ancora in corso. Senza le specie animali che oggi è difficile incontrare o anche ricordare, quelle opere d’arte non sarebbero mai state pensate, nel loro simbolismo e nel loro significato sociale. Nel legame che stringeva uomini, donne, animali e foreste in una unica civiltà.
Nonostante le dimensioni, e la scala di impatto, della “crisi del bushmeat” in Africa, nel mondo scientifico cresce il consenso su una valutazione positiva della caccia tradizionale. Anche in Africa. “Quando è parte dell’economia dei popoli indigeni, la caccia è per lo più coerente con un modello fondamentale: definire un perimetro circolare con un raggio di 10-15 chilometri attorno agli insediamenti umani, che viene progressivamente colonizzato da animali che si spostano e arrivano qui dalle aree delle foresta dove non si caccia. Queste aree geografiche escluse dal prelievo animale sono spesso paesaggi sacri”. È una dinamica detta a “sink”, che garantisce una pressione costante e accettabile anche su specie sensibili e minacciate, come i primati. Oggi gli ecologi definiscono queste strategie “natural mechanism of species recovery”.
Non c’è altro contesto per capire direttamente quanto la crisi di estinzione coincida con l’evaporazione delle condizioni ecologiche storiche che resero possibile l’emergere delle civiltà africane. Ma questa situazione è anche una conseguenza diretta del colonialismo. È stato il colonialismo (dall’impianto del traffico di schiavi neri a partire dalla fine del XVII secolo) a mettere fuori equilibrio l’Africa Occidentale e Tropicale, agganciando l’Africa al disegno capitalistico europeo ed americano. Ecco perché, ora, la defaunazione dell’Africa Occidentale e del Congo Basin è una responsabilità storica globale.
(NB – Il secondo video contiene un errore. Le specie che disperdono semi nel loro ambiente mangiando i frutti di alcune specie arboree favorendone la riproduzione si chiamano FRUGIVORI. L’entusiasmo a volte gioca brutti scherzi con i refusi. Grazie della pazienza!)
Merenda al Marais, a Parigi. In un piccolo parco aristocratico. Accade così, di chiedersi: perché possiamo essere felici nonostante il disastro della natura?
Scivolando lungo Rue des Archives compare un imponente edificio antico, dalle mura classiche e spesse, del tipo di quelli scelti come location cinematografiche per le fiction sui classici francesi BBC, come I Miserabili. Sono gli Archivi Nazionali di Francia, residenza dei duchi di Guisa (i cattolicissimi Guisa nemici giurati del casato di Condé) dal 1553 al 1607. Un fruttivendolo offre sulle piccole bancarelle arance freschissime. Ecco Parigi, nelle viuzze che stanno dietro il Boulevard du Temple, al Marais. Quartiere di una prosperità economica impressionante, dotato di uno sfarzo autocratico, indipendente da qualunque critica ecologista o post coloniale. Questa è una ricchezza ormai ereditaria. Ricchezza invincibile, militarmente o no, e cioè con una rivoluzione ambientalista o qualcosa del genere. Perché l’impresa storica che l’ha resa possibile è ormai irreversibile. Non si torna indietro da tre secoli di colonie, commerci di schiavi, di cotone, di zucchero, di spezie.
Il parco di Rue de Bretagne. Una donna con i capelli bianchi e un magnifico abito in canvas di cotone smanicato a fiori su fondo giallo, sorregge lo zainetto rosso porpora del nipotino. Sono le quattro e mezza, è l’ora dell’uscita da scuola. Sì, c’è gente che abita qui. Che ha un appartamento qui. E poi ci sono, nella panchina accanto, i giovani uomini di origine africana vestiti di nero, Nike o Adidas, di quelli che attorno a République sono a bighellonare in giro. La nuova avventura urbana dei poveri globali (che però vinceranno la partita).
I bambini giocano sulla giostra, ignari del mondo. È la fanciullezza che resiste, nonostante tutto. Schopenhauer aveva ragione. C’è qualcosa nella vita che resiste anche ad ogni ambientalismo, ad ogni motivata, circostanziata critica allo stato delle cose. Alla protesta contro il secolo. Resiste perché fa a meno di impegnarsi contro il secolo. Beve la vita come si beve avidamente un bicchiere di acqua fresca in estate.
Bambini francesi che giocano al parco, al pomeriggio, all’ora della merenda. La fanciullezza è il più apartitico dei partiti, che però è destinato a sbaragliare tutti gli altri. Passa una robusta donna forse nigeriana, la voluminosa gonna batik a disegni giallo e arancio, e una marinére a righine verdi. Spinge il passeggino di due bambini bianchi. Una mami. A quanta di questa gente con la pelle nera, che fatica e abita a Parigi, importa del Musée du Quai Branly, il più importante museo etnografico del mondo, che custodisce buona parte del patrimonio artistico africano? E passa una seconda mami, i capelli avvolti in un turbante, sempre con i bambini della madame bianca che l’ha assunta. Stagioni della storia che si mischiano, si sovrappongono. Ma tutto il pensarsi dentro la vita (la nostra biografia, e quella degli altri popoli che ci sfiorano) prescinde dalla preoccupazioni ambientali. Perché la vita vuole vivere. È così che viviamo mentre il Pianeta muore. Living with Death.
Molta gente è stesa al sole, in costume da bagno. C’è una festa di compleanno, di bambini delle scuole elementari. Sul prato, bicchieri di plastica a flûte e porzioni ormai squagliate di bavarese al cioccolato. Ovunque in Occidente si festeggia con una torta al cioccolato. Lo zucchero è una preghiera di ringraziamento, per essere nati qui e non laggiù, nel sud globale, dove lo zucchero è nato. Dove si cominciò a pensare tutta la Modernità attorno alla canna da zucchero. Depredando l’Africa occidentale di uomini e donne. E poi avviando le piantagioni.
(Paris, Place de la République all’angolo con Boulevard du Temple)
Quella bavarese lasciata a disfarsi al sole, perché tanto ne puoi comprare un’altra, perché non è costata uno stipendio. È la Colazione sull’erba di Monet. Un gioco, una bagattella. Vestiti estivi in cotone, la prima giornata di caldo estivo, anche se siamo in maggio. La ricchezza ereditata non è benessere materiale. È invece una sorta di innocenza, è un attraversare il tempo come se la vita fosse sempre lo sbocciare della primavera su un quadro impressionista. Così vivono i benestanti. Come se, insieme al ben vivere, si fosse ereditata anche la luce del sole in un pomeriggio spensierato.
E così, dal piccolo parco borghese e giocoso – i bambini sono tutti vestiti in cotone, senza neppure l’ombra della poliammide, annuncio delle prossime vacanze al mare – promana quel sentimento sconcertato e malinconico che accompagna la protesta contro il secolo. Nessuno rinuncia alla vita, a meno che non soffra di un disgusto per se stesso. Il mondo, da solo, è la nostra condizione di esistenza. Anche se è la nostra Zattera della Medusa.
La merenda dei bambini in Rue de la Bretagne mi sembra una pausa, una interruzione nel racconto oscuro di questi anni. Si sta così in questa vita, un po’ simili a loro, un po’ alla bavarese squagliata. Nulla basta a fermare l’attimo della felicità. Eppure, tutto scintilla sempre alla luce del sole. Siamo in attesa. Come è in attesa il cammino dell’uomo quando, presente a se stesso, legge nelle cose di natura e negli accadimenti modesti e ripetitivi della serenità quotidiana il suo stesse accadere, che custodisce in un enigma biologico anche i suoi pensieri più poietici (poiesis, in greco, essere-nel-mondo-creando).
Tutto questo è la premessa del Quai Branly. Perché tutto questo è il Quai Branly. Così come lo sono la bavarese al cioccolato e il parco. E quindi in questi accordi di voci antiche (dei bianchi, dei neri, degli Europei, degli Africani, nel ‘700 e oggi) sta anche Rue des Archives, gli Archivi del tempo, delle epoche trascorse, delle epopee sanguinarie (Margherita di Navarra, la Notte di San Bartolomeo, il Duce di Sully e Luigi XIII, le Guerre di Religione e il Casato di Condé), del tempo profondo (George Cuvier e il suo gabinetto anatomico al Jardin des Plantes). Archivi delle storie che l’uomo europeo non osa raccontare neppure a se stesso, archivi dei sogni che restano incompiuti, archivi del XXI secolo. Archivi escogitati dalla furbizia del ricordo per proteggere sotto chiave i fatti e concedere così alla civiltà il privilegio di inventarsi ancora una altra volta.
(Una gigantografia pubblicitaria di Jennifer Lawrence nel film “Don’t Look Up!”. Chi nega l’emergenza sanitaria ed ecologica soffre di una impressionante mancanza di coscienza storica. Questo è il tratto culturale che accomuna negazionisti naturisti, capitalisti ed edonisti)
Non riusciamo più a provare il sentimento dell’emergenza. Da questo vuoto si sprigiona il rancore per le misure necessarie a mitigare l’epidemia. È il negazionismo dell’emergenza. Una paresi emotiva. E da questa pericolosa lacuna nel pensiero emerge la disaffezione a cambiamenti rivoluzionari, a prese di posizione radicali, a rivolte della coscienza e dello spirito contro il dissesto ecologico del nostro secolo.
Le rivoluzioni sono sempre uno stato di emergenza. Quanto meno perché sovvertono le condizioni materiali di sopravvivenza di tutti coloro che vi sono coinvolti. Ai pensatori spetta di pensarla, e di progettarla, la rivoluzione. Ma i comuni mortali, i cittadini, gli uomini e le donne di ogni giorno e di nessun giorno l’eradicazione dell’ordine costituito lo subiscono a prescindere da qualsiasi volontà. In questo sta la capacità ipnotica di ogni rivoluzione: la sua inesorabilità, la sua indipendenza, la sua autonomia. Come un meccanismo che, una volta avviato, procede da sé. Naturalmente la statura solitaria della rivoluzione ne fa anche il fascino. Osserviamo le grandi rivoluzioni della nostra modernità ( il 1789 e il 1917) con la remissività incantata della vittima di una seduzione ben riuscita. L’orrore viene dopo, se arriva. Una rivoluzione è, in grande stile, il Merde! che il generale di Napoleone oppone alle ragioni del vecchio potere aristocratico Ancien Regime ne I Miserabili di Victor Hugo.
Ogni rivoluzione è stata anticipata, anche di decenni, da uno stato di emergenza sottovalutato, taciuto o negato. Per questo il collasso nella disponibilità di benessere materiale e spirituale assume i connotati di uno stato emergenziale cronico, che però ha già in sé i germi della detonazione. Per quasi tutto il XX secolo, tuttavia, il disinteresse nel riconoscere l’emergenza è stato appannaggio di classi dirigenti arroccate sul proprio potere in nome soprattutto di ideologie aristocratiche. Anche la difesa ad oltranza del proprio censo, dietro cui si trincerò la borghesia colta tedesca negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, o l’ottusità del potere sovietico, sono una forma di aristocrazia timocratica. Alle masse spettava il compito, e la frustrazione, di sapere in anticipo quale sarebbe stato l’esito finale di una emergenza prolungata sino al punto di rottura. La gente semplice e comune, in altre parole, anche quando non poteva farci un accidenti, sapeva benissimo di vivere in condizioni di emergenza.
Anche se nessuno poteva scrivere sul calendario la data esatta dell’esplosione, che lo scoppio dei tumulti contro la sordità del potere ci sarebbe stato era una certezza. Si aspettava la fine certi che la fine era ormai inevitabile. Oggi, invece, questa coscienza della massa nei confronti dell’urgenza del presente è disattivata.
La rivoluzione e l’epifania dell’emergenza
Nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1917, la notte dell’abdicazione dello zar Nicola II Romanov, ecco che cosa accadeva nella cittadina di Efremov, nella provincia russa di Tula: “Era l’una di notte, un’ora in cui Efremov di solito è addormentata. D’improvviso, a quell’ora strana, risuonò un breve e rimbombante rintocco di campana dalla cattedrale. Poi un secondo, e un terzo. Lo scampanio accelerò, propagandosi per tutta la città, e ben presto cominciarono a suonare le campane di tutte le chiese dei dintorni”.
Che cos’ha di così eccezionale questa testimonianza insabbiata nei tomi di storia del Novecento? Nella notte che segna la fine della dinastia dei Romanov dopo 300 anni di dominio assoluto (1613-1917) su milioni di vite umane, si diffonde nella tenebra il suono delle campane. Evento che ha del prodigioso. Rintocchi fatali di un avvenimento sperato per decenni. Un annuncio, una annunciazione. Quel che dovrebbe colpire noi Moderni è la qualità numinosa di questo avvenimento. I contadini di Efremov attraversarono la notizia della caduta di Nicola II come fosse una scarica di fucile. L’evento di rottura arriva impetuoso e nessuno lo ignora perché tutti sanno che sarebbe arrivato. È una sorta di avvento del Messia, sotto i panni della storia umana che ricomincia a girare impetuosa.
Noi abbiamo perso una simile capacità di accordarci con l’accadere degli eventi speciali. È per questo che il marzo del 2020 ci ha colti impreparati ed è per questo che in molti continuano a provare imbarazzo o rabbia verso le misure di contenimento dell’epidemia che i governi intentano con goffaggine e scarsa prontezza.
Non ci siamo accorti che l’epidemia è solo un sintomo di una emergenza molto più vasta.
A noi manca il sentimento dell’emergenza. Se sai che vivi in tempi di estrema carestia ecologica e spirituale, non sei sorpreso dei correttivi proposti per provare ad arginare l’eccezionalità della situazione. Ma non è questa la condizione occidentale di questo 2022.
La passione per il reale
Nel novembre del 1915, il grande scrittore Maksim Gor’kij scriveva da Pietroburgo alla ex moglie: “Ben presto saremo in piena carestia (…) Che cosa è mai capitato al XX secolo! Che cosa è capitato alla civiltà!”.
Angoscia da parafrasare in questo nostro oggi. Che cosa mai ci è accaduto nel XX secolo per vivere l’inizio del XXI secolo con una maschera sulla faccia? All’inizio degli anni Duemila il filosofo marxista Alain Badiou si chiedeva che cosa avesse caratterizzato il Novecento tanto da farne il secolo dei genocidi (nazisti, sovietici, coloniali) e del trionfo, infine, del capitalismo rampante. Capire il peso di queste domande significa muoversi ben oltre la lettura dei fatti storici.
Significa capire la forma del presente. “Resta comunque possibile, a chi scavalchi freddamente questo secolo breve nel suo furore mortifero trasformandolo o in memoria, o in commemorazione contrita, pesare storicamente la nostra epoca a partire dal suo risultato”, spiega Badiou.
“Il XX secolo finirebbe così per diventare il secolo del trionfo del capitalismo e del mercato mondiale. La felice correlazione tra Mercato senza frontiere e Democrazia senza confini finirebbe, sotterrando le patologie del volere scatenato, per affermare il senso del secolo come una pacificazione o come la saggezza della mediocrità”.
Questa pacificazione null’altro sarebbe se non l’essiccazione della rivoluzione come pensiero per risolvere una emergenza non più rimandabile. Una atto del pensiero, prima ancora che una insurrezione a mano armata.
Quel che segna l’anima degli Europei del Novecento è infatti soprattutto la tensione psicologica tra i due poli essenziali dell’esperienza umana: agire o non agire? È meglio aspettare che le condizioni storiche oggettive facciano il proprio corso oppure forzare la mano agli eventi e impugnare il timone della Storia? La volontà soggettiva, alla fine, segna la coscienza rivoluzionaria del Novecento, nelle grandi dittature e nei giganteschi movimenti di massa. È la terrificante, eppure attualissima, lezione di Lenin: se non c’è la borghesia, mettere il partito davanti alla società civile. La volontà soggettiva contro le condizioni oggettive. L’emergenza, con tutta la sua irruenza e aggressività materiale, davanti alla titubanza, al negoziato, alla reticenza.
Gli ultimi venti anni del Novecento non hanno ereditato la passione per il reale. Sono anzi scivolati in una apatia collettiva che ha lentamente disattivato il sentimento dell’emergenza fino alla normalizzazione dello stato di eccezione. La pandemia ci ha colti in questo stato d’animo.
L’emergenza prima del Covid
Era l’11 dicembre 2018 quando il sindaco di Londra, Sadiq Khan, incalzato dal neo movimento ecologista Extinction Rebellion dichiarava l’emergenza climatica per la sua città. Sin dall’inizio il gruppo, allora diretto da Roger Hallam, poi estromesso per presunto estremismo, incitava il governo a “dire la verità” dal momento che “fronteggiamo una emergenza globale senza precedenti”.
A partire dal 2018, quindi, la parola emergenza entra nel lessico usuale degli attivisti, erroneamente convinti che ripeterla all’infinito susciti indignazione e orrore. Di fatto, evocare l’emergenza climatica e biologica è stato solo un atto liberatorio. Un coming-out della vecchia guardia di ecologisti ormai cinquantenni, che fanno i conti con un fallimento storico epocale. La parola “estinzione” prendeva tristemente posto accanto al cambiamento climatico. Nulla di più. I motori di ricerca di tutto il mondo continuano ad associare l’estinzione ai dinosauri del Cretaceo. Essenzialmente, questo è avvenuto perché il concetto biologico di sesta estinzione di massa non è stato assorbito nel concetto storico di rivoluzione. La logica moderna non ha associato la minaccia estrema alla sopravvivenza della vita sul Pianeta alla comprensione ed alla valutazione storica dell’epoca.
Un secolo fa, una emergenza come quella che viviamo ogni giorno avrebbe acceso la voglia di rivoluzione.
Poi, però, è arrivato il Covid. E l’emergenza è balzata fuori dalle stagnanti paludi della felicità consumistica per scuotere in un sol colpo la ragione occidentale. Mentre la zoonosi dilagava dagli aeroporti internazionali alle capitali europee la coscienza storica delle persone andava in black out. Chi non ha mai saputo di vivere in uno stato di emergenza, si è trovato scoperto e inerme dinanzi alla brutalità delle misure di contenimento dell’infezione.
Per coloro che non avevano la più pallida idea dello stato di prostrazione della biosfera accettare la chiusura improvvisa di tutte le attività economiche e ricreative è suonato come un affronto. Durante il primo anno dell’epidemia furono soprattutto le persone che non avevano mai letto un rigo di cronaca ambientale a scaricare dosi massicce di stupore ebete su giornali e social media, dichiarandosi stupefatti dall’evento cinese.
Poi l’anno scorso un comportamento analogo ha travolto la disponibilità di un vaccino. Trovato un nemico partorito in emergenza da una condizione di emergenza, la rabbia sociale ha intrapreso una battaglia contro la farmacologia del XXI secolo. Anarchici, naturisti, edonisti, consumisti si sono scoperti forse per la prima volta a condividere la stessa opposizione viscerale alla gestione emergenziale di una malattia nuova all’umanità intera.
Il negazionismo dell’emergenza sanitaria ed ecologica
Ognuno di questi gruppi di pressione, con un un suo uditorio politico, è espressione di un collasso del consenso consapevole. La società civile, nelle sue mille venature ed articolazioni, cova infatti al suo interno il problema gigantesco del consenso sullo stato della realtà. È una questione che il pensiero ecologista dibatte da almeno 30 anni. Riassumiamola così: la maggior parte delle persone non sa in che epoca vive. E, di conseguenza, ignora che l’impronta ecologica umana sulle specie animali e sull’atmosfera è già in una fase critica. Chi non è in grado di comprendere i tratti salienti del proprio tempo, non può che rimanere vittima di angoscia e rabbia quando gli si chiede di adeguarsi a provvedimenti straordinari di salute pubblica.
E questo vale dal punto di vista politico.
Ma guardiamo che cosa la mancata percezione dell’emergenza significa sotto il profilo psicologico e simbolico.
L’ideologia negazionista e il nichilismo
Siamo di fronte ad una deriva nichilista. Da un lato coloro che misconoscono l’emergenza mostrano di ignorare a quale punto di distruzione l’azione umana ha portato se stessa. D’altro canto, però, costoro non sanno neppure che il loro stesso atteggiamento di rifiuto delle cure, delle limitazioni e del pensiero attuale è il frutto della generale temperie nichilista dell’umanità moderna. Come scrisse Heidegger nel 1943, all’interno del suo magistrale corso Il nichilismo europeo, comprendere concettualmente significa “esperire consapevolmente nella sua essenza ciò che si è nominato e quindi riconoscere in quale attimo della storia occulta dell’Occidente noi stiamo”.
Lungi dall’essere esclusivamente un ragionamento filosofico, questa è una considerazione storica. La “storia occulta dell’Occidente” è la storia della cultura europea che ha dato al mondo e a noi stessi la forma che abbiamo oggi. L’affermazione di un pensiero nichilista, dunque, è il percorso secolare compiuto dalla nostra civiltà per imparare ad usare il mondo in un certo modo. I nichilisti, irretiti dal disfattismo ideologico da fine del mondo, dalla seduzione della catastrofe catartica, oppure convinti assertori della difesa ad oltranza dell’ordine economico mondiale, vivono al di fuori di queste categorie di realtà.
“Pensare il nichilismo, perciò, non vuol dire nemmeno avere in testa ‘meri pensieri’ al riguardo, ed evitare, da spettatore, la realtà”, scrive Heidegger. “Pensare il nichilismo significa quindi soprattutto stare in ciò in cui tutte le gesta e tutte le realtà di questa epoca della storia occidentale hanno il loro tempo e il loro spazio, il loro fondamento e i loro sfondi, le loro vie e le loro mete, il loro ordine e la loro giustificazione, la loro certezza e la loro insicurezza – in una parola: la loro verità”.
Quando è crollata la percezione della realtà (il cambiamento climatico e la sesta estinzione di massa sono qui, ora, adesso) il nichilismo appare essenzialmente come un allontanamento progressivo e inarrestabile dal principio di realtà.
Il ricorso perverso al mito della libertà
L’esito finale di tutto questo è un rafforzamento dei negazionismi. Da sempre i movimenti per la protezione del clima insistono nella denuncia del negazionismo pagato con i dollari delle compagnie petrolifere. Commettendo un errore madornale. Il negazionismo autentico è piuttosto la interdizione consapevole dell’intelligenza critica, in cui la società civile occidentale si è buttata entusiasta ad occhi aperti.
Per questo il negazionismo dell’emergenza climatica, biologica e sanitaria si nutre della retorica sul ritorno mitologico alla normalità. Non è mai esistita una normalità normale. Mentre è sempre esistito un decorso storico di fatti, atteggiamenti, discorsi e culture. Vivevamo in uno stato d’animo collettivo che ha portato ai rischi dell’epidemia.
Queste spasmodiche contrazioni emotive (negare il virus, rifiutare le cure, evitare di pensare il virus in connessione causale con l’annichilamento biologico della biosfera) sono il tentativo convulso di contenere lo stato di eccezione, di non lasciar debordare l’orrore dell’emergenza. Una simile disposizione mentale, lo si intuisce, impedisce però la piena comprensione di quanto sta accadendo.
Le illusioni feticcio
È così che il nichilismo, spinto da partiti solo apparentemente in opposizione tra loro, produce una contro-normalizzazione che pretende di agire contro lo stato di emergenza. Proprio come lo spettro della “controrivoluzione” nei passaggi pericolosissimi dei cambiamenti storici rivoluzionari, la contro-normalizzazione è il tentativo di normalizzare l’eccezione.
Sono illusioni che non fanno che acuire la crisi. È il presente che divora se stesso perché non riesce a pensarsi eccezionale.
Lo stato di emergenza mancato denuda dunque la debolezza estrema dei nostri assunti di uso comune. La fragilità, in altre parole, di una civiltà che non sa più pensarsi nella realtà che lei stessa ha prodotto e si esplica, invece, solo nella mitologia delle proprie fantasticherie.
Eppure, neppure queste illusioni-feticcio (ritorno alla normalità pre Covid) possiedono più il potere mitopoeietico delle grandi utopie, delle grandi religioni, dei movimenti di massa. Sono configurazioni culturali statiche, che tendono a replicarsi nella continua riaffermazione del consumo, dell’anarchismo, dell’impotenza emotiva.
L’emergenza ha dunque perso quel sentimento di eccitazione o di disperazione che sempre in Europa ha contraddistinto i periodi di frattura con il passato. L’emergenza si è spenta a poco a poco, pur continuando di per sé a peggiorare ed ad intensificarsi.
La forza di comprensione
Manca insomma “la forza di comprensione”, come la chiamava Karl Kraus. La diagnosi stessa di questa lacuna proposta da Kraus è disarmante nella sua consonanza con il nostro presente. “Com’è profondamente comprensibile il disincanto di un’epoca la quale, mai capace di vivere qualcosa e di rappresentarlo, non è scossa neppure dal proprio crollo, ha idea dell’espiazione tanto poco quanto dell’atto, e tuttavia ha abbastanza spirito di autoconservazione da tapparsi le orecchie davanti al fonografo delle proprie melodie eroiche, e abbastanza spirito di sacrificio da tornare, all’occasione, ad intonarle”.
Kraus queste righe le scriveva nel 1918. La catastrofe del suo tempo era cosa fatta. Ma “al di sopra di tutta la vergogna della guerra sta quella degli uomini di non volerne più nulla sapere”. Il disgusto di Kraus per i suoi contemporanei oggi ci stupisce, perché consideriamo gli uomini di inizio Novecento ben più colti e geniali di noi. Erano generazioni dal cuore duro, forse, ma di capacità intellettuali strabilianti in ogni campo dell’umano sentire.
Eppure, né Kraus esagerava né noi siamo in errore. La sua denuncia dell’ignavia generale la sentiamo coerente con il deserto di consenso sull’emergenza climatica e biologica perché siamo in una continuità storica con la cultura occidentale del Novecento.
Oggi come allora la nostra esperienza della realtà è filtrata da schemi di pensiero delle cose di natura. Questi schemi, oltre a disegnare l’uso degli organismi viventi, plasmano la nostra percezione dell’esistenza, dei suoi rischi e delle sue opportunità.
Pensare l’emergenza in termini evolutivi
Ci siamo abituati molto tempo fa a mettere da parte lo stupore immaginifico per il fenomeno biologico, che si offre sulla scena del mondo come evento indipendente dalla volontà umana. Abbiamo così scartato la rilevanza dei meccanismi evolutivi che stanno a monte della nostra nascita e della nostra storia.
“Per capire il mondo, non solo i fatti biologici, abbiamo bisogno di evoluzione. L’emergere di sempre nuove varianti del virus SARS-CoV-2 – avendo noi sedicenti sapiens scriteriatamente deciso di vaccinare solo la parte ricca del mondo – è un processo evoluzionistico che bene illustra la casualità delle mutazioni, la loro probabilità direttamente proporzionale alla quantità di virus in circolazione, il vantaggio darwiniano della contagiosità” ha scritto Telmo Pievani sul magazine PIKAIA.
“Il vaccino che introduce una nuova pressione selettiva per il virus è un processo evoluzionistico. La nostra stessa co-evoluzione con il virus, la corsa della Regina Rossa tra ospite e parassita, appena cominciata e poi negli anni a venire, è un processo evoluzionistico. La lista è lunga. Non si capisce appieno la pandemia senza un’adeguata comprensione dell’ecologia delle zoonosi e della loro evoluzione”.
Insistere sull’identità evolutiva di noi Sapiens è una via di uscita dalla povertà del pensiero contemporaneo: “abbiamo bisogno di un approccio evoluzionistico anche perché apre lo sguardo al tempo profondo e alla globalità dei rapporti tra l’umanità e la biosfera: è un antidoto di largo respiro contro il deleterio schiacciamento sul presente e sull’emergenza quotidiana, di bollettino in bollettino, che domina le nostre cronache da due anni”.
Conviene, allora, chiedersi non tanto come si possa accendere il sentimento di emergenza quanto piuttosto se ci sia una via di uscita allo stato di emergenza stesso. Finora si sono esplorate fallimentari proposte politiche, nello spettro delle quali la debacle degli ecologisti è tanto significativa quanto la vittoria dei loro nemici. Queste proposte sono, appunto, politiche e cioè collettive.
Ma esiste la possibilità che una più elementare e forse primitiva via di sopravvivenza e di opposizione, che lasci emergere l’emergenza in tutte la sua complessità storica, sia invece una scelta individuale. Se il vuoto che ci attanaglia è un vuoto di comprensione, allora “fare la rivoluzione” contro questo vuoto è dedicarsi allo studio. Studio delle cause della nostra situazione presente, in uno spazio di esplorazione il più ampio e diversificato possibile.
Bisogna dedicarsi con passione (la “passione per il reale”) a capire le cause storiche del disastro ecologico, della sesta estinzione di massa, del disagio di civiltà che la pandemia ha reso evidente e palese per tutti. Dobbiamo essere consapevoli che soltanto lo studio smonta il meccanismo, ossia la percezione della impermeabilità, della inesorabilità e della monolitica impassibilità del sistema culturale del nostro XXI secolo.
(Ricostruzione del cranio di Homo Nesher Ramla. C’è una vertigine dentro di noi: la profondità del tempo evolutivo che ciascuno porta nel suo DNA è il luogo in cui cercare le radici della nostra moralità. Photo Credits: Ufficio Stampa Università La Sapienza – Roma)
La performance ambientale dei Sapiens ha raggiunto il suo acme. Questo punto di non ritorno si chiama Antropocene. La nostra epoca segna infatti la maturità di Homo sapiens, il momento, lungo una storia evolutiva lunga due milioni e mezzo di anni, in cui possiamo finalmente constatare gli effetti ecologici della nostra umanità.
Il 24 febbraio del 1871 Charles Darwin diede alle stampe un libro destinato a divenire ancora più spinoso dell’Origine delle Specie. Questo libro era The Descent of Man. La ricerca, stavolta, “avrebbe dovuto spaziare dalla selezione sessuale e dalle scimmie progenitrici fino all’evoluzione della morale e della religione”. Darwin aveva intenzione di dimostrare che anche le più alte qualità morali della società britannica avevano una eziologia racchiusa nella storia biologica dei suoi cittadini. Non c’era nulla di metafisico o di soprannaturale (ossia divino) nel codice di condotta delle persone dabbene, o nella necessità moderna di ordinamenti giuridici e politici che tenessero ben distinto il bene dal male. Dopo il gran chiasso dell’Origine, Darwin, una volta tanto, era in sintonia con il suo tempo: “applicare alla società le teorie del darwinismo era ora un business intellettuale in rapida espansione”.
A tal punto che Walter Bagehot, che di professione faceva il banchiere, ma era anche un redattore dell’Economist, sosteneva pubblicamente che “il progresso si verificava solo se la società era autoritaria. La civiltà cominciava con l’obbedienza, il rispetto della legge e il ‘vincolo militare’”. La forza, in definitiva, presupponeva sempre una morale. Darwin era affascinato da simili idee e le lodava con i suoi amici. I suoi biografi inglesi Adrian Desmond e James Moore arrivano ad affermare che “di certo Darwin aveva in mente gli inglesi colonialisti quando scrisse questo appunto: i popoli che si spostano e si incrociano sembra che abbiano le maggiori probabilità di variare”. Morale, impero ed evoluzione. I tre termini fondamentali che dovevano, e potevano, dire qualcosa di sostanziale sulla vicenda storica umana.
Darwin si diede, in definitiva, questo compito: dedurre la genesi della morale dalla genesi della nostra specie. Una questione tutt’altro che tramontata, o vetusta. La performance ambientale dei Sapiens è oggi più che dibattuta, nello sforzo epistemologico di comprendere quanto e come possiamo essere considerarci responsabili colposi del collasso ecologico.
In The Descent Of Man Darwin sostenne che la maggior parte delle differenze tra gli esseri umani e gli animali superiori fosse questione di “intensità e non di tipologia”. Negli ultimi mesi numerose coincidenze attorno all’anniversario, i cento cinquant’anni appunto, hanno reso molto popolare l’assunto di Darwin, “of degree and not of kind”. Il 2021 è stato salutato come anno dedicato a importanti svolte nelle politiche ambientali. A ottobre, l’Inghilterra ospiterà a Glasgow la COP26, che ha l’ingrato compito di negoziare l’accordo mai raggiunto, e mai trovato, sul contenimento entro limiti accettabili della distruzione del sistema climatico terrestre. Lo stesso mese, la città di Kunming in Cina aprirà i lavori della Convention on Biological Diversity.
Di nuovo un obiettivo di scala epocale: definire i contorni di un accordo per la protezione della biodiversità dell’intero Pianeta, in grado di trasformare la vita umana iper-moderna in una vita “in armonia con la Terra”. Si percepisce in tutto questo una sorta di stanchezza che non vuole ammettere di essere stanca. Già si parla di un rinvio di Kunming al 2022 e il draft distribuito alla stampa il 12 luglio non contiene elementi davvero conformi all’allarme lanciato dall’IPBES nel 2019. Queste diplomazie bio-climatiche assomigliano a un pugile messo all’angolo dall’avversario, che, sotto una gragnola di colpi sempre meglio assestati, non riesce a reagire o a controbattere. L’incontro, certo, sta in piedi. Lui continua a combattere. Non cede e non perde, ma neppure cambia il corso del match.
In The Descent of Man Darwin sostenne che era possibile dedurre la genesi della morale dalla genesi dalla nostra specie. L’evoluzione umana aveva comportato anche l’evoluzione del pensiero morale. Che peso ha tutto questo, oggi, in Antropocene?
C’è confusione là fuori, e anche dentro le nostre società afflitte da una crisi globale segnata dal ristagno economico, da ondate di calore senza precedenti nel Nord America, dalla pandemia, dalle alluvioni in Germania. Questa confusione proviene dalla sensazione che ai summit internazionali manchi la terra sotto i piedi. Proviene anche da una intuizione: all’avvicinarsi del punto di non ritorno della crisi biologica e climatica, non ci è chiaro con chi abbiamo a che fare. Il cosa lo conosciamo. È minuziosamente documentato. Siamo ormai oltre la bio-capacità del nostro Pianeta.
Ma il chi, il soggetto, insomma, di questo eccesso di produttività (la CO2, la plastica negli oceani, il numero di specie in estinzione) non è altrettanto convincente. Anzi, la paleo-antropologia spazia ormai così a fondo nel nostro personale mistero che è difficile non farvi ricorso per ampliare la domanda sostanziale sulla nostra identità di specie. Stiamo forse vivendo l’acme della storia evolutiva umana? E, di riflesso, è questo il significato da attribuire all’esperimento di costruzione di nicchia avviato a partire dalla fine del Pleistocene? Che cosa significa che siamo diversi da ogni altro animale nella misura “of degree and not of kind”?
Dunque ciò che successe, lungo la nostra storia evolutiva, è questo: “una volta che le abilità per accumulare cultura e per estendere la cooperazione furono in campo, un insieme di conseguenti cambiamenti evolutivi (a suite of subsequent evolutionary changes) divenne a sua volta possibile e probabilmente inevitabile”.
A partire da 300mila anni fa, la cultura agì, per così dire, come un acceleratore evolutivo, che, entrando in sinergia con la selezione naturale su base genetica, fornì alla nostra specie un motivo, una causa efficiente e una spinta ecologica interna tali da garantirci una diffusione geografica planetaria. Questa co-appartenenza reciproca della vocazione umana ad espandersi in ogni tipo di ecosistema e delle condizioni ambientali complessive del medio e tardo Pleistocene ha prodotto la sfasatura ecologica del XXI secolo. Viviamo infatti nel pieno dell’affermazione di Homo sapiens, che coincide però con un dissesto generale della biosfera e dell’atmosfera.
È come se il nostro perfetto adattamento alle circostanze esterne (Antropocene) in funzione delle circostanze interne (la nostra genetica) non fossero allineate, o coerenti le une con le altre. L’Antropocene non sarebbe che il punto di collisione tra la perfezione delle nostre doti adattative e i biomi. Un punto di frizione interno, una screziatura ontologica permanente dentro la performance ambientale di Homo sapiens.
Da qui deriva lo sgomento per la distruzione imposta agli ecosistemi, per le montanti estinzioni e per i segni visibili di una nuova era climatica fuori dall’Olocene. Ma da qui origina anche il disprezzo di alcuni per Homo sapiens in quanto tale. Condanna che prende le forme o di un utopismo a-scientifico e mitologico o dell’intento intellettuale di decentrare Homo sapiens per recuperare dignità, personalità giuridica e consistenza ontologica alle altre specie.
Nessuna di queste due posizioni sembra però centrare il bersaglio fissato da Darwin: “of degree and not of kind”. La storia evolutiva dei Sapiens non si esaurisce nella morale, elaborata come tecnica di sopravvivenza ecologica. Semmai, trova un suo compimento nel nostro presente di dissesto globale.
L’amnesia congenita
In una science-fiction prodotta da una poderosa major americana Homo sapiens potrebbe ricordare i suoi antenati. Ritrovarsi dotato di una memoria tridimensionale, che proietterebbe sullo schermo della sua immaginazione le scene di vita quotidiana del mondo a partire dai 7-5 milioni di anni fa, quando cominciò l’avventura delle scimmie del tardo Miocene. Questo tipo di memoria ci aiuterebbe là dove schiere di geniali filosofi hanno fallito per secoli: definire la vera natura del tempo, agguantandone i segreti e usandoli per chiarire la nostra posizione nel cosmo. Ovviamente, nessuno può ricordarsi qualche parente in più delle poche decine di Homo sapiens che ha incontrato nella sua biografia.
Eppure, questa amnesia che ci portiamo dentro noi umani lavora nella nostra coscienza. E proprio nella fucina di ciò che, a partire da Descartes e Galileo, abbiamo inteso con “coscienza”. Ossia, il formidabile apparato di elaborazione dell’esperienza percettiva che diventa capacità di porre la realtà stessa attraverso la costruzione di concetti logico-matematici. Nel modo in cui, oggi, entriamo in relazione con il Pianeta vivente, con le sue faune, con le sue foreste, le sue praterie, le sue savane, le sue distese di ghiacci, i suoi deserti; ecco, su tutto questo soffia il vento antico dei nostri antenati geneticamente codificati e sopravvissuti nel nostro DNA. Non li ricordiamo. Ma il contributo che hanno dato per farci diventare ciò che siamo oggi è qui con noi. La grande amnesia condiziona infatti non solo la qualità ecologica della vita del ventunesimo secolo, l’impatto ambientale del nostro stile di vita, ma soprattutto la reattività della civiltà umana globale alle conseguenze della propria presenza sulla Terra.
Homo sapiens del XXI secolo è iper-attivo. Ma quando si ferma a riflettere sugli effetti di queste azioni frenetiche, non è più tanto sicuro di capirci qualcosa. Pragmatico fino alla morte, eppure destabilizzato dall’interno.
La eco-cultura dell’Ottocento, il secolo della nascita del capitalismo globale, è in linea con la temperie filosofica che spinge Marx a identificare la totalità dell’esperienza con il potere di trasformazione della società e della natura. L’uomo morale è altamente razionale e proprio per questo progetta di ri-organizzare il mondo.
Il pragmatismo della ragione è il prodotto ultimo della rivoluzione scientifica. Questa rivoluzione non è stata solo una messa a soqquadro delle precedenti letture del mondo. È stata probabilmente, in maniera ancora più drastica e radicale, l’affermazione della supremazia definitiva del talento ecologico degli esseri umani. A questa dimensione delle abilità umane si riferiva Marx quando metteva la produzione al centro della sua teoria dell’esistenza.
La eco-cultura dell’Ottocento, il secolo della nascita del capitalismo globale, è esattamente in linea con la temperie filosofica che spinge Marx a identificare la totalità dell’esperienza con il potere di trasformazione della società e della natura. Per questo nelle Tesi su Feuerbach, Marx scrisse: “i filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta di trasformarlo”. Ciò che, dopo lunga maturazione, finisce in secondo piano nel corso del XIX secolo, è una visione complessiva di Homo sapiens.
E visione complessiva significa: considerare Homo sapiens un prodotto dell’evoluzione della specie, che nella sua natura evolutiva incontra i suoi limiti anche là dove sprigiona la sua efficacia ecologica. La ragione inghiotte tutto il resto. L’uomo, definito esclusivamente dalle sue doti razionali, si sgancia consapevolmente dalla altre sue caratteristiche innate. Eppure, la natura evolutiva di Homo sapiens è sempre lì. E lontano dai confini europei predispone gli esseri umani ad atteggiamenti verso il Pianeta che le civiltà non occidentali hanno saputo conservare più a lungo: compartecipazione, contemplazione, accettazione.
Benché anche questi atteggiamenti intellettuali abbiano un fondamento bio-culturale, in Occidente essi sono finiti imbrigliati in un processo di selezione sociale e culturale che li ha esclusi dalla ormai dominante esperienza del mondo e della comunità umana. La ragione assoluta è la grande regista dell’Antropocene.
Oggi, l’impronta ecologica umana sulle specie animali sbugiarda i limiti della ragione. Se siamo molto più simili alle altre specie di quanto ci piaccia supporre, allora l’estinzione programmata e accettata degli animali e delle piante compromette il primato della ragione moderna. La maturità di Homo sapiens è una sconfessione della sua modernità illuministica.
Le dimenticanze, le omissioni, la trascuratezza che riserviamo ai viventi non umani non sono che una faccia, la più ambigua, della grande amnesia. Agiamo come se sapessimo chi siamo, ma di fatto non prendiamo in considerazione il nostro passaporto genetico ed ecologico per affrontare la realtà dell’Antropocene. Tendiamo così a sostituire all’evoluzione la politica, o, peggio, l’ideologia.
Dove nasce la morale
La più pericolosa di queste ideologie considera Homo sapiens estraneo alla storia del Pianeta. Preda di una ansia di giudizio e di verdetto di colpevolezza, questo pensiero che pretende di demistificare l’Antropocene rimane intrappolato nella sua contraddizione fondamentale. Il disastro ecologico non smette di essere “naturale” perché ad esserne responsabile è l’essere umano. Un maturo discorso scientifico va ben oltre l’estatico abbandono a condanne tout-court. Ed è l’unico fondamento davvero solido per ragionare sulla identità di Homo sapiens.
Questo ragionamento non è privo di angoscia. C’è una vertigine dentro di noi. La vertigine del tempo profondo, dei molti uomini simili a noi che si sono estinti, e che però noi abbiamo conosciuto fino a 40mila anni fa. La vertigine di una storia evolutiva nient’affatto lineare, quindi, ma costellata di “rami periferici” o di “specie-sorelle”. La vertigine prodotta dai pochissimi resti fossili che ci danno il contesto paleo-archeologico degli altri attorno a noi. La vertigine di una specie che si è accorta di sé, e in modo frammentario, soltanto quando i giochi erano già fatti e il Pianeta era suo. Un Pianeta ormai troppo affollato, troppo coltivato, troppo inquinato. Troppo caldo.
Qualunque sia la conclusione morale che dovremo trarre da tutto questo, è soltanto da qui che potrà nascere. Dalla constatazione della posizione evolutiva di Homo sapiens. La vertigine del tempo profondo che ci portiamo dentro è, forse paradossalmente, l’unico scenario storico possibile per formulare ipotesi sulla nostra responsabilità nella crisi ecologica del XXI secolo.
L’atteggiamento morale che ci è richiesto dall’Antropocene, e dalla performance ambientale dei Sapiens, contiene un elemento di imprecisione, di imperfezione e di imprevedibilità. Poiché soltanto adesso le evidenze paleontologiche sulle nostre molteplici linee di derivazione (evolutionary lineages) permettono di costruire ipotesi attendibili sulla complessità e sulle lacune della identità umana, l’Antropocene può essere letto in modo nuovo, fuori da un moralismo distruttivo. Questa epoca di disintegrazione ecologica conclamata segna la nostra maturità di specie. E da questo punto di vista è senz’altro un inizio.
“Si è creduto a lungo che i Neanderthal fossero nati e avessero prosperato sul continente europeo. E tuttavia, recenti studi morfologici e genetici hanno suggerito che i Neanderthal possano aver ricevuto un contributo genetico (genetic contribution) da un gruppo non europeo ancora sconosciuto”. L’uomo di Nesher Ramla, datato tra i 140.000 e i 120.000 anni fa, potrebbe essere questo gruppo: “le analisi comprensive di tipo qualitativo e quantitativo delle ossa parietali (cranio), della mandibola e del secondo molare inferiore hanno rivelato che questo gruppo di Homo presenta una singolare combinazione di caratteristiche del Neanderthal e di qualcosa di più arcaico”. Il confronto dei resti del cranio con numerosi reperti già analizzati non produce infatti nessuna corrispondenza. I frammenti non combaciano, pur mostrando caratteristiche compatibili sia con Homo erectus (la prima specie umana a uscire dall’Africa 1.9 milioni di anni fa) sia con i Neaderthal, cugini decisamente più recenti.
I paleontologi israeliani sono dunque giunti alla conclusione che “i reperti di Nesher Ramla sono quelli degli ultimi sopravvissuti (late survivors) di un paleo-deme (NDR, antica popolazione) del Levante risalente al Medio Pleistocene, che fu molto probabilmente implicato nell’evoluzione di Homo durante la fase centrale del Pleistocene sia in Europa che in Asia orientale”. In altre parole, Hershkowitz ipotizza che l’uomo di Nesher Ramla possa essere stato un precursore dei Neanderthal stessi.
I Neanderthal appaiono in Medioriente non prima di 70mila anni fa. Ma sappiamo che anche i primi uomini anatomicamente moderni (Homo sapiens) abitavano queste regioni, in cui arrivarono 180mila anni fa. Gli israeliani ritengono che a questa convivenza debba essere aggiunto Homo Nesher Ramla.
La “relazione a 3” sarebbe testimoniata dagli utensili usati per macellare animali trovati nel sito stesso di Nesher Ramla insieme ai resti umani: “questi fossili potrebbero appartenere ad un gruppo a parte di Homo dell’Asia sud-occidentale, che precedette cronologicamente i Neanderthal di Amus, Kebara e Ein Qashish”, datati tra i 70mila e i 50mila anni fa. La “morfologia a mosaico” di questi fossili potrebbe spostare dentro la categoria tassonomica di Nesher Ramla anche altri fossili molto discussi rivenuti sempre in Israele.
Tutti apparterrebbero ad un paleo-deme “ la cui presenza dai 420mila ai 120mila anni fa circa in una ristretta area geografica si trovò in frequenti occasioni di interbreding con popolazioni di umani moderni, come ad esempio quelli della grotta di Misliya, una ipotesi avvalorata dalle tradizioni tecnologiche evidentemente condivise”. Questo scenario, a sua volta, sarebbe altamente coerente e compatibile con le prove di un precise flusso di geni tra i moderni umani, e cioè i Sapiens, e i Neanderthal tra 200mila e 400mila anni fa.
Il contesto evolutivo è quindi quello della ibridazione di più specie di esseri umani. Secondo gli israeliani, questo paleo-deme potrebbe addirittura essere la “popolazione fonte” ipotizzata nel modello “source and sink”, ossia il ripopolamento dell’Europa Occidentale durante le fasi alterne della intermittenza glaciale del Pleistocene “attraverso una serie di migrazioni successive”.
Sempre il 25 giugno THE INNOVATION annuncia la scoperta di una seconda, nuova specie, stavolta in Cina: “Late Middle Pleistocene Harbin cranium represents a new Homo species”. I ricercatori hanno ri-datato un cranio umano rivenuto nel 1933 a Harbin, nel nord est della Cina. Anche questo cranio parrebbe appartenere ad una specie completamente nuova di Homo, collocabile tra il Neanderthal e l’Erectus. Questa specie avrebbe abitato la Cina orientale circa 146mila anni fa.
“Il cranio umano di Harbin datato al Medio Pleistocene è uno dei fossili umani arcaici meglio preservati e quindi ha una grande importanza nella comprensione della diversificazione del genere Homo e della origine di Homo sapiens.
Esso rappresenta una nuova linea evolutiva umana che si è evoluta in Asia orientale e trova la sua posizione come membro del sister group (NDR, l’insieme di due o più taxa – gruppi zoologici- derivati da un antenato comune) di Homo sapiens”. La scoperta conferma la mappa sempre più variegata e polimorfa di ominidi del contesto asiatico: “questo essere umano arcaico del tardo Medio Pleistocene (oltre i 146mila anni fa) è sostanzialmente contemporaneo con alcuni altri uomini arcaici del Medio Pleistocene cinese: gli uomini di Xiahe (in media 160 mila anni fa), di Jinniushan (in media 200 mila anni fa), Dali (327-240mila anni fa) e Hualongdong (345-265 mila anni fa).
Questo intervallo temporale si sovrappone ai primi Homo sapiens originari dell’Africa e del Medioriente. Se, dunque, questi umani arcaici dell’Asia orientale appartengono davvero ad una linea evolutiva monofiletica sorella della linea evolutiva di Homo sapiens, questa linea evolutiva deve avere conosciuto un successo pari a quello delle prime popolazioni di Homo sapiens in Africa e in Medioriente. Il motivo è la loro distribuzione su di una area davvero ampia, che includeva anche alcuni ambienti estremi, ad altitudini e latitudini elevate”.
I sempre meglio documentati episodi di ibridazione tra Homo sapiens e le altre specie di Homo ormai estinte raccontano non una storia di ecocidio, ma una parabola evolutiva complessa e articolata che probabilmente ha raggiunto il suo acme e la sua maturità in Antropocene.
Benché la comunità scientifica discuta sulla precisa collocazione tassonomica dei reperti israeliani e cinesi, queste scoperte allargano le tenebre che avvolgono la nostra avventura fuori dall’Africa, ma lo fanno fornendoci in realtà un surplus di complessità genetica e geografica.
Il sostrato essenziale di queste ricerche è che “sin dal nostro ultimo antenato comune con le altre scimmie 6-8 milioni di anni fa, l’evoluzione umana ha seguito il tracciato comune alle altre specie, ossia la diversificazione in specie strettamente imparentate tra loro e alcune ibridazioni conseguenti tra queste stesse specie”.
Così come il Pleistocene garantì ai Sapiens, ai Neanderthal e agli altri occasioni di affermazione e di dispersione sempre più articolate, altrettanto oggi, in Antropocene, la nostra storia culturale è inscritta dentro la storia biologica del Pianeta, ma ora con effetti di amplificazione su scale incomparabilmente più ampie. Questa maggior intensità della co-dipendenza tra noi e il Pianeta non è solo di tipo ecologico. È di tipo culturale. L’interferenza con gli equilibri di atmosfera e biosfera ha prodotto una condizione di esistenza del tutto originale per noi Sapiens: la convivenza con gli effetti finali della costruzione di nicchia. Una sorta di entelechia aristotelica.
L’esito di tutto questo è solo superficialmente il senso di colpa per l’ecocidio. Molto più profondamente, esso è invece una eccezionale pressione adattativa di tipo psicologico e psichico. Non siamo cioè semplici spettatori, più o meno consapevoli o disperati, del disastro. Ci troviamo noi stessi sotto la spinta di driver di cambiamento ecologici su scala globale che impongono un riadattamento del nostro modo di pensare noi stessi. Un ri-adattamento “of degree”. Questa è una sfida evolutiva. E proprio per questo è una sfida autenticamente umanistica, oltre che umana.
Sono gli stessi reperti a dircelo, anche se in una lingua affatto diversa da quella della paleontologia. Una lingua che sa di politica.
Morton studiava il volume del cranio e dalle sue misurazioni traeva conclusioni sulle razze. Non era l’unico a farlo. In epoca coloniale, e negli Stati Uniti, dove la schiavitù era un sistema sociale consolidato, i ricercatori pretendevano di percepire una affinità tra la preistoria umana e lo status biologico delle razze a loro contemporanee. Fino agli anni ’30 del Novecento, le ossa di africani e nativi americani nei musei servirono questo scopo: “studiare la razza e promuovere l’eugenetica”.
È l’Antropocene a imporre sulla scena questi nuovi orizzonti fatti di colonialismo, schiavitù e brutali diseguaglianze nei diritti civili fin dentro il nostro presente. La nostra epoca chiede che sia fatta chiarezza sulle sue prime battute, sui secoli (XVIII e XIX) in cui la civiltà prese possesso di popoli ed ecosistemi per saldare insieme, in una unica prospettiva esistenziale ed economica, morale e modernità.
La maturità di Homo sapiens nel XXI secolo
È in corso un cambio di prospettiva sulla crisi di estinzione del nostro secolo. Per trent’anni il cambiamento climatico è stato il big player del tentativo di affrontare le conseguenze del capitalismo avanzato. Oggi che il capitalismo stesso è sotto scrutinio, il pericolo posto dall’estinzione della diversità biologica emerge come fattore di disintegrazione non solo della struttura ecologica degli ecosistemi, ma anche dell’esistenza degli esseri umani in un senso più antropologico. Per la prima volta, IPBES e IPCC hanno co-firmato un documento di sintesi sulla interdipendenza di clima e biodiversità: “Tackling the biodiversity crisis and climate crisis and Their Combined Social Impacts together”.
In alcuni passaggi il documento si scosta dalla narrativa corrente e cerca di riposizionare la biodiversità, per restaurare il contesto ontologico in cui pensare la crisi di estinzione. Bisogna accelerare sulla conservazione, ma soprattutto bisogna darsi obiettivi e scopi più ambiziosi. Non c’è protezione del clima senza protezione delle faune e dei biomi: “dobbiamo considerare il clima, la biodiversità e la società umana come sistemi interconnessi”.
La nostra impronta ecologica sulla specie animali non è cosa diversa dalla impronta climatica.
Nessuna riflessione sul clima può prescindere dalle valutazioni sempre più preoccupanti sugli effetti di genetica di popolazione prodotti dal mix accelerato di temperatura in aumento e perdita di habitat: “la capacità, e i limiti di capacità, delle specie di adattarsi al cambiamento climatico, la resilienza degli ecosistemi tenendo conto delle soglie-limite per i cambiamenti irreversibili e del background di perdita di biomassa e di biota già in corso, con tutti i rischi del caso associati alle specie stesse”.
Gli habitat ancora selvaggi, e anche quelli gestiti e progettati da mano umana, regolano i flussi di emissioni serra, e quindi sono fondamentali per fronteggiare il riscaldamento. Ma la tenuta di questi ecosistemi dipende dal modo in cui vegetazione e faune potranno rispondere all’alterazione degli schemi climatici su cui si sono evolute.
Ma la deforestazione si somma agli effetti sistemici indotti dal cambiamento climatico: una maggiore mortalità degli alberi e una ridotta fotosintesi. Sottoposti a stagioni secche più lunghe e più torride, gli alberi vanno in squilibrio idrico e muoiono più spesso, anche nei mesi successivi al picco di calore. Il caldo aumenta la velocità della decomposizione di tronchi e foglie, e quindi il rilascio di carbonio, che non è compensato dalla fotosintesi proprio perché la totalità della copertura arborea perde fitness. E ancora nulla di dettagliato ovviamente sappiamo su come risponderanno gli animali a tutto questo.
Sono questi gli scenari bio-climatici e i rischi su cui IPBES e IPCC hanno ricalibrato la loro posizione: “al progredire del cambiamento climatico, la distribuzione, le funzioni e le interazioni degli organismi, e quindi degli ecosistemi, vengono sempre più alterate. Gli ecosistemi e le specie con una distribuzione spaziale ridotta, quelle già vicine ai loro limiti di tolleranza, o con una limitata capacità di andare in dispersione e di fermarsi in nuovi habitat, sono particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico.
La maturità di Homo sapiens coincide con un paradosso: la conoscenza del nostro passato è ancora frammentaria. E c’è di più: abbiamo creato un rapporto nuovo con il Pianeta, ma non ne sappiamo nulla dal punto di vista esistenziale ed ontologico.
I rischi di estinzione si moltiplicano in hotspot di biodiversità circoscritti (island-like), come ad esempio le montagne, le isole, le barriere coralline e le baie costiere, o i frammenti rimasti di habitat un tempo molto estesi, oggi separati da paesaggi agricoli, da attività di acqua dolce e marina che supportano molta meno biodiversità”.
In una civiltà globale che ha già perso lo scioccante 83% della sua biomassa di mammiferi, “una notevole capacità adattativa” sarà necessaria per far fronte al futuro anche se le emissioni dovessero venire ridotte in modo consistente. Gli interventi di protezione dei prossimi anni vanno orientati sul rafforzamento della capacità adattativa degli ecosistemi ed è per questo che anche la bozza dell’accordo di Kunming della CBD si espone, finalmente, sulla questione della connettività delle aree protette per garantire il “potenziale genetico evolutivo” di piante e animali (species-rich ecosystems).
Ed ecco, allora, che torna il monito per una “profonda svolta (shift) collettiva e individuale” che porti l’umanità fuori dalle paludi della insensatezza e della indifferenza indirizzandola invece verso il proprio destino. Un destino di co-esistenza con il Pianeta non soltanto strumentale. Rispunta quindi anche la fastidiosa sensazione di non aver chiaro il chi di questa storia. Chi dovrebbe porsi questo obiettivo? E in nome di quale spinta interiore? Considerando la possibile, futura cornice giuridica internazionale, che cosa significa che stiamo facendo esperienza della maturità di Homo sapiens?
“La ricerca moderna sull’origine della moralità si rifà a molte delle prime riflessioni di Darwin su questa questione, ad esempio gli studi sul comportamento animale, che sottolineano le continuità tra la moralità umana e la società animale”. La capacità di mettersi nei panni degli altri (i rifugiati, i profughi, le specie non umane) è un “building block” della moralità umana, che dovrebbe aiutarci a considerare i benefici dell’empatia e della collaborazione su basi di giustizia condivisa.
“Gli psicologi hanno cominciato a vedere nelle concezioni morali intuitive sul male e sul bene ingredienti fondamentali del processo decisionale”, ad esempio “nella rivalutazione del ruolo giocato dalla razionalità nel giudizio morale”.
Il funzionamento delle aree cerebrali rispecchia queste valutazioni: “l’analisi neurologica per immagini mostra che il giudizio morale coinvolge un gran numero di aree del cervello, alcune estremamente antiche”.
L’espressione di comportamenti morali, che noi percepiamo come giusti e doverosi, potrebbe essere un ponte di collegamento tra “i nostri antichi circuiti neuronali e il sistema dopaminergico che presiede alla cura e all’attaccamento”. Secondo le recente teoria della “moralità-come-cooperazione” pensare in modo morale ci è servivo per risolvere i problemi posti dalla cooperazione di più individui in gruppi sociali complessi. E oggi sappiamo che la cooperazione è stato l’innesco di processi evolutivi decisivi per noi.
Dunque empatia, collaborazione e morale sono interconnessi.
Ma se siamo così come siamo per ragioni evolutive, allora è la fisiologia stessa del nostro cervello a riportarci nell’abisso temporale dentro di noi. E si configura, prendendoci per mano, come una vertigine esistenziale. Se proviamo a concepire la domanda sull’essere – cos’è il mondo che ci circonda? da dove veniamo? cosa è l’Antropocene? – ci scopriamo aggrappati al fondamento paleo-storico del tempo profondo.
È dentro di noi che sta la risposta morale alla crisi del XXI secolo.
Invertire la rotta
Poiché l’aspetto più impressionante della crisi è l’annichilimento delle specie animali selvatiche, il tentativo di rispondere a questa domanda è sempre più concentrato sull’urgenza di trovare un posto per animali e piante nella civiltà umana. Restituendo a questi viventi una dignità e dei diritti. Finora la polarizzazione tra i difensori delle specie non umane e i difensori dei diritti umani è stata acuta. Ed è prosperata sull’assunto, comune ad entrambe le parti, che non sia possibile schierarsi su uno dei due fronti senza fare torto all’altro.
In un brillante contributo sulla rivista DIALOGUES IN HUMAN GEOGRAPHY (“The nonhuman turn: Critical Reflections on alienation, entanglement and nature under capitalism”), Bram Büscher ha criticato questa impostazione, mettendone in luce una aporia sostanziale. Escludere gli esseri umani dall’inversione di rotta nei confronti dello sfruttamento del Pianeta conduce questo tipo di pensiero ad esaurirsi in una idealizzazione dei rapporti di forza tra specie priva di un solido contesto storico di riferimento.
Una critica non di poco conto, che insiste infatti sulla necessità di integrare con rigore le motivazioni morali del nostro sguardo sugli esseri viventi in una cornice storica. Nessuno dei problemi attuali può sussistere fuori dal sistema socio-economico che ha plasmato tanto gli animali quanto i popoli negli ultimi secoli.
Se cioè vediamo le specie animali come oggetti biopolitici (materia vivente da inserire in logiche di produzione industriale) è perché noi stessi, per Büscher, siamo storicamente determinati dal capitalismo globale. Anche noi umani ci troviamo insomma ai margini di tutele filosofiche e giuridiche in cui il rispetto della integrità della vita e dei diritti fondamentali dovrebbero prescindere da ogni arrivismo economico e opportunismo politico.
La domanda morale dell’Antropocene riguarda l’intensificazione dello sfruttamento biopolitico degli esseri viventi tipica del capitalismo avanzato iper-moderno. Perciò uomini e animali vi sono entrambi coinvolti.
Piuttosto che decentralizzare Homo sapiens, riconoscendone le colpe ed enfatizzando le sue somiglianze evolutive con molte altre specie, sarebbe più costruttivo intendere quanto sta accadendo come una dialettica spuria tra condizioni “more-than-human” e condizioni “less-than-human”.
La situazione umana del XXI secolo è più che umana, perché non può prescindere dal destino delle altre specie e perché l’interferenza umana con la biosfera ci obbliga ad un livello di responsabilità mai sperimentata. Ma è altrettanto vero, secondo Büscher, che ovunque nel mondo proliferano situazioni “meno che umane”. Violazioni dei diritti fondamentali, sacche di emarginazione e miseria e discriminazione sistematica di interi gruppi etnici e sociali, che sono la periferia globale dell’umanità.
Il reagente comune di questa ghettizzazione dei viventi è il capitalismo. Nella sua forma ultra-moderna: la intensificazione dei processi che generano profitti.
“È degno di nota che la svolta non-umana (nonhuman turn) sia diventata così influente durante l’ascesa del capitalismo delle piattaforme (NDR, i social media), dove le distinzioni assolute – in definitiva tra 1 e 0 – permettono all’economia politica di prosperare creando l’apparenza di relazioni vive e immanenti”. In realtà, “le forme di connessione e di relazionalità online conducono a dinamiche di oggettificazione non-umane (less-than-human) e di disumanizzazione”, a tutto vantaggio di alcuni gruppi umani il cui potere è così ampliato e rafforzato.
La questione dei diritti della biosfera si interseca dunque con la questione del capitalismo e delle sue premesse coloniali. La ricerca di una risposta morale alla crisi biologica del XXI secolo avanza là dove riconosciamo il peso storico della costruzione del sistema capitalistico nelle attuali strutture di potere e di sfruttamento di uomini e animali.
Anche la comunità umana è potentemente destabilizzata per opera di quelle stesse forze economiche e culturali che hanno trasformato la biosfera in un oggetto di consumo.
Büscher: “particolarmente importante è riconoscere in modo critico la fondamentale violenza contro i neri consumatasi nella storia (history) del capitalismo. Wilderson spinge ancora più avanti questa intuizione. Questa violenza, a suo parere, non è soltanto una componente storica del capitalismo, è costitutiva del capitalismo (it is costitutive of it). Nelle sue parole: capital was kick-started by the rape of the African continent”.
Allontanandoci dalla natura selvaggia per depotenziare il nostro impatto devastante, non ci accorgiamo che proprio la nostra parentela così stretta con le altre specie ci pone nella loro stessa posizione rispetto a meccanismi di sfruttamento che sono fuori controllo. Moltissimi di noi sono già stati alienati, ridimensionati, eliminati, esclusi.
Il discorso sulla natura e per la natura è un discorso su una violenza auto-inflitta che ha disattivato la risposta morale genetica alla sfida della cooperazione tra gruppi umani.
“È importante insistere sul fatto che questa violenza è più che contingente. Cambia forma col tempo. Faccio qui riferimento ad Achille Mbembe. Mbembe pensa che le premesse ormai storiche del capitalismo ci stanno trasportando in una condizione globale che lui definisce becoming black of the world.
Quel che intende è che ‘i rischi decisi dal sistema di cui fecero specifica esperienza gli schiavi neri durante le prime fasi del capitalismo sono ora diventate la norma per, o almeno una parte consistente, di una umanità subalterna’”.
Antropocene: l’acme della nostra storia evolutiva
L’Antropocene è l’epoca in cui gli uomini, pensando tutta la realtà, sono anche in grado di riformularla al cento per cento. Lavorando sui propri corpi e sui corpi delle altre specie. È quindi un compimento di una vocazione di specie, e anche, però, un superamento di condizioni bio-ecologiche che in quanto preesistenti a noi sono sembrate per millenni immodificabili, come la chimica dell’atmosfera.
Gli effetti collaterali di questa parabola sono sotto gli occhi di ciascuno di noi.
Sin da quando cominciammo a pensare in modo moderno, tra Descartes e la Rivoluzione Francese, due questioni hanno tormentato il nostro sonno. Fissare un metodo che rendesse la conoscenza solida e affidabile, assolutamente certa. E, in secondo luogo, scoprire come questa certezza potesse sconfiggere il limite che avvertivamo dentro di noi in quanto mortali. Per tutto il Medioevo la verità sul cosmo era stata garantita dall’idea di Dio. Ma ora, in pieno mercantilismo oceanico, mentre i fermenti sociali attizzati dai nuovi ceti sociali borghesi eccitano l’Europa e le città americane sull’Atlantico, c’è bisogno di un pensiero che travalichi la finitezza umana e osi costruire un assoluto scientifico. Kant la definì “necessità incondizionata”.
C’è appunto un passaggio della Critica della ragion pura (1781) in cui Kant sintetizza questo bisogno di una intera civiltà: “la necessità incondizionata che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana. Persino l’eternità – per quanto terribilmente sublime possa risultare nella descrizione di Haller – è ben lungi dal recare all’animo una simile impressione di vertigine. L’eternità, infatti, misura soltanto la durata delle cose, ma non le sostiene”.
Sarà Hegel a pensare che la ragione possa reggere “il sostegno ultimo di tutte le cose”, pensando il mondo attraverso la logica dialettica.
Kant e Hegel descrivevano il modo in cui la civiltà europea vedeva il mondo proprio nel momento in cui andavano affermandosi le premesse sociali ed economiche dell’Antropocene. Coscienza, riflessione, assoluto, ragione sono gli estremi concettuali con cui entrambi immaginano la supremazia dell’uomo sulla natura. E così essi si proponevano anche di definire il compito dell’uomo nel mondo e di precisarne la posizione in relazione ad ogni altro vivente.
Hegel coniò il termine Aufhebung per esprimere questa ricerca di certezza e di chiarezza sulla costituzione congenita delle facoltà intellettuali umane.
La ricchezza di questa parola, che non ha un significato univoco, illumina la frattura storica della modernità rispetto a se stessa e al resto della biosfera. Aufhebung è il superamento del finito nell’infinito, ossia l’assorbimento di ogni realtà e di ogni esperienza nella capacità concettuale umana.
È la coscienza che “vede tutto insieme”. Il mondo è “spirito” (Geist) perché i suoi elementi naturali sono tali in quanto pensati dalla coscienza assoluta. Soltanto la coscienza umana può vedere ciò di cui è fatto il mondo nella sua totalità. Ecco perché Aufhebung significa anche “porre”(aufheben): rendere visibili i diversi componenti della realtà, ciascuno per conto suo. Infine, Aufhebung vuol dire “elevare”(erheben) qualcosa, e cioè connettere, riunificare e relazionare gli elementi uno in rapporto all’altro.
Insomma, è il pensiero a costruire la struttura architettonica del mondo. Un modo più antico rispetto al nostro per dire: Antropocene.
La vertigine che sta dentro di noi è dunque questa. Un pensiero con basi biologiche sulla cui evoluzione non sappiamo ancora molto, e che però imparò ad esprimere solidarietà e cooperazione. Un pensiero che, muovendosi in una oscurità altrettanto dirompente, seppe progettarsi una propria interpretazione del mondo. Ignorando dove tutto questo avrebbe potuto portare.
Oggi la nostra posizione rispetto al Pianeta è matura. Lo è dal punto di vista ecologico e lo è dal punto di vista scientifico. Che cosa questo possa significare nell’elaborazione di una risposta alla crisi è un fronte apertissimo sulla cui indeterminatezza si gioca l’opportunità di una morale adeguata al nostro tempo.
(Alla ricerca sull’Homo di Nesher Ramla – SCIENCE, A Middle Pleistocene Homo from Nesher Ramla, 24 June 2021 – hanno partecipato anche il professor Giorgio Manzi del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università La Sapienza di Roma e il dottor Fabio Di Vincenzo ora al Museo di Storia Naturale di Firenze)
Rivedere la storia della nostra civiltà. Includere l’ecocidio, il clima e l’estinzione nella storia dei genocidi e della civiltà umana. Comprendere la storia del mondo in modo nuovo è una delle grandi sfide del sapere nel XXI secolo. Dobbiamo riscrivere la storia del mondo.
Geologia, biologia evolutiva e climatologia, letteratura e filosofia sono elementi alla pari nel curriculum Antropocene, cioè in quella sintesi di conoscenze scientifiche e umanistiche che prendono anche il nome, ormai, di “earth system science” o di “shared history”.
La storia biologica ed ecologica del nostro Pianeta è stata modificata dalla cultura di Homo sapiens, che nel corso di due milioni e mezzo di anni si è co-evoluto con il clima, le piante, gli animali e la geologia della Terra. A questa consapevolezza, che da qui in avanti segna il modo in cui la civiltà umana elaborerà la propria immaginazione e la propria inventiva, si sta facendo strada anche nei musei.
Qualcosa scricchiola nelle grandiose collezioni museali europee perché finalmente è chiaro quale è il significato ermeneutico dei tesori custoditi nei templi laici dell’Occidente. Una reinterpretazione critica di forme, simbolismi e figure è funzionale non solo a meglio capire chi siamo stati negli ultimi secoli, ma soprattutto da dove vengono le questioni più gravi sul tavolo oggi.
Una sfida alla nostra cultura
Amitav Ghosh ha spiegato così questa urgenza: “l’Antropocene rappresenta una sfida non solo per le arti e le scienze umane, ma anche per il nostro modo abituale di vedere le cose, e per la cultura contemporanea in generale. Non c’è dubbio che tale sfida nasca dalla complessità del linguaggio tecnico che utilizziamo come lente primaria sul cambiamento climatico, ma di certo deriva anche dalle pratiche e dai presupposti che guidano le arti e le scienze umane”.
“Stabilire come avviene tutto ciò, è, credo, della massima urgenza: potrebbe addirittura essere la chiave per capire perché la cultura contemporanea trovi così difficile affrontare la questione del cambiamento climatico”.
Il motivo di tale reticenza è oggi visibile: “la cultura induce desideri – di mezzi di trasporto, elettrodomestici, un certo tipo di giardini e di case – che sono fra i principali motori dell’economia basata sui combustibili fossili (…) i manufatti e le materie prime evocati da tali desideri esprimono e al tempo stesso nascondono la matrice culturale che li ha provocati”.
Basta soffermarsi sulla pagina Instagram del British Museum di Londra per rendersi conto di cosa sia questa “matrice culturale” e di come la capacità umana di inventare una bellezza astratta, mediata dal pensiero simbolico, coincida con la disponibilità biologica di soggetti, risorse e presenze.
Proprio al British Museum è stata da poco inaugurata una mostra di nuova ispirazione, che cioè impiega il manufatto artistico come galleria antropologica dentro l’esperienza che le comunità umane da sempre fanno del Pianeta: Arctic: culture and climate.
Hartwig Fischer, il direttore del British Museum, ha detto in una nota ufficiale per la stampa: “la mostraArctic: culture and climate è una mostra ambiziosa e coraggiosa, che riflette il modo in cui il British Museum sta ampliando la sua visione del mondo. Affronta infatti direttamente una questione essenziale, cioè come gli uomini passano convivere con l’impatto di un clima estremo. Il futuro e il passato convergono sul presente, uniti dalle esperienze condivise delle genti Artiche”.
La mostra è “il primo sguardo fin dentro la regione del circolo polare artico. Attraverso le conoscenze e le storie dei popoli Artici discute la questione globale di un clima in cambiamento in un mondo entrato in una fase di trasformazione”.
L’estinzione del ghiaccio artico segnerà la fine di popoli che nel più estremo dei climi hanno elaborato la propria ragione di esistere. Un esempio piuttosto semplice e diretto di come clima ed estinzione facciano parte della civiltà. Non c’è esperienza umana che non sia scritta nella biologia del Pianeta.
Quattrocentomila nativi dell’Artico, appartenenti a 40 gruppi etnici diversi, vedranno il loro mondo dissolversi nei prossimi decenni come esito finale di un intreccio di volontà, di intraprendenza e di feedback retroattivi decisi a migliaia di chilometri più a sud.
La loro familiarità estrema con il clima glaciale del Nord ci conferma non solo che il clima ha sempre fatto l’essere umano, costruendo la sua adattabilità e le sue chance di successo, ma anche che il nostro Pianeta è ormai avviato a mutare per sempre, scivolando in una epoca in cui parte della nostra storia culturale sopravviverà solo nelle discipline accademiche di antropologia, archeologia e paleo-climatologia.
La memoria culturale ereditata dell’Artico già ora è condannata a diventare un reperto. Come ha scritto Susan Nerberg nel suo lungo viaggio nella terra del permafrost in estinzione, nell’estremo nord del Canada, “stiamo perdendo il collante che tiene insieme il paesaggio”. Terra e spirito si sciolgono insieme.
Evoluzione del linguaggio e biodiversità
La cultura e persino il linguaggio sono intrinsecamente connessi con la protezione della biodiversità. E questo perché cultura e linguaggio dipendono dalla biodiversità.
Una OPINION apparsa sulla PNAS lo scorso 27 ottobre (Cultural and linguistic diversities are underappreciated pillars of biodiversity) spiega come, tra le popolazioni native rimaste (in Canada, Brasile e Australia), la ricchezza lessicale sia ricalcata sulle disponibilità di specie animali. L’esistenza degli Evenki della Siberia, ad esempio, ruota attorno alla renna.
“Ci sono almeno 71 distinti concetti endemici per la renna addomesticata e per quella selvatica. Tenendo in considerazione i dialetti e i sinonimi, questo equivale a centinaia di concetti specifici connessi alla renna. Il linguaggio degli Evenki distingue gli animali a seconda delle caratteristiche di età, colore della pelliccia, carattere e comportamento”.
Estinzione della biodiversità significa, quindi, anche estinzione di interi linguaggi probabilmente antichi di millenni.
Il “co-sviluppo concettuale” di linguaggio e relazione con l’ambiente circostante ha seguito 4 fasi principali nella storia di Homo sapiens.
L’ultima è la nostra, nel XXI secolo: “a un certo punto, nella storia umana, molta della nostra diversità culturale e linguistica si è ritrovata in stretta connessione, e in derivazione diretta, con la diversità biologica, poiché gli uomini dipendevano dal mondo naturale per la loro sopravvivenza.
La condizione ancestrale di Homo sapiens è la fase zero di questo processo:la cultura e il linguaggio sono semplici manifestazioni dell’ambiente locale”. Da qui in avanti segue tutto il resto.
“Fase 1: attraverso tutte le definite e restanti popolazioni umane la progressione del linguaggio e della cultura ha parzialmente disconnesso le componenti della diversità umana (NdA, le diverse etnie e culture) dalla diversità biologica, ma tali sviluppi non necessariamente impoveriscono qualunque componente della diversità”.
“Fase 2: può verificarsi un impoverimento culturale e linguistico, ad esempio quando, su scala locale, diverse popolazioni umane vengono surclassate da popolazioni più omogenee dal punto di vista culturale e linguistico. L’impoverimento biologico può così seguire la perdita di diversità linguistica o può anche causarla”.
“Fase 3: la disconnessione tra diversità culturale e linguistica e la diversità biologica è ormai completa e conduce alla fine ad un impoverimento di tutte e tre le componenti (NdA, lingua, cultura e biodiversità)”.
Il linguaggio, declinato nelle lingue parlate sul Pianeta, ha quindi delle “caratteristiche bio-culturali”. Ben oltre i confini delle scienze del passato, comprendere come il clima della Terra e l’estinzione delle specie animali si siano rivelati fattori adattativi per noi ci conduce ad una consapevolezza malinconia, ma solida del nostro presente. Più autentica.
Il fatto che i cambiamenti climatici siano un fattore in gioco nell’estinzione delle specie animali aggiunge una ulteriore incognita sul futuro della diversità linguistica di noi Sapiens: “la conoscenza e il linguaggio sono minacciate dal cambiamento climatico e dai cambiamenti (shift) nella distribuzione delle specie indotti dal clima, il che ci porta a questo interrogativo: come la diversità culturale e linguistica si adatterà alla realtà, quando le specie non saranno più presenti nei loro territori di oggi?”.
L’Africa gli Uffizi
Ognuno di questi capitoli della nostra shared history presuppone un riferimento diretto o indiretto al colonialismo, in senso strettamente politico.
Da secoli conosciamo il patrimonio culturale occidentale come orgoglio di una civiltà bianca. Rileggere questo canone significa mettere a soqquadro l’immagine idealizzata di noi stessi.
Anche laddove lo sguardo dell’esploratore animato dal fervore e dall’entusiasmo della propria superiorità culturale e razziale sembra non trasparire, o non esserci affatto, quella concezione delle cose del mondo permeava di sé la pittura, la scultura, la scienza.
Da questa impopolare constatazione vien fuori la mostra virtuale On Being Present – Recovering Blackness in the Uffizi Galleries, un progetto sorprendente degli Uffizi di Firenze lanciato a febbraio 2020, che scopre la presenza della gente africana nella pittura italiana del ‘500 e del ‘600.
Di questa impresa degli Uffizi per ridare voce alla comparsa dell’Africa sulla scena artistica europea discute la HKW di Berlino, all’interno del progetto Das ganze Leben, che, dall’anno scorso, si pone l’obiettivo di rinegoziare il valore e il significato delle collezioni in Antropocene, con lo scopo di superare l’ideale classico, ma non più contemporaneo, di raccolta.
Il 29 ottobre, in un talk aperto al pubblico, ne ha parlato a Berlino il direttore degli Uffizi Eike Schmidt insieme ad Angelica Pesarini e Maria Stella Rognoni, che hanno collaborato per la realizzazione di On Being Present.
È una occasione assolutamente inedita, per un museo come gli Uffizi, che tutti collegano istintivamente a Caravaggio, Botticelli e Michelangelo e che però, come ogni altro scrigno di cultura occidentale, nasconde tracce impensabili del nostro incontro con le popolazioni extra-europee.
L’effetto è straniante, in un Paese che attraversa una crisi di immigrazione senza precedenti e tuttavia ancora oggi rifiuta agli stranieri di origine africana il riconoscimento delle civiltà di appartenenza.
Come ha sottolineato Justin Randolph Thompson, direttore e co-fondatore di Black History Month Florence, il fatto che i visitatori, passeggiando per gli Uffizi, non notino gli Africani “non dipende da una lacuna nella loro rappresentazione, perché, anzi, negli spazi principali del museo ci sono almeno 20 figure africane; dipende invece dalla cornice storica e artistica entro cui continua a muoversi lo sguardo del visitatore”. C’è insomma un a priori che genera indifferenza, contribuendo a mantenere l’oscurità dell’oblio.
Ragionare su questi automatismi culturali non è più eludibile, visti gli effetti globali dell’imperialismo e del colonialismo, effetti che prendono il nome di Antropocene: “queste figure confermano la presenza del continente africano nella coscienza dei committenti di queste opere, in più artisti, nel tempo, e raccontano l’incredibile scambio culturale che era in corso mentre queste opere venivano dipinte, e intanto prendeva forma la storia ufficiale, scritta. Questa presenza è, contemporaneamente, fisica e metafisica. Entrambi gli aspetti hanno contribuito alla costruzione di una storia occidentale, con le sue inclusioni ed omissioni”, insiste Thompson.
Gli uomini africani ritratti nei quadri degli Uffizi sono il nostro presente rimosso: “La storia fissata per iscritto e continuamente tramandata e aggiornata è una forma al tempo stesso di estinzione e di perdita.
Da secoli l’Italia è una terra di immigrazione: un quinto dei cittadini stranieri in Italia ha origini africane. E tuttavia, le culture delle comunità afro-diasporiche sono come dissolte, rimanendo fuori del canone. Come, e per opera di chi, la storia può essere ri-raccontata in modo nuovo?”, si chiede la HKW.
La responsabilità europea allo Humboldt Forum
Quel che ci aspetta non è una negoziazione ottimista, ma un tipo di responsabilità globale ancora da definire, che non è ancora percolata nel sentire comune: “non c’è presenza guaritrice quando il passato ferito emerge dalla memoria culturale e dai suoi archivi. Il vuoto che ne vien fuori riempie, ma di gesti anche loro svuotati, con una violenza che supera la possibilità di una relazione”, ha scritto nel 2017 Nana Adusei Poku, Senior Academic Advisor al Center for Curatorial Studies and Contemporary Art del Bard College, New York.
E come sempre tutto questo freme e fermenta a Berlino, che il 17 dicembre prossimo inaugura lo Humboldt Forum, che promette di essere il modello di museo per eccellenza dell’Antropocene, un luogo in cui prenderà vita l’eredità ecologica della nostra civiltà.
In un unico edificio, secondo un modello scientifico e antropologico che mostra analogie, parallelismi e sincronie piuttosto che gerarchie e periodizzazioni, lo Humboldt interroga il ventunesimo secolo della nostra civiltà puntando ad una sintesi concettuale ardimentosa, ma indispensabile.
Ecco che cosa sarà lo Humboldt: Museo etnologico (dalla primavera del 2021 verranno spostate qui le collezioni dello Ethnologisches Museum, fondato nel 1873, e del Museum für Asiatische Kunst, aperto nel 1906; 20mila oggetti da Asia, Africa, Oceania e Americhe); lo Humboldt Lab, uno spazio per dibattiti scientifici con il pubblico sulla crisi globale, la democrazia e il collasso ecologico con un approccio accademico, ma multidisciplinare.
After Nature, una mostra interattiva che durerà 3 anni, e che proporrà, insieme alla ricostruzione della storia della scienza, “uno sguardo dentro i devastanti effetti che l’umanità ha avuto sugli ecosistemi del mondo, dalla perdita di specie all’emergenza climatica”; se tutto procede come previsto, nella primavera prossima una grandiosa mostra sull’avorio.
Essendo di fatto la ricostruzione del palazzo imperiale ( Berlin Schloss), lo Humboldt “occupa uno dei siti più stratificati d’Europa dal punto di vista archeologico e degli eventi spartiacque occorsi negli ultimi 800 anni”. Ma le rifrazioni cronologiche sono in realtà molto più ampie.
Il palazzo sorge di fronte al Lustgarten, dirimpetto alla Altes, che contiene le collezioni antiche (greche e romane); e dietro alla Altes c’è la Alte National Galerie, con la pittura del Settecento e dell’Ottocento e poco più in là, verso la cupola del Bode Museum, attende la fine dei restauri il Pergamo Museum, dimora eterna dell’altare di Pergamo, incarnazione dell’angoscia ellenistica di uomini-dei che combattono il caos brandendo le tenebre del potere (Herrschaft, per dirla alla Adorno).
La sensazione è dunque che l’apertura dello Humboldt segnerà il commiato e il lento addio dell’Europa alla civiltà olocenica, preparandosi (quale città migliore di Berlino?) a consegnare ad un futuro radicalmente brutale e diverso ciò che, nel bene e nel male, siamo stati, vivendo fino in fondo la condizione umana evocata da Schelling: “con l’uomo la natura apre gli occhi e osserva di esserci”. Ora siamo noi che osserviamo noi stessi attraverso ciò che abbiamo fatto alla natura.
Il pensiero della sintesi sull’Antropocene
Ogni sintesi presuppone una riconciliazione. Ed è per questo che si è scelto di dare al museo il nome dei fratelli von Humboldt: “Wilhelm era un filosofo prussiano, un pedagogista, un diplomatico e anche un linguista ( 1767-1835), che introdusse il concetto di educazione olistica.
Il modello Humboldt, come oggi viene chiamato, presupponeva che arti e scienze dovessero convivere con la ricerca, allo scopo di coltivare una conoscenza che fosse cultura nel senso più ampio”. Suo fratello Alexander (1769-1859) fu invece il celebre geografo, naturalista ed esploratore delle Americhe, anche lui convinto sostenitore di “una disciplina del sapere omnicomprensiva, che unificasse scienza e cultura”.
Alexander fu il primo scienziato a intuire una correlazione diretta tra attività umana e cambiamenti climatici. Dalla sua ispirazione prende avvio quindi anche l’ispirazione dello Humbold: “Ora, in un altro momento cruciale della storia del mondo, i loro nomi sono sinonimi (…) della importanza della natura nel nostro pensare il futuro (…) lo Humboldt Forum fa convergere le scienze, le arti e l’educazione per promuovere il dialogo tra gli esperti e il pubblico, riconoscendo che costruire collegamenti tra le discipline conduce ad una conoscenza completa, che è ciò di cui abbiamo bisogno per affrontare gli urgenti problemi del nostro mondo”.
“L’allestimento, le mostre e le discussioni pubbliche faranno comprendere a tutti che ogni cosa, in natura, così come nel sapere, è interconnesso. Questo concetto, già fortemente presente nell’arte, nella poesia, nella filosofia e nelle science del periodo romantico, è oggi ancora una volta il punto di partenza di un pensiero maturo e avanzato”.
Black Lives Matter e la pandemia hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle diseguaglianze globali ed è per questo che la sezione etnografica del museo, al netto di tutte le polemiche, sarà particolarmente importante, per Berlino e per l’Europa intera.
In Germania, il dibattito sulla opportunità dello Humboldt Forum e sul razzismo ancora ampiamente diffuso nelle nostre società compiaciute dei propri diritti democratici è già in fase avanzata, molto di più di quanto accada, purtroppo, in Italia.
Siamo tutti razzisti in Europa
In un lungo e provocatorio articolo (“Wir ewigen Rassisten – Noi, gli eterni razzisti“) DIE ZEIT non solo ricorda che il rifiuto del razzismo dovrebbe stare tra le sacre virtù dell’Unione Europea, ma rintraccia le cause di questa assenza proprio in una ipocrisia generalizzata, che è storicamente radicata nel nostro benessere materiale: “Perché la storia del razzismo è anche la storia del colonialismo e quindi della nostra ricchezza (…) In Europa la questione concreta è il superamento di due menzogne collettive che hanno per noi valore esistenziale (Lebenslügen)”.
“La prima è specificamente tedesca: visto che ci siamo messi a posto con la cultura della memoria (Erinnerungskultur) sull’Olocausto e la dittatura nazista, abbiamo fatto abbastanza per elaborare i crimini del passato; con il colonialismo non c’entravamo”.
Ma la verità, non solo per la Germania che possedeva Tanzania, Camerun, Namibia, ma per tutte le nazioni europee è un’altra, il secondo, grande fraintendimento: “le nostre conquiste tecniche e spirituali (geistgeschichlich), siano esse l’industrializzazione o l’Illuminismo, senza il saccheggio delle colonie, senza la morte e la messa in schiavitù di milioni di uomini non sarebbero state possibili. Il razzismo non è una ideologia alla maniera dei gruppi che praticano l’odio, che ci sono sempre stati da che mondo è mondo. Il razzismo si è sviluppato adeguandosi al saccheggio pianificato che avveniva nelle colonie”.
Il razzismo è “un progetto delle élite bianche del XVIII secolo, in cui biologi, medici, filosofi e teologi tentarono di consolidare la gerarchizzazione degli uomini in “superiori e inferiori” con teorie pseudo-scientifiche e morali.
E poi anche dell’emergere dell’Europa e dell’Occidente come potenza ‘civilizzatrice’. La fonte battesimale della nostra modernità, così il filosofo camerunese Achille Mbembe ha descritto una volta il commercio degli schiavi e l’economia della piantagione.
Riconoscerlo è il primo passo per andare alle fondamenta del razzismo di oggi (…) ‘l’umanità si trova nella sua massima perfezione nella razza dei bianchi… i negri sono molto più in basso’ (Die Menschheit ist in ihrer größten Vollkommenheit in der Rasse der Weißen … die Neger sind weit tiefer).
Questa è una frase di Immanuel Kant, il filosofo dell’Illuminismo, ma anche un sostenitore dell’ideologia razzista europea. Una cosa non escludeva l’altra (…) Spesso la nostra epoca viene descritta come la fine dell’Occidente. In verità ci troviamo nel pieno di ‘un lungo commiato dal dominio dei bianchi’, come ha scritto la pubblicista Charlotte Wiedemann”.
Suona quasi scontato che in questo cambio totale di prospettiva i musei abbiano un ruolo insostituibile. Sono ormai il Museo Antropocene.
Sapevo che le condizioni ambientali non sarebbero state delle più propizie, ma ho deciso di tentare ugualmente. Con un po’ in ritardo rispetto all’inizio della tradizionale stagione della semina, il 3 di giugno ho piantato 4 piante di pomodoro sul balcone, interrandole nel terriccio, non trattato con fertilizzanti o erbicidi, di una fioriera in legno lunga un metro e profonda 50 centimetri.
Vivendo al terzo piano di una via ad alto traffico su gomma, dove il boato dei motori a scoppio ha stretto alleanza con il cigolio industriale del tram, il mio balcone è letteralmente ricoperto da un pulviscolo onnipresente, nerastro, che,come ho scoperto nel corso degli anni, contiene una percentuale di particolato metallico, che si fissa sulle foglie di piante e fiori, compromettendone la fotosintesi.
Qualunque vegetale arrivi qui, settimana dopo settimana, sviluppa una sindrome da esaurimento: sulle foglie compaiono macchie bianche o gialle, che si allargano sino a inghiottire quasi tutta la clorofilla, lasciando così la pianta indifesa, cachettica, incapace di assorbire la radiazione solare. A giugno mi sentivo incoraggiata dal fatto che, stranamente, gli ortaggi hanno dato prova di riuscire a fronteggiare la sindrome da esaurimento con più energia rispetto a gerani, margherite e salvia.
Il pomodoro coltivato sul balcone mi sembrava anche una risposta guerresca, direi legittimamente altezzosa, all’imperativo di un ritorno alla normalità pre-pandemia. Il tentativo di tenere vivo il pensiero, germogliato durante il lockdown, di una vita alternativa al rumore assordante e traffico eterno che sembra essere, a Milano, la massima aspirazione civile. Le quattro piante hanno dato il massimo per un paio di mesi, crescendo con vigore e determinazione, sviluppando un fogliame denso, di un verde indubitabile.
Ventisei pomodori sono spuntati sulle cime più alte. Tutto procedeva per il meglio, quando, due settimane fa, le piante sono entrate in crisi. Macchie marroni si allargavano sotto i pomodori, compromettendone la maturazione. Le foglie sbiadivano, mordicchiate da chissà quale insetto straniero. La diagnosi è stata semplice: mancanza di calcio, marciume apicale. Serve un fertilizzante, possibilmente non sintetico. Perfetto: dove lo compro?
La risposta è fin troppo facile. In tre giorni, biologico, consegna sicura: Amazon. Una bottiglia di Pomosano a 9 euro e 90 centesimi. Nessun vivaio aperto in agosto, accessibile con i mezzi pubblici. Nessun fiorista nelle vicinanze, che avesse prodotti per l’orto urbano. Ed è stato così che, mio malgrado, mi sono trovata di nuovo ostaggio del colosso americano, del business più disinvolto che abbia messo il campo del suo esercito di opzioni, vantaggi e semplificazioni nel cervello e nel portafoglio dell’umanità intera.
Con Amazon hanno una relazione tossica (quel tipo di innamoramento a senso unico, autodistruttivo che più consuma le sue vittime più pompa di serotonina i loro neuroni) soprattutto gli indigenti occulti, e cioè quelle persone che non possono davvero scegliere come compare, o come muoversi nel fluttuante ecosistema del business on line (scialuppa dei prossimi anni ?).
Gli indigenti occulti lo devono benedire Amazon, perché il signor Bezos offre loro ipotesi di guadagno e di vie di uscita (salvare i pomodori e urlare il proprio Merde! In faccia al potere) che nessuna autorità statale o para-umanitaria sembra essere in grado di dispiegare. Chi non può scegliere ha mezze scelte a disposizione, scelte grottesche o sarcastiche, che gli danno la mezza illusione di poterla sfangare.
Ma, di fatto, i pomodori mi stavano dicendo, con la loro carenza di calcio, che un terriccio passabile non basta. Non può bastare. E non può bastare perché anche le piante e gli ortaggi, come le foreste, per prosperare, hanno bisogno di una epoca geologica favorevole. Una città asfittica è nefasta per i pomodori, ma il posto dei pomodori, si potrebbe obiettare, non è la città, e se l’intero landscape di cui siamo circondati e permeati non fosse consunto al punto da generare una crisi biologica globale, nemmeno io avrei sentito il bisogno di piantare pomodori su un balcone nero di fuliggine, roso dalla ruggine, in un appartamento in affitto, in un palazzo vetusto in classe energetica G.
Ed è così che, nella trepidante attesa che Amazon consegni il mio flacone di Pomosano al punto ritiro del Carrefour di CityLife, m’è venuta tra le mani una frase di Max Scheler: “nella plurimillenaria storia dell’umanità noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato un enigma a se stesso; in cui non sa più chi è, sapendo tuttavia di non saperlo”. Scheler scriveva questo al tempo della Prima Guerra Mondiale, un’epoca che, oggi, ci appare forte, sicura di sé, ancorché poco consapevole dei rischi micidiali impliciti nei giochi di potere imperiale tra le grandi potenze europee. É credibile che i borghesi in cappello e bastone del 1910 sapessero di non conoscersi a fondo? Non sono in grado di dirlo. Però Scheler aveva intuito il giusto asserendo che l’uomo moderno è un enigma. Non sa dove finisce l’intelligenza e dove comincia l’istinto. Si osserva compiere azioni delle cui conseguenze non gli sono chiari i confini e le implicazioni. Oggi, invece, l’enigma è stato risolto? Direi di sì.
Dai tempi felici del lockdwon in cui il rumore raccapricciante del traffico era sparito dal mio condotto uditivo, ho la sensazione di vivere in un’epoca che sa praticamente tutto di se stessa senza però sapere di sapere tutto; un’epoca che si ignora, pur guardandosi in faccia tutti i giorni. Le evidenze scientifiche del collasso biologico sono così numerose che è diventato noioso leggerne sui giornali. Ogni ricerca conferma la precedente, aggiungendo un micron di paura, orrore e devastazione al quadro generale.
Questa settimana abbiamo saputo che le microplastiche sono ormai anche nei tessuti dei nostri organi (lo studio è stato presentato mercoledì 19 agosto alla American Chemical Society). Ebbene, non ci possiamo fare nulla. Se anche la finissimo domani con la porcata della plastica, quello che è in circolo è ormai là fuori e state certi che farà il suo sporco lavoro. Non sappiamo in che cosa consisterà la sua partita con la chimica organica, ma sarà una partita inarrestabile.
Anche le estati saranno sempre più calde, pur nella fantascientifica ipotesi che da il minuto dopo aver finito di scrivere questo pezzo il mondo rinsavisca e viri verso la decresciuta energetica. Noi sappiamo tutto di ciò che dovremmo sapere per salvarci la pelle, ma non sappiamo di questa nostra conoscenza pur avendola elaborata, testata e conquistata. Saremo sempre più infelici, ma non sappiamo il perché anche se la causa della nostra infelicità è già stata diagnosticata.
E questo avviene perché la costruzione del principio di realtà non è scontata. Avere un principio di realtà non è automatico. Ciò che appare scontato nasconde insidie. Ciò su cui facciamo conto per star bene ( la “normalità”: andare al cinema, andare in palestra, prendere l’aperitivo) è un congegno economico che stupra le nostre doti cognitive sino a farle marcire.
Non siamo mai stati soli in questa disfunzione della coscienza, anzi, forse dovremmo essere più ematici e compassionevoli con i poveri disgraziati che non sanno neppure che cosa è l’estinzione delle specie animali o l’effetto serra. Di fronte all’abnorme (pranzare con un dittatore che bercia in pubblico sulla distruzione auspicabile degli ebrei, sapere che quando mangi un trancio di tonno butti più nel fegato plastica) l’essere umano può non capire un accidente, se non che si trova bene così come è.
Li persuase perché era affascinante. Ma dirlo oggi è una bestemmia (…) Adesso è facile deridere, criticare. I miei figli continuano a chiedermi come ho potuto io – come abbiamo potuto noi – sopportarlo. Ma, mio Dio, era un mondo diverso”. Tra qualche decennio, i nipoti interrogheranno i nonni su questi nostri anni e porranno domande che ora sembrano tanto impossibili quanto inopportune.
Il giorno in cui ho capito che i pomodori non ce l’avrebbero fatta senza Amazon, ho letto una amara riflessione sul ritorno alla normalità di Omar Sakr, un poeta di origine libanese naturalizzato australiano: “Il mondo è cambiato, eppure il suo peggio persiste. Ci viene ancora chiesto di riconoscere che questa è una situazione eccezionale, che richiede un cambiamento totale dei nostri comportamenti per adattarci e sopravvivere, ma soltanto per il tempo necessario a cambiare per tornare indietro, allo stile di vita che non è soltanto fatto a pezzi dalle sue stesse diseguaglianze, ma che gli esperti hanno già capito contiene imperfezioni fatali per la società umana. Quale è questa normalità a cui siamo costretti a ritornare?
Il mio normale è la vita precaria di un poeta della working-class in un paese che odia lui, la sua cultura e le sue comunità. Il mio normale sono i commenti razzisti sul mio lavoro, le minacce di morte e i professionisti dell’odio on line. Il mio normale è il corpo devastato di mia zia, il cancro del mio prozio, l’affitto insostenibile di mia madre. Il mio normale sono i cugini in carcere, assuefatti soltanto alla povertà, alla punizione e all’aggressione della polizia. Il mio normale è la vita su una terra rubata, dove le richieste autodeterminate delle Prime Nazioni e delle loro comunità cono ignorare e le loro morti in custodia continuano.
Morte è una parola passiva in questo caso. Il mio normale è il privilegio autentico di sapere in anticipo qualunque condizione sia imposta a me o alla mia famiglia, e che va peggio ai nostri parenti in Libano e in Siria, e che noi abbiamo contribuito a questo. Il mio normale e il vostro normale è una marcia senza sosta verso un clima distrutto, la liquidazione e il ridimensionamento del parere degli scienziati lungo questi decenni che abbiamo alle spalle, la mancanza di leadership e di una visione che osi immaginare qualcosa di sopportabile nella strada davanti a noi”.
Ho l’impressione che questo “sopportabile” equivalga ad una sorta di matura rassegnazione. Rassegnazione per le opzioni che non ci sono, per le vie d’uscita che non esistono e che molti di noi hanno favoleggiato durante il lockdown perché abbiamo bisogno di pensare ad una soluzione anche quando la vita ci ha detto di NO con la massima chiarezza, un miliardo di volte.
È abbastanza evidente che un vaso non può sostituire un campo aperto per delle piante di pomodoro. La normalità fa schifo, ma quasi sempre è semplicemente tutto ciò che abbiamo.