La natura archiviata nelle collezioni naturalistiche e nei depositi geofisici del Pianeta custodisce le incognite di un Pianeta in estinzione. Conservare almeno una parte della natura ci sembra perciò un dovere. Tanto quanto restaurare un quadro o una statua. Ma archiviare l’antichità è un obbligo morale?
“L’imperativo categorico di ogni civiltà attuale esige che si agisca in modo tale da consentire alle prossime culture di recuperare a loro piacimento ciò che è stato conservato oggi nello spirito e nella lettera. Se non siamo decisi ad essere potenzialmente l’antichità archiviata di una modernità lontana, siamo già coloro che non lo saranno mai”.
Questa riflessione di Peter Sloterdijk dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che gli archivi, ossia la collezione del sapere umano, è un problema aperto per il nostro secolo. Perché sentiamo il bisogno di parlarne? Siamo davvero in debito verso coloro che verranno a lasciare cataloghi e raccolte scientificamente rigorosi delle nostre imprese? Da un lato stanno, fieri, coloro che ritengono che una umanità emancipata da qualunque vincolo a parte se stessa non abbia bisogno degli archivi, che, per definizione, presuppongono criteri gerarchici tra passato e futuro. Sul fronte opposto resistono tutti coloro che, per svariati motivi, pensano invece che la crisi della nostra epoca imponga di proteggere, tramandare e conservare.
Trattenere parte del passato dovrebbe mitigare la nostra paura del futuro. Eppure, in equilibrismo tra gli opposti (lasciar andare o proteggere sotto vincolo giuridico) non c’è, come suppone Sloterdijk, un imperativo categorico, ma il dubbio che nella frenesia del secolo scorso sia rimasto impigliato qualcosa di decisivo, di cruciale, di essenziale, che non sappiamo più riconoscere. E che, di conseguenza, è bene risparmiare alla furia del tempo, in attesa di comprendere qualcosa in più. Il brivido di terrore che una simile coscienza incompleta e infelice porta con sé ha preso la forma del cambiamento climatico e, soprattutto, della sesta estinzione di massa. Se la biosfera è in estinzione, che cosa non abbiamo saputo capire di noi stessi? Di corsa, agli archivi! Potrebbe essere questo uno dei motti del XXI secolo. Forse negli archivi ci sono risposte.
Perché dobbiamo pur ammettere che l’antichità archiviata non è più solo cultura umana. Opere d’arte e genomi in via di estinzione si assomigliano sempre di più.
Anche la natura, poiché è human -reliant, è parte del patrimonio, o della condanna, passata alle generazioni a venire. Gli archivi della vita animale già estinta contengono ciò che è destinato a diventare un ricordo, un rimpianto o una atroce nostalgia.
La prospettiva stessa dell’estinzione degli organismi animali e vegetali ha un legame di parentela con gli archivi. Le collezioni naturalistiche sono state il terreno di negoziato tra una natura immaginata e una natura analizzata. I musei di storia naturale europea contemplano decine di milioni di reperti, di cui solo una microscopica percentuale è in esposizione, offerta, quindi, alla luce del Mondo a cui specie estinte o in via di estinzione non hanno più accesso. I musei di storia naturale sono gli ecosistemi artificiali delle specie estinte. Le nostre capitali europee non sono abitate solo dai cittadini del XXI secolo, ma anche dagli estinti dei biomi dei secoli e dei millenni scomparsi. Come può ciò che è già morto ri-diventare vivo per i posteri? Come possono le specie perdute assumere l’incarico già affidato alle opere d’arte?
Se poi agli animali e alle piante aggiungiamo gli oggetti artistici e votivi che compongono le cosiddette “raccolte etnografiche” il paesaggio degli estinti si allarga perché si spinge audacemente ad includere anche gli esclusi dal grande gioco della Modernità. Antenati, demoni, divinità e personificazioni teistiche dei continenti extraeuropei appartengono infatti a quelle regioni del Pianeta dove l’estinzione viene oggi denunciata con maggiore enfasi. Ma queste geografie sono anche quelle in cui la tendenza al genocidio europeo ha attecchito con maggiore intenzionalità. Eppure, la testimonianza antica di una natura pre-esistente all’estinzione (antecedente, cioè, al momento in cui gli Occidentali cominciarono a descriverla come una emergenza ambientale, dopo averla sfruttata come alleata del genocidio) è soffocata in una rappresentazione dell’estinto confinata al XX secolo. Il declino dei mammiferi sembra concepibile soltanto nella sfera cronologica del tempo recente, quando, dopo il secondo dopo guerra, la “natura” prende il sembiante di un paradiso rimasto a decorare il dilagare di una umanità consegnata soltanto a se stessa. L’estinzione emerge come problema ecologico quando le specie animali e i loro habitat sono ormai trasformati in una suppellettile del capitalismo moderno. Anche gli ecosistemi sono dunque archivi. La Convenzione Mondiale per il Clima chiamò questo nuovo genere di collettori di viventi “sink”: enormi bacini geografici di raccolta del carbonio stoccato nelle foreste tropicali e boreali.
Gli archivi naturalistici non rappresentano i nostri doveri verso la biosfera. Sono una antichità archiviata, ma non risolta dentro categorie morali transgenerazionali. Non potrebbero farlo per il semplice motivo che sono già, nella loro intima costituzione, un modo per negoziare il ritiro degli esseri umani dal Pianeta. Nelle ingenti collezioni di semi e fossili, di animali tassidermizzati, essicati o conservati sotto alcool, degli erbari di piante estinte c’è l’intenzione di fare della storia evolutiva degli esseri umani qualcosa di unico e di speciale, di separato e di distinto. Nel distacco della catalogazione regna il sentimento, ancora per poco segnato dalla tempesta delle emozioni, che l’estinzione delle specie animali sia accettabile e concordata. Gli archivi, in altre parole, hanno funzionato come un filtro per assorbire la sesta estinzione, rendendola cronaca abituale di luoghi politicamente ed esistenzialmente neutri: i musei. È così che il discorso scientifico moderno ha infine prodotto la sensazione (perché è solo una sensazione) che si possa abitare il Pianeta come “weltloses Dasein”, come presenza-senza-mondo.
Gli archivi si espandono nella ricerca genetica, che oggi è in grado di lasciarci costruire ipotesi sui Neanderthal (se non parlavano, perché non avevano la facoltà del linguaggio, avevano una anima?) tanto quanto di permetterci di scrutare e frugare nello RNA di una specie estinta, per scopi che non riusciamo ancora ad identificare o confessare chiaramente. La seduzione dell’archivio del passato estinto è molto più potente di qualunque progetto: promana dalla possibilità di sottrarre al Nulla parte del fenomeno biologico. Per questo gli archivi sono anche una forma iper-mediata di sublimazione del terrore per la morte. È questo Nulla che spinge a prenderci cura dei resti degli animali estinti. Gli archivi delle loro cellule e dei loro tessuti si stagliano non come monito del disastro incombente (una specie può estinguersi in un battito di ciglia), ma come presenze enigmatiche della maturità di Homo sapiens, che vive il proprio trauma ecologico a dispetto di se stesso.
Una storia di questo tipo la racconta una tigre della Tasmania (Thylacinus cynocephalus) che riposa nella fredda e protestante Stoccolma dal 1891.
Per la prima volta un gruppo di ricercatori è riuscito a sequenziare l’RNA di questa specie originaria della Tasmania estinta nel Novecento. I campioni di muscoli e i tessuti utilizzati appartengono ad un esemplare conservato a temperatura ambiente nel museo di storia naturale della capitale svedese dal 1891.

Gli autori della ricerca (unica nel suo genere) sottolineano giustamente l’importanza del tilacino da un punto di vista evolutivo, perché la sua linea di derivazione filogenetica retro-illumina gli aspetti più cupi della sua storia di estinzione in tempi moderni.
“I tilacini erano i più grandi marsupiali carnivori dell’Olocene, gli unici sopravvissuti della famiglia dei Thylacinidi giunti sino all’età moderna. Erano marsupiali in cima alla catena alimentare (carnivori di vertice) una volta diffusi in tutta la regione australiana, ma alla fine confinati in una sola, isolata popolazione sull’isola della Tasmania attorno a 3000 anni fa”. Fino a un certo punto, quindi, la rarefazione della specie è stata una conseguenza di fattori evolutivi e ambientali, per poi diventare, all’inizio del XX secolo, una storia di colonialismo ed estinzione antropogenica.

“Al principio del ‘900 c’erano ancora tilacini allo stato selvaggio, ma i colonizzatori Europei consideravano l’animale una sciagura per l’agricoltura e lo presero di mira sino alla sua completa estinzione. L’ultimo tilacino morì in cattività nel 1936, allo Beaumaris Zoo di Hobart, Tasmania. I tilacini sono particolarmente importanti perché sono un esempio perfetto di estinzione causata dall’uomo, ma anche un caso evidente di convergenza evolutiva. Benché si siano infatti separati dai carnivori mammiferi placentati attorno ai 160 milioni di anni fa, mostrano notevoli somiglianze fenotipiche con specie ancora viventi della famiglia dei Canidi. Questo spiega molto bene come specie che hanno relazioni evolutive distinte possano però trovarsi in condizioni di pressioni selettive analoghe, evolvendo adattamenti condivisi”.
Se avessimo compreso meglio il tilacino, avremmo meglio capito anche altre specie di Canidi, la famiglia a cui appartengono anche i lupi usciti con noi dal Pleistocene. L’estinzione è una opportunità mancata, perché è una condanna all’oblio sulla storia evolutiva condivisa dei mammiferi e dei loro habitat.
La novità sorprendente di questa ricerca è che i genetisti hanno lavorato sullo RNA, aprendo una porta finora chiusa sui meccanismi di costruzione delle proteine di una specie non più viva. “La quantità di RNA, e la quantità ricavabile, che sono stati ottenuti è davvero scioccante, a quanto riporta SCIENCE NEWS, poiché finora eravamo certi che l’RNA si deteriora in una manciata di giorni se non è tenuto al freddo e quindi protetto dagli enzimi che ne degradano la struttura”.
Secondo Emilio Mármol Sánchez, del Dipartimento di Bioscienze Molecolari (Department of Molecular Biosciences, The Wenner-Gren Institute, Science for Life Laboratory) all’Università di Stoccolma, e autore principale dello studio, lavorare sull’RNA apre una visuale decisamente più ampia sull’estinzione nel regno animale.“Penso dovremmo spostarci da una visione focalizzata sul solo DNA ad un approccio che includa i processi di trascrizione delle proteine (transcriptional and proteomic approach), per poi includere l’intero olobioma di un organismo, di cui fanno parte anche i batteri, i virus e i funghi che convivono con lui. Ognuna di queste componenti biologiche è minacciata, se il suo ospite è in estinzione”.
Per gli RNA servono campioni i tessuti che formano i muscoli e gli organi di un animale. È qui che entrato in scena, negli archivi genetici, i reperti conservati nei depositi dei musei.
“Il nostro lavoro è fondamentalmente centrato sulle specie estinte, ma non c’è dubbio che abbia implicazioni e connessioni più vaste, perché consiste nel recuperare dati biologici considerati perduti per sempre o impossibili da ottenere. Oggi, uno dei messaggi più importanti della ricerca su materiali genetici è che noi genetisti siamo chiamati ad allargare la nostra prospettiva sul tipo di dati che ci interessa acquisire. Di solito siamo concentrati sul sequenziare genomi completi. Eppure, questa è solo una piccola parte delle informazioni biologiche contenute negli organismi viventi. Ancora più importante è avere una visione più complessiva della variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni di una specie. Una lettura completa della biologia di una specie deve includere anche l’RNA, proprio perché il DNA contiene il codice per generare gli RNA e quindi le proteine. L’RNA delle specie ancora esistenti, ma in pericolo, è una fonte di conoscenza molto preziosa di cui ci stiamo occupando troppo poco. Scoperte come questa ci dovrebbero ricordare che una specie perduta significa una quantità enorme di conoscenza scomparsa per sempre”.
Questa conoscenza è anche nel permafrost, che protegge i resti di organismi immobili nel tempo. Il fatto che il permafrost, come archivio di forme di vita estinte (i mammut e i leoni delle caverne, ad esempio), acquisisca un significato antropocenico trova la sua ragione nel sentimento di disperazione e perdita che le popolazioni dell’Artico (come gli Inuit del Canada) avvertono al suo scomparire (“a melting way of life”). L’estinzione del Pianeta ereditato dall’Olocene è materia di indagine scientifica proprio perché è fonte di dolore. Quindi l’antichità climatica e biologica archiviata, l’antichità degli ultimi 10mila anni, è fatta anche della sofferenza dei suoi ultimi abitanti. Il tempo stoccato nei depositi, nelle collezioni e nei cataloghi non è solo Mondo accaduto, è anche il sentimento che di quel Mondo hanno accumulato generazioni e generazioni di uomini e di donne.
Al nostro ingresso in Antropocene le atmosfere del passato ci appaiono più coerenti dal punto di vista scientifico, ma non per questo possono cancellare, è la storia della tigre della Tasmania a Stoccolma, la sensazione che noi Occidentali non siamo stati pienamente capaci di amministrare la nostra presenza ecologica sul Pianeta.
Un particolare fascino hanno certamente gli archivi degli esseri umani, ossia delle specie di ominini estinti con cui Homo sapiens condivise il Pianeta fino a 40mila anni fa. L’anno scorso il Premio Nobel a Svante Paabo ha confermato che gli archivi umani sono uno dei deposti delle malinconia dell’Antropocene. In questo campo le scoperte si susseguono. E sono tanto più sensazionali quanto più accrescono l’incertezza sulle nostre origini. La paura mista a fascinazione suscitata da questi ritrovamenti, che si trasforma in titolo da prima pagina, proviene dalla contraddittorietà della situazione paleo-archeologica rispetto, invece, al nostro presente ecologico. Eravamo in molti, siamo rimasti soltanto noi. E se consideriamo la diversità biologica ereditata, l’opera di sfoltimento avanza in una lugubre incoscienza. La nostra specie ha estinto buona parte del suo Pianeta senza neppure essere sicura della propria eredità evolutiva.
Il dibattito sull’emergere di Homo sapiens è fervido di posizioni contrapposte. Non tutti ritengono che le vestigia umane emerse a Jeben Irhoud in Marocco nei primi anni duemila appartengano ad una forma ancora arcaica di Homo sapiens (250mila anni fa). Il 21 settembre 2023 sono stati pubblicati su NATURE i risultati di una ricerca condotta da un team della università di Liverpool in prossimità delle cascate di Kalambo, in Zambia, sul confine con la Tanzania, che aggiungono ulteriori dubbi, fertilizzando però la discussione con elementi dirompenti. A Kalambo sono emersi dal tempo profondo i resti di una struttura rudimentale, che potrebbero documentare “il primissimo uso del legno attorno a 476mila anni fa”, in un modo che ricorda sufficientemente l’abilità manuale e ideativa dei Sapiens. I paleo-archeologi hanno riportato alla luce anche strumenti in legno: un tronco tagliato, un bastone per scavare nel terreno e un ramo dentellato. “Una diversità di forme inaspettata, che indica la capacità di pensare al tronco degli alberi per ricavarne combinazioni di strutture”, e spinge dunque a “riesaminare l’uso degli alberi nella storia della tecnologia”.
Nella stessa settimana è uscito un secondo articolo su NATURE (“A new human species? Mistery surround 300.000-years-old fossil”) a proposito di quella che potrebbe essere una nuova specie di essere umano arcaico in Asia. I resti emersi in Cina presentano caratteristiche simili a quelli di Jeben Irhoud, ma di certo non sembra appartenere ai Denisova, la specie di ominini insediata sui Monti Altaj, in Siberia, attorno a 160mila anni fa.
Le stratigrafie paleontologiche trattenute dalla Terra sono per noi il limite contro cui pensare il nostro dominio incontrastato sul Pianeta. Questa soglia-limite corrisponde al nostro passato evolutivo, che ci consegna senza condizioni ad essere una specie tra altre specie. Abbiamo lottato e combattuto contro questa condizione ancestrale, per garantirci una nicchia ecologica confortevole. Non ci siamo riusciti. La barriera del Sistema Terra è dentro di noi. Nessun imperativo categorico ci costringe a prenderci cura di ciò che troveranno le prossime generazioni. E, in fondo, la “zona grigia” evocata da Slotedijk per descrivere la nostra epoca di rassegnazione e indifferenza consiste forse in questo, che, per ora, siamo come paralizzati dinanzi agli archivi senza saper ancora bene che cosa possano offrirci per capire quale debba essere il nostro futuro ecologico.
(Foto: Credits dr Emilio Mármol Sánchez e il suo team).
Rispondi