Categoria: Tracce

Gli Han e la fine della megafauna cinese

Gli Han e la fine della megafauna cinese. Una correlazione finora poco studiata. Che cosa è successo ai rinoceronti, agli elefanti, agli orsi e alle tigri della Cina orientale mentre si affermavano le dinastie di etnia Han, tra il X e il XVIII secolo? Sono stati spazzati via dalla espansione inarrestabile dalla crescente complessità sociale della raffinatissima cultura cinese. L’elaborazione culturale cinese, e non le fluttuazioni climatiche, è la causa della perdita totale di questi mammiferi nella Cina odierna.

È questa la conclusione a cui sono giunti un team di ricercatori cinesi e danesi in uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica PNAS (Long-term effects of cultural filtering on megafauna species distributions across China, by Shuqing N. Teng, Chi Xu, Licheng Teng e Jens.-Chistian Svenning).

La ricerca ha preso in esame il destino – la diminuzione progressiva degli habitat – di 5 ordini (taxa) di specie di grandi mammiferi: l’elefante asiatico, i rinoceronti, l’orso nero asiatico, l’orso marrone e le tigri.

I trend di popolazione di queste specie sono state ricostruiti attraverso l’analisi delle informazioni topografiche, storiche e geografiche dei distretti amministrativi della Cina lungo l’intero periodo studiato.

Questi dati sono poi stati confrontati con quelli provenienti dai censimenti e quindi con gli scenari demografici che si sono via affermati man mano che l’agricoltura trasformava gli habitat e gli ecosistemi. 

“Il nostro studio fornisce evidenze dirette che l’evoluzione culturale, sin dall’antichità, ha superato il cambiamento climatico nello sbozzare gli schemi di diffusione della megafauna su ampia scala”, sostengono gli autori, “confermando la forte e crescente importanza dei processi socio-culturali sulla biosfera”.

Se le specie animali sono state indispensabili per la costruzione della civiltà, è altrettanto vero che ne sono state le prime vittime. La cultura esercita cioè sulle specie animali un “effetto filtro (cultural filtering)”: decide della loro presenza, creando le condizioni per la loro estinzione locale, regionale e infine continentale. 

Questo studio conferma la crescente attenzione dell’ecologia per la storia, l’etnografia e l’antropologia. L’attuale condizione del Pianeta, infatti, è il prodotto di processi storici documentati dai sistemi di produzione delle civiltà (agricoltura e commercio) non meno che dalle idee con cui i popoli prendono possesso delle regioni in cui costruiscono la propria idea di impero.

Nella Cina orientale, a partire dall’epoca che per noi europei coincide con l’insediamento continentale del potere carolingio, gli Han si differenziano dalle altre etnie cinesi attraverso la scelta di puntare tutto sull’agricoltura estensiva.

Dal X secolo, la Cina comincia a trasformare così i propri paesaggi selvaggi in una forma di eredità naturale modellata dalla cultura, e che sarà passata alle generazioni successive in modo irreversibile. 

Da quel momento, i rinoceronti hanno subito una contrazione territoriale graduale, ma costante, fino a sparire alla metà del XX secolo; l’elefante sopravvive, ma non ad Oriente dell’immensa nazione cinese; gli orsi e le tigri sono riusciti a rimanere stabili fino alle soglie dell’Ottocento, per poi scivolare nell’oscurità perenne dell’estinzione.

Il caso della tigre è particolarmente interessante, perché le sottospecie cinesi si sono rivelate molto più sensibili degli altri taxa alle oscillazioni climatiche degli ultimi secoli. Erano meno numerose durante la cosiddetta Piccola Età Glaciale (1630-1953) e ancora oggi però sopravvivono nelle aree tropicali.

È quindi probabile, secondo gli autori, che la tigre sia scomparsa per l’imperversare di una tempesta perfetta di clima e agricoltura. Durante il periodo più freddo le attività umane potrebbero aver rallentano in intensità, a causa delle temperature più rigide.

Ma le registrazioni ufficiali degli ultimi 4 secoli di impero cinese (1400-1900) contengono testimonianze di un conflitto crescente, come accade oggi in Africa con il leone. Le tigri aggredivano più spesso i contadini e le autorità erano meglio disposte a ucciderle. 

Per gli autori l’incremento della complessità sociale in Cina fu possibile proprio grazie all’agricoltura, che divenne “il fondamento delle vite dei singoli individui e di tutta la società nel suo complesso”. E non è da sottovalutare il fatto che gli Han dimostrano una maggiore aggressività nell’uso delle risorse naturali rispetto ad altre etnie. 

Questo studio spinge in una direzione che probabilmente nel prossimo decennio acquisterà sempre più peso nel dibattito sulla protezione delle specie. Il filtro culturale deve essere inserito nel modello di analisi classico della conservazione.

E questo perché la cultura umana è la variabile imprevedibile, in continua evoluzione, che forma l’atteggiamento mentale nei confronti delle faune del Pianeta. E decreta dunque il loro diritto a morire, o sopravvivere: “Un esempio di questa questione è il declino della popolazione della tigre del Sud della Cina (Panthera tigris amoyensis), che è stato accelerato dalle campagne ‘contro le specie nocive’ degli anni ’50, che avevano come obiettivo proprio questa sottospecie.

Si può però fare un confronto con un altro esempio, e cioè la forte espansione, negli ultimi decenni, delle specie di grandi mammiferi in tutta Europa dovuta a cambiamenti socio-culturali, inclusi lo sviluppo di politiche di conservazione e della regolamentazione della caccia, l’abbandono delle terre agricole e il supporto dell’opinione pubblica”.

La solitudine della Biblioteca Nazionale Braidense

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Allo scoccare del solstizio d’estate la biblioteca Braidense di Milano diventa inagibile. Quando le temperature esterne si assestano sui 30 gradi, un caldo soffocante e tropicale attanaglia i saloni asburgici della biblioteca, solleticando la malefica colonnina di mercurio a salire, salire, salire, fino a fissarsi, imperterrita, sui 40 gradi. Ecco spiegata la condizione miserabile di questa istituzione. Ossia: la solitudine della Biblioteca Nazionale Braidense.

Con un bel cento-per-cento di umidità – ma da dove diavolo può venire l’aria stantia e umida, in un santuario che custodisce carta, pergamena e mappe geografiche? Si soffoca, in Braidense, in estate.

Soffocano i dipendenti, che stanno a boccheggiare sotto le deboli e inutili brezze dei ventilatori, e soffocano quei due, tre temerari che ancora si addentrano nel suo cuore abbandonato per prendere a prestito un saggio o un romanzo.

Vestigia antiche, pure quelle, del tempo degli addii e del declino, come definisce la nostra epoca Apolline, la giovane geniale e devota al suicidio che nel film L’ultima Ora ha capito quanto sia inutile, pure per il figlio di un ricco, puntare ad un futuro inesistente su un Pianeta al collasso. 

Questa condizione in Braidense c’è da sempre, credo, ma io ne faccio esperienza da circa sei anni e mezzo, tanti sono i cicli delle stagioni da cui ho preso a frequentare la biblioteca e la sua cronica solitudine. Già, perché la Braidense, che evidentemente non è mai stata restaurata a dovere, o coibentata, e nemmeno, questo è chiaro, dotata di moderni impianti di condizionamento, giace stremata dalle temperature di un Pianeta a 415 ppm di CO2 in atmosfera nella più sordida, stolida e becera indifferenza.

Ogni solitudine è marcata a fuoco dal sentimento che la propria dipartita sia solo una voce di bilancio per una agenzia di pompe funebri, ma la solitudine del patrimonio suona come una condanna senza appello. Non arriverà la telefonata salvifica dell’ultimo secondo.  

Non credo infatti che qui, nella celebratissima Milano dei super-ricchi che guadagnano almeno 500mila euro all’anno, sotto il giogo della tipica politica-non politica che ormai ha ridotto la vita culturale della nazione a una barzelletta, il problema della Braidense vuota e sola sia solo imputabile al Potere.

E cioè alla mancanza di volontà di rendere una istituzione di questa importanza un luogo di sapere e di incontro, vitale, tanto quanto Corso Como e la Piazza Gae Aulenti, o il quadrilatero di tavolini all’aperto di Eataly. In questi sei anni e mezzo sono andata in Braidense a qualunque orario e sempre, instancabilmente, se eravamo in quattro al banco del prestito eravamo in tanti.

In Braidense non ci va più praticamente nessuno a prender libri per legger qualcosa con sugo e costrutto, e allora non è priva di sentimento della realtà la domanda di chi si chiede perché dobbiamo pagare tasse per la sopravvivenza di un bene pubblico che pubblico, essendo disertato dai più, ha smesso di essere.

No, io credo che ce ne sia un altro di vuoto, qui. Ai cittadini milanesi, prima ancora che alla politica, non interessano i libri della Braidense. Per loro questo è un luogo spento, anzi, un luogo-non-luogo, un tempio dal quale gli dei si sono assentati epoche geologiche fa.

La Braidense in estate è il punto di collisione, o meglio, di conflagrazione, tra il nuovo assetto climatico terrestre e la sabbia che il fiume prosciugato del legame con ciò che ci ha preceduti ha lasciato dietro di sé. In altre parole, la solitudine della Braidense ben rappresenta la morte del passato. La fine della derivazione come figura culturale condivisa e collettiva: la rottura con i padri, con gli antenati, con i Lari.

La morte del passato è la cifra dominante dell’epoca dell’estinzione. Si è già detto addio al sentimento di appartenenza ad un sostrato comune, alla autorità del pensiero, della poesia e della dignità umana; non ci sentiamo più figli dell’eredità storica e biologica che si chiama evoluzione, e che ci imporrebbe, se ce ne importasse qualcosa, una preoccupazione da dichiarazione di guerra per rimediare alla distruzione del sistema climatico terrestre.

Non siamo cioè dinanzi solo ad una avanzata politica dell’incuria e del degrado. Siamo di fronte all’interruzione del legame fondativo con ciò che ci ha preceduti: i libri hanno fatto la stessa fine dei grandi primati africani, tutti, ormai, ad un passo dall’estinzione. È l’ignoranza di un presente che si pretende onnisciente. 

Siamo, del resto, lo abbiamo appreso il mese scorso, la nazione europea con il più alto tasso di analfabetismo funzionale. Il 70% degli italiani legge un testo scritto, ma non è in grado di comprenderlo.

Perciò ieri, che era il 20 luglio, anniversario a cinque decadi dello sbarco sulla Luna, Tomaso Montanari ha scritto: “La luna che vogliamo sta tutta in una fotografia scattata durante lo sgombero di Primavalle, a Roma. La foto di Rayane: che è nato in Italia da genitori marocchini (lei badante, lui venditore di cose vintage, a Porta Portese), ha undici anni e viveva in una casa occupata.

E che in quello sgombero ha perso la sua gattina, ma non i suoi libri. Che ha portato fuori con sé, sfilando davanti alla polizia della Repubblica italiana con una dignità e una carica di futuro che non si vedevano da tanto tempo, sulla scena pubblica.La luna che vogliamo è un paese con un tasso di alfabetizzazione tale da non permettere che un numero rilevante di cittadini siano convinti che quella foto è una montatura dei giornalisti di sinistra”. 

La solitudine della Braidense, del pari del Pianeta sempre più caldo e dell’estinzione della biodiversità, sono una nostra responsabilità.

E se è chiaro che viviamo ormai in un mondo di macerie, e che è con queste macerie che siamo costretti a confrontarci, rimane almeno in alcuni di noi quel colore europeo, quella Stimmung, che Friedrich Hoelderlin colse così bene sul finire del Settecento, come sempre gli accadeva, tornando con i suoi versi all’Atene dei Padri: “Ancora vive e regna e pensa l’anima / degli Ateniesi, silenziosa tra gli uomini, / se pure il saggio giardino di Platone/ non ha più verde lungo il fiume antico / e i bisognosi arano le ceneri / degli Eroi e l’uccello della notte / piange luttuoso sopra le colonne”.

Storie di libertà nelle Langhe di Fabio Balocco

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È appena uscito per Il Babi Editore un libro che, pur non avendo intenti politici, politico lo è parecchio: Lontano da Farinetti – Storie di Langhe e dintorni , scritto e immaginato da Fabio Balocco, intellettuale impegnato da sempre nelle cause ambientali (e quindi umane) e blogger per Il Fatto Quotidiano.

Il libro ricalca la verve costruttiva e polemica di Balocco, che però ha il merito, qui come altrove, di dire le cose per quello che sono. Facendo, così, politica nel senso più dignitoso della parola. E cioè dibattito critico sul presente.

Lontano da Farinetti racconta le “altre” Langhe, “lontane dal mondo di Collisioni”, il festival glamour di letteratura che, insieme alla monocoltura della vite e della nocciola, delle case dei ricchi stranieri che qui comprano terreno e sogni cinematografici alla Russell Crowe in Un’ottima annata, ha trasformato la Bassa Langa in un modello, al negativo, di monocoltura, profitto e spersonalizzazione. 

Per proporre un racconto alternativo a questo Balocco sceglie di intervistare persone che nelle Langhe hanno deciso di vivere una vita nuova, autentica, conforme alle proprie aspirazioni e soprattutto ancorata, saldamente ancorata, a qualcosa di vivo. La terra, appunto.

Con le sue asprezze, i suoi animali non addomesticati, il suo orizzonte in trasformazione, la terra è sempre lì a ricordare che un Pianeta esiste eccome.

Queste biografie sono “figure del limite”, come le definisce nell’introduzione Marco Revelli, ma proprio per questo involontari traghettatori dell’attenzione del lettore verso una etica rivoluzionaria non strillata, non esibita e quindi assolutamente pragmatica. 

Il racconto è una geografia di vicende personali tutte legate a poderi, cascine, piccole greggi, eredità di nonni e di tempi antichi. Perché molti nelle Langhe ci sono tornati, dopo aver vissuto a Torino, nella civiltà industriale, o aver sperimentato degli altrove che però nulla potevano contro il sentimento di appartenere ad una genealogia di bestie, gioie e memorie.

Il pregio del libro di Balocco è di lasciar parlare i suoi protagonisti astenendosi da ogni retorica o lettura utopica. Qui non c’è ritorno all’idillio campestre, e invece c’è una riflessione robusta, grezza, sulle conseguenze alienanti della vita contemporanea, che taglia i ponti con tutto ciò che è vitale in nome, da una parte, di uno sterile nomadismo narcisistico, e, dall’altra, di una adesione incondizionata a ciò che altri hanno scelto per noi.

Ferruccio Fresia, un uomo che pianta faggi per ripristinare i boschi di una volta, a tal proposito, riesce a sintetizzare la frattura di civiltà tra il prima e il dopo che stiamo tutti vivendo sulla nostra pelle: “Ho vissuto a Guarene fino al 1958 e quelli sono stati gli anni più belli in assoluto della mia vita, perché ho avuto la fortuna (che può essere letta anche come sfortuna) di vedere il vecchio mondo ancora in funzione”.

E questo vecchio mondo ancora funzionante è, semplicemente e in modo tuttavia rivoluzionario, il mondo della dignità della persona e del lavoro: “Tutti dovrebbero vivere di un proprio lavoro che li appassioni”, per dirla con le parole di Vittorio Delpiano, un prete esperto nel restauro dei muretti a secco.

La terra coltivata, sembra suggerire Balocco attraverso le sue interviste, è una enorme metafora delle pulsioni fondamentali che l’individuo moderno, mangiato vivo dal capitalismo avanzato, ha preferito dimenticare: questa gente delle Langhe non patisce la condanna al lavoro, la maledizione dell’inquadramento burocratico, urbano, psichico. Ciascuno di loro a suo modo vive dell’idea che si è fatto di se stesso e del mondo, che sono poi due facce della stessa medaglia. 

Per questo su tutte le figure straordinarie del libro spicca Leonardo Marengo, un giovane uomo che faceva il toilettatore professionista di cani e animali domestici a Grinzane Cavour, e che ora vive in una cascina sulle rive del Belbo.

“Ho avuto la fortuna o, meglio, ho ricevuto un dono meraviglioso da parte della vita ed è quello di aver avuto la possibilità di imparare tantissime cose dagli animali, ai quali oggi devo tutto: si può dire che mi hanno insegnato a vivere.

Ho passato tutta la vita a stretto contatto con loro, ho studiato da sempre il loro comportamento, il modo di comunicare e di interagire con me e con i loro simili, ho scoperto dei valori quali il rispetto, la lealtà, l’uguaglianza, la fiducia, la condivisione, la leggerezza e molto molto altro, ma soprattutto ho incontrato l’Amore, quello vero, incondizionato, sincero, privo di giudizio e di condizionamento”, racconta Leonardo a Fabio Balocco, provando a mettere in sequenza autobiografica una “oceanica voglia di libertà”, radicata però nella terra, nella prima alba del giorno che nasce.

Una vita senza telefono, senza amicizie inutili e di facciata, una vita con il coraggio della solitudine, che è amore per la coerenza e per la schiettezza. Proprio la forza interiore di Leonardo Marengo riesce a focalizzare i tanti temi impliciti del libro su uno che più di tutti vale la nostra crisi sociale ed economica: il diritto alla casa.

Oggi noi si è soffocati tra affitti esorbitanti e impieghi sottopagati, che mai renderanno possibile, per moltissimi di noi, l’acquisto di una casa propria. Ma una casa su cui si possa dir senza infingimenti, è mia, è un luogo dell’anima. E quindi mattone di dignità e di voglia, concreta, di impegnarsi per un mondo migliore.

Dalle Langhe degli amici di Fabio Balocco proviene dunque anche un monito a recuperare il principio di realtà sull’onnipotenza del principio di piacere: “Io sono ottimista, non fosse altro – ammette Beppe Marasso – per lo spirito di sopravvivenza che ti dovrebbe far pensare che non si può continuare su questa strada”.

Quella della crescita, delle grandi opere e dell’annichilimento della biodiversità, per intenderci. 

Scoperto a Nakwai un nuovo paleo-ominide

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(La mandibola della specie di scimmia del Vecchio Mondo, Alophia, recentemente scoperta sovrapposta ad una seconda fotografia del sito fossile dove gli scienziati stanno scavando adesso. Il fossile è datato 22 milioni di anni fa e misura 3.7 cm di lunghezza. I denti e l’osso si sono spezzati durante il processo di fossilizzazione).

E’ stata scoperta a Nakwai, in Kenya (una località tra Nairobi e Marsabit, nel nord del Paese) parte della mandibola di una nuova specie di proto-scimmia datata a 22 milioni di anni fa, nel primo Miocene, che getta nuova luce sull’origine e l’evoluzione delle antiche scimmie della super famiglia dei cercopitecidi. La ricerca che dà conto della scoperta è uscita sulla PNAS lo scorso 13 marzo .

La nuova specie battezzata dai ricercatori Alophia metios presenta i primi tratti degli sviluppi morfologici associati con l’evoluzione della dentizione dei cercopitecidi: “la scimmia di Nakwai rivela che la iniziale radiazione delle antiche scimmie fu in un primo tempo caratterizzata da una riorganizzazione della struttura morfologica fondamentale dei molari”.

La mandibola di Alophia possiede infatti degli adattamenti evolutivi nei molari compatibili con una dieta frugivora e fornisce solide evidenze all’ipotesi che la capacità di queste scimmie primitive di mangiare foglie comparve solo successivamente, a Miocene avanzato. 

Il ritrovamento ha una importanza notevole nella ricostruzione della radiazioni evolutiva dei cercopitecidi, ma anche delle prime fasi dell’albero genealogico umano e dei primati.

I cercopitecidi infatti cominciarono a separarsi dalle grandi scimmie antropomorfe, ossia i primati, circa 30 milioni di anni fa ed ebbero uno straordinario successo evolutivo che arriva sino al presente, con le 130 famiglie di cercopitechi attualmente viventi.

L’espansione geografica di queste scimmie e la varietà di habitat che occupano ha eguali solo nel nostro genere, gli Ominidi. Tutti i cercopitechi viventi si distinguono grazie ad una particolare conformazione dentale, la cosiddetta bilofondontia, ossia la presenza di due creste che si incrociano sulla superficie dei molari.

Le creste consentono di masticare diversi tipi di cibo (frutta, foglie, semi duri, radici) e quindi di adattarsi a una varietà di habitat. La bilofondontia offre un “apparato dentale” molto flessibile, che si è evoluto specializzandosi in modo da riuscire a spezzare, triturare e masticare cibi dalle proprietà meccaniche differenti. 

Alophia si colloca in una epoca intermedia rispetto ai fossili finora studiati dell’Uganda e della Tanzania, rispettivamente datati a 19 e 25 milioni di anni fa: “Questo nuovo primate di Nakwai è un membro di una variegata, ma primitiva fauna di mammiferi africani”.

Kappelman, antropologo e geologo della University of Texas ad Austin, co-autore dello studio, spiega: “gli animali che condividevano lo stesso ambiente di Alophia erano parte di una radiazione di forme che si evolse per decine e decine di milioni di anni su una isola-continente isolata, la Afro-Arabia.

I già grandi comprendevano una notevole varietà di antichi elefanti e c’era anche l’Arsinoterio, un animale che assomigliava ad un rinoceronte visto di lato, ma che aveva due corni sul muso. C’erano anche mammiferi dell’ordine degli Hyracoidei, di ogni forma e taglia.

Questi animali sono chiamati Afroteri, perché si evolsero su di un continente isolato; fu soltanto più tardi, quando l’Afro-Arabia si saldò con l’Eurasia, che gli animali che oggi consideriamo tipicamente africani – l’antilope, i leoni, le iene, i rinoceronti, le zebre – entrarono nel continente e presero ad evolversi  nella fauna che conosciamo.

Molti Afroteri, ad esempio l’Arsinoterio, si estinsero, ma non siamo in grado di dire se ciò avvenne per competizione con le nuove forme viventi o a seguito di cambiamenti climatici”. 

I denti di Alophia presentano delle somiglianze con quelli dei Victoriapitecidi, una famiglia estinta di scimmie primitive presenti nella regione al principio del Miocene che erano ancora sprovviste della doppia cresta sui molari superiori e inferiori.

“Gli studi di genetica molecolare sulle grandi scimmie moderne e sulle scimmie più piccole mostrano che si sono separate l’una dall’altra circa 30 milioni di anni fa. Le evidenze fossili di entrambi i gruppi per i successivi 12 milioni di anni sono piuttosto sparse – spiega Kappelman – e includono una manciata di reperti.

Dal momento che le scimmie fossili a partire da 18 milioni di anni fa e anche più giovani, e tutte le moderne scimmie del Vecchio Mondo hanno la bilofondontia, molti scienziati hanno ipotizzato che la bilofondontia potrebbe risalire alle primissime scimmie.

Se fosse così, l’origine di questo tratto specifico e della sua correlazione con l’inclusione delle foglie nell’alimentazione potrebbe spiegare perché le grandi scimmie e le scimmie più piccole si separarono: i grandi primati specializzati su una dieta con frutta e le scimmie su una dieta con foglie.

E tuttavia, Alophia non aveva la bilofondontia e probabilmente mangiava frutta e noci. La bilofondontia dovette evolversi successivamente. Abbiamo riscritto una storia che sembrava semplice e forse la abbiamo anche riformulata”. 

Una storia che ci riguarda da vicino. I cercopitecidi hanno infatti un lontanissimo antenato in comune con gli ominidi. Kappelman: “un modo di pensare ad Alophia è che essa sia un lontano cugino degli ominidi. Ragioniamo per analogia: gli scimpanzé e gli umani hanno un antenato comune che si colloca in qualche momento tra i 6 e gli 8 milioni di anni fa e quindi noi possiamo pensare a questi due gruppi come a due cugini.

In maniera simile, circa 22 milioni di anni fa Alophia si è separata dall’antenato che aveva in comune con gli ominidi da 8 milioni di anni, ed è diventata un cugino degli ominidi, e di conseguenza, per estensione, di noi, oggi”. 

Più si espande la conoscenza sulle origini della nostra specie, lungo linee di derivazione e di speculazioni differenti che partono dal Miocene, più siamo in grado di capire come abbiamo costruito la “nuova nicchia ecologica umana”. Ossia, l’Antropocene.

PNAS fossil monkey Fig 2
(I ricercatori in cerca di fossili a Nakwai)

Un freddo e piovoso inverno di rovine

(Berlino distrutta nell’estate del 1945)

È uscito il 31 gennaio con Iperborea Autunno tedesco di Stig Dagerman, la raccolta dei reportage che lo scrittore svedese scrisse dalla Germania del 1946 (Amburgo, Berlino, Hannover, Duesseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco, Norimberga e Darmstadt) per raccontare che cosa ne era odi milioni di tedeschi – “persone che ringraziano Dio di essere vive all’inferno” – dopo la disfatta del nazismo. Un freddo e piovoso inverno di rovine. Questo era il 1946 tedesco.

Quest’opera di giornalismo letterario non è un libro che parla solo dei mesi spaventosi del 1946 in cui era chiaro – e Dagerman ebbe il coraggio di scriverlo – che la liberazione per mano degli Alleati non segnava una nuova primavera spirituale per la Germania annientata “dall’apatia e dal cinismo”. Questo è un libro che parla della nostra Europa di oggi e lo fa attraverso un viaggio senza speranza, ma di pura constatazione, tra le macerie delle città tedesche.

Le rovine tedesche definiscono il post nazismo, e oggi l’eco di quelle rovine definisce il nostro presente europeo. Le rovine parlano della nostra relazione con la memoria, il tempo e il futuro. Parlano della guerra civile europea, dei crimini che siamo stati capaci di commettere e della strada che abbiamo scelto di intraprendere (dal Piano Marshall in avanti) per lenire i sensi di colpa, dimenticare le responsabilità e disegnare un futuro che non fosse più europeo. La domanda che in questo principio di 2018 Autunno tedesco pone è questa: esiste ancora una Europa con cui identificarsi in quanto Europei?

Bunker bui e maleodoranti

Nell’ottobre del 1946, scopre Dagerman, milioni di tedeschi sono costretti a mettersi su treni semi distrutti per lasciare il sud del Paese dove avevano trovato rifugio dai bombardamenti e tornare nelle città del nord; ma l’unica unità abitativa disponibile, poiché tutto è stato distrutto, sono le cantine.

Dagerman vive in una di queste fogne di cemento, con l’acqua alle caviglie, stufe che bruciano legna bagnata, e ne fa un mitologhema della fame, del freddo, del nulla che avvolge i tedeschi all’indomani della scoperta che tutto, dal 1933, era stato immondo e sbagliato. I colleghi della stampa accusavano lo svedese di “andare ad annusare nelle pentole” e di prestare scarsa attenzione ai proclami dei nuovi partiti socialdemocratico e cristiano democratico (CDU) sul valore della democrazia. Ma Dagerman aveva compreso che “è un ricatto analizzare l’atteggiamento politico dell’affamato senza contemporaneamente analizzare la fame”.

I tedeschi crepavano di freddo, i bambini tossivano con i buchi nei polmoni e nessuno, veramente nessuno, macilento e ossessionato dallo stomaco vuoto, aveva davvero pensieri utili a superare lo sguardo spaccato sulle rovine dei bombardamenti, sempre, ogni minuto e ogni giorno del post Reich, perché “la fame è una forma di deficienza”.

Eppure, come nella Jungle alle porte di Calais, dove finiscono i sogni coloniali e post coloniali del capitalismo avanzato che se ne è fregato del cambiamento climatico per decenni, Berlino e Amburgo si sentono dire che “la gente nelle cantine ha il dovere di ricavare insegnamenti politici dall’umidità, dalla tubercolosi, dalla mancanza di cibo, vestiti e riscaldamento”. E questo Dagerman lo scrive senza negare una virgola di quanto sostenuto da Karl Jaspers: “tutti noi siamo complici del fatto che, tra le premesse spirituali su cui poggiava la vita tedesca, era data la possibilità di un tale regime”.

Non siamo stati migliori dei tedeschi, infliggendo fame e malattie ai bambini tedeschi dopo la disfatta di Hitler. Pretendevamo di essere migliori solo perché questa presunzione ci faceva star bene. Ci dava l’illusione di essere nati con i geni giusti della bontà genetica. E invece, l’ingiusta è così umana. Non ha passaporto.

Amburgo: l’odore acre e amaro di incendi estinti

“Ma se si è alla ricerca di primati, se si vuole diventare esperti in rovine, se si desidera un campionario di ciò che una città rasa al suolo può offrire in quanto a rovine, se si vuole vedere non una città in rovina ma un paesaggio di rovine, più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso, allora c’è forse una sola città tedesca da visitare: Amburgo”.

Negli ex quartieri di Hasselbrook e Landwehr ci sono “mucchi bianchi di vasche da bagno in frantumi” e una “enorme discarica di frontoni in pezzi”. La polverizzazione della civiltà urbana è una coltre di nebbia ideologica e sentimentale che raggiunge, dentro le menti e i cuori dei tedeschi sopravvissuti, un senso di impotenza, di nullificazione, di stordimento. E’ il vuoto della responsabilità morale che urla il suo vero fondamento, Dagerman lo capisce. Fondamento primo che non sta certo nel didattico richiamo agli errori commessi, ma in un movimento ben più vasto di consapevolezza che scava fino alla complicità di ogni singolo individuo in quanto essere umano figlio della modernità.

Perché la gente delle cantine, non tutta certo, ma moltissima, era gente come noi. E allora la penosa sensazione che queste pagine strepitose danno oggi è questa: ciò che ci sfugge di quelle persone, perché non la accettiamo, è la loro totale somiglianza con noi. E in questa somiglianza sta il cuore dell’Europa che solo raramente abbiamo imparato a guardare in faccia da quel 1946.

Ad Amburgo infatti “è inutile perfino cercare i ricordi di vita umana. Solo i termosifoni si aggrappano ancora ai muri come grandi animali impauriti; per il resto tutto ciò che poteva prendere fuoco è sparito. Oggi c’è quiete, ma quando il vento soffia produce rumore nei caloriferi e tutto questo ex quartiere mortalmente silenzioso si riempie di uno strano suono martellante. Allora capita, a volte, che un calorifero si stacchi d’improvviso e cada, uccidendo qualcuno intento nella ricerca del carbone tra le viscere delle rovine. Cercare carbone, ecco una delle ragioni per cui la gente scende a Landwehr (…) i tedeschi parlano sarcasticamente delle rovine come delle uniche miniere di carbone che restano alla Germania”.

Da secoli in Europa le rovine sono testimonianza viva dei tempi antichi, capaci di trasmettere al corso del tempo le creazioni del genio umano e il suo tentativo di scalare l’infinito. Le rovine di Roma e della Grecia sono un patrimonio europeo, una carta di identità collettiva, ma oggi il vento che passa sui resti gloriosi del passato è bellicoso. Non ci riappacifica con il nostro umanismo ereditato, no. Racconta piuttosto dello scontro fratricida tra il capitale globale e una dimensione altra dell’esistenza che in molti chiamano ecologismo o ambientalismo.

Il sentimento che l’Europa ha di se stessa coincide con il lungo viaggio di Hoelderlin/Iperione sulle tracce della Grecia classica. Preservare una continuità, fare delle rovine una ricchezza eterna. Eppure, l’Europa oggi assomiglia molto di più che alla Atene di Hoelderlin, alla torta fittizia che venne offerta a Dagerman in una villa borghese, in un parco abbandonato di Amburgo: “quella torta di cattivo pane tedesco offerta dall’avvocato e dallo scrittore è in realtà una torta simbolica, una torta liberale in cui la panna finta ha lo scopo di camuffare verità troppo amare. È indubbiamente una torta per i meno poveri. I più poveri non mangiano il pane in questo modo”. Una torta che di certo non avrebbe mai potuto mangiare l’ingegnere con un phd a Cambridge di 51 anni che lo scorso autunno è morto di povertà nel Wales, Regno Unito.

Gli indesiderati

Nella Berlino “assiderata e affamata” già sono visibili gli schemi sociali ed economici della vita moderna, che prevedono scarti umani a milioni. Il silenzio dei vecchi che nei tribunali per la denazificazione non sanno giustificarsi della propria ignavia rimbomba nelle domande dei giovani: “avevamo 14 anni”, e poi “signor avvocato, permettetemi di dire che voi anziani che avete taciuto siete responsabili del nostro destino come una madre che lascia morire di fame suo figlio”.

E le ex SS che ammettono “eravamo idealisti”. Le domande di questi giovani sono identiche a quelle poste dagli attivisti che dal 1992 tentano di porre i cambiamenti climatici nell’agenda politica della megaciviltà globale. Verso contrade lontane dalla giustizia si muove l’animo umano, quando gli interessi personali, la timidezza all’azione morale e l’espansione di desideri e ambizioni diventa biopolitica. Tutto può aspettare, compresa l’atmosfera, così come allora ci si poté rifiutare di aver paura di Hitler e di Heydrich. Tanto, se stiamo sbagliando, ci penserà qualcun altro. Sarà affar suo. Noi non ci saremo più.

E mentre i genitori cercano i figli dispersi al fronte appendendo cartelli nelle stazioni sfondate dalle bombe, tutto quello che rimane della Germania è la lotta per le patate, per portarne il più possibile sul treno e poi alla famiglia, ma solo un sacco, perché se anche ne hai trovati tre sacchi, non c’è posto per tutte quelle patate nello scompartimento strapieno di profughi.

Per Dagerman tutti i poteri erano il Potere. Perciò intuii in anticipo di 60 anni il prezzo che l’Europa, attraverso la Germania, avrebbe pagato in nome della ricostruzione. Non abbiamo abbandonato affatto gli schemi biopolitici che portano alla catastrofe, al contrario. Il prezzo della ricostruzione non è stata una consapevolezza responsabile delle conseguenze delle azioni umane, ma una abiura della sondere Weg europea a totale favore del consumismo di importazione.

I tedeschi più coraggiosi provarono a dire ad alta voce come si stavano mettendo le cose, ad esempio il giurista Frizt Bauer, che fu il vero artefice della cattura di Adolf Eichman . Proprio per questo un perfetto sconosciuto nei programmi politicamente corretti di Rai Storia sulla Giornata della Memoria. Pur di non affrontare le vere dimensioni della colpa tedesca – una colpa umana e non dotata di passaporto tedesco, già commessa in Africa, Asia e America – s’è accettata l’idea che basti un frigorifero per fare una civiltà, e un giorno del ricordo collettivo per instaurare comode definizioni del bene e del male.

E così può accadere che il Goethe Institut di Milano metta in cantina i volumi delle poesie di Hoelderlin, come se l’Europa non potesse più dire nulla di se stessa se non in anglo-americano. Dagerman comprese ciò che anche Karl Jaspers comprese: “se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all’umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell’uomo in quanto uomo”.

Un profugo al Grant Museum di Bloomsbury


WInfried Sebald intuì che l’epoca moderna aveva prodotto un nuovo tipo di profugo. Ne fece un leitmotiv di tutta la sua opera, ma più che in ogni altro lavoro nel romanzo Austerlitz. Di questo si è parlato nella cornice inedita del Grant Museum, a Bloomsbury, nel cuore di Londra, in occasione dello Being Human Festival.

L’edizione 2017 della manifestazione voluta e ideata dalla UCL di Londra è stata dedicata alla condizione del profugo nella nostra Europa attuale. Il Grant Museum di Gower Street è il più antico museo di storia naturale rimasto a Londra, uno dei più preziosi d’Inghilterra, perché porta il nome del primo “padre spirituale” di Charles Darwin e perché contiene una vastissima collezione di scheletri di specie tropicali ed euroasiatiche.

Il Grant è sostanzialmente un museo di ossa, dove la “natura morta” (dead nature non meno che still nature), fondamento della tassonomia, due secoli fa, nei progetti dei grandi scienziati britannici, incarnò, la vocazione globale, insaziabilmente saccheggiatrice, dell’impresa coloniale moderna.

E’ su montagne di ossa che abbiamo conosciuto ciò che sappiamo delle faune della Terra, e quindi di noi stessi. Se dunque si è parlato di Austerlitz al Grant è perché, come spiega Meredid Puw Davies della UCL, “natural history is a key motivation in the novel”: la storia naturale è un argomento portante del libro di Sebald.

Ci sono gli esiliati dalla propria terra natale a causa di conflitti armati e guerre civili, come la gente della Siria. E ci sono anche i profughi dell’anima, che passano la vita a vagare per il mondo, spaesati e disorientati nonostante il successo personale, l’affermazione sociale e un affidabile passaporto. Di queste figure parla Sebald attraverso il protagonista di Austerlitz.

Questo tipo di persone sono segnate non solo da biografie catastrofiche, ma, molto più spesso, dal sentimento di smarrimento e di confusione che domina la nostra epoca.

Austerlitz è un architetto brillante, insegna all’università e ha uno studio a Bloomsbury. I suoi studi comprendono peregrinazioni apparentemente sconnesse per l’Europa continentale, alla ricerca di edifici dalla pianta eccentrica e onirica, bastioni militari disegnati per non essere mai sconfitti da un assedio, stazioni ferroviarie consumate dal transito di milioni di individui, cortili di case rimaste intatte nel tempo lungo della catastrofica storia europea del XX secolo.

Austerlitz vive come un profugo anche se è cresciuto in Inghilterra. La sua vita è “organizzata solo in modo provvisorio (…) nell’incapacità di fermarsi su preliminari di qualsiasi genere”. Qualunque cosa lo impegni mentalmente suscita in lui la sensazione “dell’isolamento, di non avere più terreno sotto i piedi”.

Austerlitz conduce una esistenza che assomiglia ad un reperto in un museo di storia naturale: è stata, ma in un luogo e in un tempo che non ha più cittadinanza, e che tuttavia lo determina nei suoi tessuti vitali. L’intero romanzo di Sebald può essere letto come una metafora dell’estinzione. Estinzione naturale, psicologica, affettiva.

L’analogia tra i reperti del Grant Museum e la desertificazione emotiva prodotta da un trauma sepolto nell’inconscio è potente: “nel museo ci sono anche specie dimenticate. E’ una sorta di mondo utopico, i cui protagonisti sono estinti e incapsulati nella collezione”, osserva Meredid Puw Davies, aggiungendo che “i reperti sono un simbolo del pensiero umano”.

La Davies ricorda che sono i reperti animali a mettere in movimento la decostruzione cognitiva che affligge Austerlitz all’inizio del romanzo e che in estenuanti colloqui con il narratore lo condurrà alla verità su se stesso.

Durante un soggiorno a Parigi per motivi di studio, Austerlitz visita il Museo di Medicina Veterinaria di Maisons-Alfort: “all’interno del museo, sullo scalone dalle armoniose proporzioni e nelle tre sale del primo piano, non incontrai anima viva, e tanto più inquietanti mi parvero allora, nel silenzio esaltato dallo scricchiolio del parquet sotto i miei piedi, i preparati raccolti nelle vetrine che quasi giungevano al soffitto e risalivano in genere alla fine del XVIII secolo o all’inizio del XIX: riproduzioni in gesso della dentatura dei più diversi ruminanti e roditori, calcoli renali grandi come bocce per il gioco dei birilli, e altrettanto perfettamente sferici, che erano stati trovati nei cammelli dei circhi;

un maialino vissuto solo poche ore, in sezione trasversale, i cui organi erano stati resi trasparenti mediante un processo chimico di diafanizzazione e che adesso, come un pesce degli abissi destinato a non vedere mai la luce del giorno, era lì sospeso nel liquido che lo avvolgeva; il feto azzurro pallido di un cavallo, sotto la cui pelle sottile il mercurio, iniettato nel reticolo venoso per ottenere un migliore contrasto, aveva formato sgocciolando un disegno simile ad arabeschi di ghiaccio; crani e scheletri delle più diverse creature, interi apparati intestinali in formaldeide, organi patologicamente deformati, cuori atrofici e fegati gonfi, alberi bronchiali in certi casi alti tre piedi che, nelle loro ramificazioni calcificate color ruggine, ricordavano strutture coralline;

così come, nel reparto teratologico, tutte le mostruosità possibili e immaginabili: vitelli bifronti o con due teste, un essere umano – nato a Maisons-Alfort il giorno in cui l’imperatore partì per l’esilio a Sant’Elena -, al quale le gambe erano cresciute attaccate l’una all’altra conferivano un aspetto da sirena, una pecora con dieci zampe e creature spaventose, poco più che un brandello di pelliccia, un’ala deforme o un mezzo artiglio.

Ma di gran lunga più sconvolgente fra tutte, disse Austerlitz, era la figura a grandezza naturale – che si poteva vedere in una vetrina in fondo all’ultima sala del museo – di un cavaliere, al quale l’anatomista e imbalsamatore Honoré Fragonard, giunto all’apice della sua fama nel periodo successivo alla Rivoluzione, aveva tolto con somma perizia la pelle, di modo che, nei colori del sangue coagulato, si delineava perfettamente nitido, insieme con le vene azzurre, con i tendini e i legamenti giallo ocra, ogni singolo fascio di muscoli tesi sia del cavaliere sia del cavallo”.

(Photo credit: Lilian Gergely)

La visita al museo scatena in Austerlitz una sorta di black out psicologico, ossia “il primo di quegli svenimenti, uniti alla scomparsa temporanea di ogni traccia mnestica” che la medicina degli anni ’70 ancora definiva “epilessia isterica”. Austerlitz viene ricoverato alla Salpetrière.

Lungo l’intera esistenza di Austerlitz, i reperti svolgono una funzione di intermediazione con il mondo sepolto che il giovane e poi l’uomo adulto porta nascosto dentro di sé. A quattro anni, sull’orlo dell’occupazione nazista di Praga, la madre Agàta (la famiglia era ebrea) era riuscita a farlo partire alla volta della salvezza in Inghilterra in un convoglio speciale di bambini.

Cresciuto da una coppia di rigidi pastori protestanti nel Galles, Austerlitz prende casa a Londra in Alderney Street ed è in questa casa ordinata, spoglia, la tipica casa inglese a due piani con un minuscolo giardino, che i suoi fantasmi prendono corpo, come le falene ormai secche e spente che custodisce in piccole scatole addormentate nel tempo della sua infanzia:

“Trascorso ancora un quarto d’ora, o forse una mezz’ora, al guizzo uniforme delle fiamme azzurre sul fornello a gas, Austerlitz si alzò in piedi, dichiarando che sarebbe stato senz’altro meglio se io avessi trascorso la notte sotto il suo tetto: mentre ancora parlava, già mi precedeva su per le scale conducendomi in una stanza quasi del tutto sgombra come quella al pian terreno; faceva eccezione una specie di lettino da campo, aperto e accostato alla parete, che aveva due manici alle estremità e perciò ricordava una barella.

Vicino al letto c’era una cassetta di Chateau Gruaud-Larose con uno stemma nero marchiato a fuoco e, al di sopra, nel debole chiarore di una abat-jour, c’erano un bicchiere, una caraffa d’acqua e una radio d’altri tempi nella sua cassa di bachelite marrone scuro. Austerlitz mi augurà buon riposo e si chiuse garbatamente la porta alle spalle. Io mi avvicinai alla finestra, guardai fuori Alderney Street deserta, mi voltai di nuovo verso la stanza, mi sedetti sul letto, slegai i lacci delle scarpe, riflettei su Austerlitz, che adesso sentivo muoversi nella camera lì accanto, e poi, levando ancora una volta lo sguardo, vidi nella penombra sulla mensola del camino una piccola collezione di sette scatole di bachelite diverse tra loro per forma, alte non più di due o tre pollici, ciascuna delle quali, come risultò quando le aprii in successione e le misi sotto la luce della lampada, conteneva i resti mortali di una delle tignole che, come mi aveva raccontato Austerlitz, erano giunte in quella casa alla fine della loro vita.

Ne esumai una dal suo contenitore – era un essere senza peso, color avorio, con le ali ripiegate e di una materia intessuta non si sa come – e la posai sul palmo della mano destra rivolto verso l’alto. Le zampe, raccolte sotto il tronco coperto di squamette d’argento, come nell’atto di saltare un ultimo ostacolo, erano così sottili che quasi non riuscivo a distinguerle.

Anche le antenne, che si slanciavano al di sopra dell’intero corpo, tremavano ai limiti della visibilità. Facilmente individuabili erano invece gli occhi nerissimi, un poco sporgenti dalla testa, che io studiai a lungo prima di calare di nuovo nel suo angusto sepolcro quello spirito notturno, morto probabilmente già da anni, ma non ancora sfiorato da alcun segno di decomposizione”.

Questi insetti assomigliano a dei fossili di sentimenti che non hanno più luce. Simboli, come sostiene la Davies, “della mortalità e della vulnerabilità”; sono i reperti, animali perduti, estinti, tassidermizzati, a condurre verso il passato di Austerlitz, a rendere possibile il viaggio e consistente il ricordo.


Ma la vastità del carattere di Austerlitz sta nel fatto che la sua esperienza di profugo – “non potrà mai più tornare indietro”, sottolinea la Davies – assume le tonalità universali dell’individuo di successo che è nondimeno un perenne espatriato, sconosciuto a se stesso. Questo è tratto propriamente antropocenico di Austerlitz.

Il passato è per lui una forza invasiva ed eversiva: vive uno schema di estinzione psicologica – Austerlitz non riesce a ricambiare l’amore della giovane collega Marie de Verneuil pur desiderandolo – che lo vincola, pur non impedendone i movimenti. Vaga per Londra di notte, traendone forse un conforto medicamentoso, così come vaga da un libro ad un altro, da una tazza di tè ad un’altra, da una amnesia all’altra, da un corso universitario al successivo.

Del resto, in queste passeggiate infinite, per Davies “c’è anche una affinità con la Londra di oggi, così multilingue, così multiculturale” che è anche la megalopoli della solitudine descritta puntualmente dal quotidiano The Guardian.

Il ritorno a Praga, all’infanzia nella casa dei genitori sulla Sporkova, comincia per Austerlitz con una improvvisa perdita della lingua inglese. Meredid Davies: “c’è qui una questione possibile sull’estinzione linguistica. Una lingua può tornare indietro? Il linguaggio può cambiare direzione? Nel romanzo è essenziale per recuperare una sorta di mappa che a sua volta permette di ritrovare gli oggetti che redimono”.

E infatti, nei sogni, i genitori di Austerlitz gli parlano nel “linguaggio misterioso dei sordomuti”. E di nuovo, al ritorno a Praga dalla città di Terezin dove la comunità ebraica praghese venne rinchiusa in attesa di partire per i campi di sterminio polacchi, Austerlitz piomba in un sonno lunghissimo in cui gli animali prendono per mano i suoi ricordi ora ricomposti: “continuai a vedere l’occhio di vetro dello scoiattolo e le orecchie di Agàta e Vera mentre trascinavano la slitta carica di bagagli”, perché da piccolo sempre al principio dell’inverno con Vera Austerlitz andava ad osservare gli scoiattoli raccogliere le loro provviste nel giardino di Schönborn.

(Fotografie: diapositive di reperti e fotografie storiche della collezione del Grant)