Il sentimento dell’emergenza

La mancanza del sentimento dell'emergenza segnala la crisi della coscienza storica occidentale.
(Una gigantografia pubblicitaria di Jennifer Lawrence nel film “Don’t Look Up!”. Chi nega l’emergenza sanitaria ed ecologica soffre di una impressionante mancanza di coscienza storica. Questo è il tratto culturale che accomuna negazionisti naturisti, capitalisti ed edonisti)
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Non riusciamo più a provare il sentimento dell’emergenza. Da questo vuoto si sprigiona il rancore per le misure necessarie a mitigare l’epidemia. È il negazionismo dell’emergenza. Una paresi emotiva. E da questa pericolosa lacuna nel pensiero emerge la disaffezione a cambiamenti rivoluzionari, a prese di posizione radicali, a rivolte della coscienza e dello spirito contro il dissesto ecologico del nostro secolo.

Le rivoluzioni sono sempre uno stato di emergenza. Quanto meno perché sovvertono le condizioni materiali di sopravvivenza di tutti coloro che vi sono coinvolti. Ai pensatori spetta di pensarla, e di progettarla, la rivoluzione. Ma i comuni mortali, i cittadini, gli uomini e le donne di ogni giorno e di nessun giorno l’eradicazione dell’ordine costituito lo subiscono a prescindere da qualsiasi volontà. In questo sta la capacità ipnotica di ogni rivoluzione: la sua inesorabilità, la sua indipendenza, la sua autonomia. Come un meccanismo che, una volta avviato, procede da sé. Naturalmente la statura solitaria della rivoluzione ne fa anche il fascino. Osserviamo le grandi rivoluzioni della nostra modernità ( il 1789 e il 1917) con la remissività incantata della vittima di una seduzione ben riuscita. L’orrore viene dopo, se arriva. Una rivoluzione è, in grande stile, il Merde! che il generale di Napoleone oppone alle ragioni del vecchio potere aristocratico Ancien Regime ne I Miserabili di Victor Hugo. 

Ogni rivoluzione è stata anticipata, anche di decenni, da uno stato di emergenza sottovalutato, taciuto o negato. Per questo il collasso nella disponibilità di benessere materiale e spirituale assume i connotati di uno stato emergenziale cronico, che però ha già in sé i germi della detonazione. Per quasi tutto il XX secolo, tuttavia, il disinteresse nel riconoscere l’emergenza è stato appannaggio di classi dirigenti arroccate sul proprio potere in nome soprattutto di ideologie aristocratiche. Anche la difesa ad oltranza del proprio censo, dietro cui si trincerò la borghesia colta tedesca negli ultimi anni della Repubblica di Weimar, o l’ottusità del potere sovietico, sono una forma di aristocrazia timocratica. Alle masse spettava il compito, e la frustrazione, di sapere in anticipo quale sarebbe stato l’esito finale di una emergenza prolungata sino al punto di rottura. La gente semplice e comune, in altre parole, anche quando non poteva farci un accidenti, sapeva benissimo di vivere in condizioni di emergenza. 

Anche se nessuno poteva scrivere sul calendario la data esatta dell’esplosione, che lo scoppio dei tumulti contro la sordità del potere ci sarebbe stato era una certezza. Si aspettava la fine certi che la fine era ormai inevitabile. Oggi, invece, questa coscienza della massa nei confronti dell’urgenza del presente è disattivata.

La rivoluzione e l’epifania dell’emergenza

Nella notte tra il 3 e il 4 marzo 1917, la notte dell’abdicazione dello zar Nicola II Romanov, ecco che cosa accadeva nella cittadina di Efremov, nella provincia russa di Tula: “Era l’una di notte, un’ora in cui Efremov di solito è addormentata. D’improvviso, a quell’ora strana, risuonò un breve e rimbombante rintocco di campana dalla cattedrale. Poi un secondo, e un terzo. Lo scampanio accelerò, propagandosi per tutta la città, e ben presto cominciarono a suonare le campane di tutte le chiese dei dintorni”. 

Che cos’ha di così eccezionale questa testimonianza insabbiata nei tomi di storia del Novecento? Nella notte che segna la fine della dinastia dei Romanov dopo 300 anni di dominio assoluto (1613-1917) su milioni di vite umane, si diffonde nella tenebra il suono delle campane. Evento che ha del prodigioso. Rintocchi fatali di un avvenimento sperato per decenni. Un annuncio, una annunciazione. Quel che dovrebbe colpire noi Moderni è la qualità numinosa di questo avvenimento. I contadini di Efremov attraversarono la notizia della caduta di Nicola II come fosse una scarica di fucile. L’evento di rottura arriva impetuoso e nessuno lo ignora perché tutti sanno che sarebbe arrivato. È una sorta di avvento del Messia, sotto i panni della storia umana che ricomincia a girare impetuosa. 

Noi abbiamo perso una simile capacità di accordarci con l’accadere degli eventi speciali. È per questo che il marzo del 2020 ci ha colti impreparati ed è per questo che in molti continuano a provare imbarazzo o rabbia verso le misure di contenimento dell’epidemia che i governi intentano con goffaggine e scarsa prontezza. 

Non ci siamo accorti che l’epidemia è solo un sintomo di una emergenza molto più vasta.

A noi manca il sentimento dell’emergenza. Se sai che vivi in tempi di estrema carestia ecologica e spirituale, non sei sorpreso dei correttivi proposti per provare ad arginare l’eccezionalità della situazione. Ma non è questa la condizione occidentale di questo 2022.

La passione per il reale

Nel novembre del 1915, il grande scrittore Maksim Gor’kij scriveva da Pietroburgo alla ex moglie: “Ben presto saremo in piena carestia (…) Che cosa è mai capitato al XX secolo! Che cosa è capitato alla civiltà!”. 

Angoscia da parafrasare in questo nostro oggi. Che cosa mai ci è accaduto nel XX secolo per vivere l’inizio del XXI secolo con  una maschera sulla faccia? All’inizio degli anni Duemila il filosofo marxista Alain Badiou si chiedeva che cosa avesse caratterizzato il Novecento tanto da farne il secolo dei genocidi (nazisti, sovietici, coloniali) e del trionfo, infine, del capitalismo rampante. Capire il peso di queste domande significa muoversi ben oltre la lettura dei fatti storici.

Significa capire la forma del presente. “Resta comunque possibile, a chi scavalchi freddamente questo secolo breve nel suo furore mortifero trasformandolo o in memoria, o in commemorazione contrita, pesare storicamente la nostra epoca a partire dal suo risultato”, spiega Badiou.

“Il XX secolo finirebbe così per diventare il secolo del trionfo del capitalismo e del mercato mondiale. La felice correlazione tra Mercato senza frontiere e Democrazia senza confini finirebbe, sotterrando le patologie del volere scatenato, per affermare il senso del secolo come una pacificazione o come la saggezza della mediocrità”.

Questa pacificazione null’altro sarebbe se non l’essiccazione della rivoluzione come pensiero per risolvere una emergenza non più rimandabile. Una atto del pensiero, prima ancora che una insurrezione a mano armata.

Quel che segna l’anima degli Europei del Novecento è infatti soprattutto la tensione psicologica tra i due poli essenziali dell’esperienza umana: agire o non agire? È meglio aspettare che le condizioni  storiche oggettive facciano il proprio corso oppure forzare la mano agli eventi e impugnare il timone della Storia? La volontà soggettiva, alla fine, segna la coscienza rivoluzionaria del Novecento, nelle grandi dittature e nei giganteschi movimenti di massa. È la terrificante, eppure attualissima, lezione di Lenin: se non c’è la borghesia, mettere il partito davanti alla società civile. La volontà soggettiva contro le condizioni oggettive. L’emergenza, con tutta la sua irruenza e aggressività materiale, davanti alla titubanza, al negoziato, alla reticenza.

Questo è il cuore dello spirito rivoluzionario del secolo scorso. Un chiarissimo sentimento dell’emergenza che diventa, l’espressione è di Badiou, “passione per il reale”. Orlando Figes ha scritto infatti: “questo era, più di ogni altra cosa, ciò che Lenin aveva saputo offrire: l’idea che qualcosa si potesse fare”. Eppure la realtà, da sola, non basta a motivare l’ardente desiderio di entrarci per intero nelle cose del mondo. 

Gli ultimi venti anni del Novecento non hanno ereditato la passione per il reale. Sono anzi scivolati in una apatia collettiva che ha lentamente disattivato il sentimento dell’emergenza fino alla normalizzazione dello stato di eccezione. La pandemia ci ha colti in questo stato d’animo.

L’emergenza prima del Covid

Era l’11 dicembre 2018 quando il sindaco di Londra, Sadiq Khan, incalzato dal neo movimento ecologista Extinction Rebellion dichiarava l’emergenza climatica per la sua città. Sin dall’inizio il gruppo, allora diretto da Roger Hallam, poi estromesso per presunto estremismo, incitava il governo a “dire la verità” dal momento che “fronteggiamo una emergenza globale senza precedenti”. 

A partire dal 2018, quindi, la parola emergenza entra nel lessico usuale degli attivisti, erroneamente convinti che ripeterla all’infinito susciti indignazione e orrore. Di fatto, evocare l’emergenza climatica e biologica è stato solo un atto liberatorio. Un coming-out della vecchia guardia di ecologisti ormai cinquantenni, che fanno i conti con un fallimento storico epocale. La parola “estinzione” prendeva tristemente posto accanto al cambiamento climatico. Nulla di più. I motori di ricerca di tutto il mondo continuano ad associare l’estinzione ai dinosauri del Cretaceo. Essenzialmente, questo è avvenuto perché il concetto biologico di sesta estinzione di massa non è stato assorbito nel concetto storico di rivoluzione. La logica moderna non ha associato la minaccia estrema alla sopravvivenza della vita sul Pianeta alla comprensione ed alla valutazione storica dell’epoca. 

Un secolo fa, una emergenza come quella che viviamo ogni giorno avrebbe acceso la voglia di rivoluzione. 

Poi, però, è arrivato il Covid. E l’emergenza è balzata fuori dalle stagnanti paludi della felicità consumistica per scuotere in un sol colpo la ragione occidentale. Mentre la zoonosi dilagava dagli aeroporti internazionali alle capitali europee la coscienza storica delle persone andava in black out. Chi non ha mai saputo di vivere in uno stato di emergenza, si è trovato scoperto e inerme dinanzi alla brutalità delle misure di contenimento dell’infezione.

Ed erano la maggioranza.

Per coloro che non avevano la più pallida idea dello stato di prostrazione della biosfera accettare la chiusura improvvisa di tutte le attività economiche e ricreative è suonato come un affronto. Durante il primo anno dell’epidemia furono soprattutto le persone che non avevano mai letto un rigo di cronaca ambientale a scaricare dosi massicce di stupore ebete su giornali e social media, dichiarandosi stupefatti dall’evento cinese. 

Poi l’anno scorso un comportamento analogo ha travolto la disponibilità di un vaccino. Trovato un nemico partorito in emergenza da una condizione di emergenza, la rabbia sociale ha intrapreso una battaglia contro la farmacologia del XXI secolo. Anarchici, naturisti, edonisti, consumisti si sono scoperti forse per la prima volta a condividere la stessa opposizione viscerale alla gestione emergenziale di una malattia nuova all’umanità intera. 

Il negazionismo dell’emergenza sanitaria ed ecologica

Ognuno di questi gruppi di pressione, con un un suo uditorio politico, è espressione di un collasso del consenso consapevole. La società civile, nelle sue mille venature ed articolazioni, cova infatti al suo interno il problema gigantesco del consenso sullo stato della realtà. È una questione che il pensiero ecologista dibatte da almeno 30 anni. Riassumiamola così: la maggior parte delle persone non sa in che epoca vive. E, di conseguenza, ignora che l’impronta ecologica umana sulle specie animali e sull’atmosfera è già in una fase critica. Chi non è in grado di comprendere i tratti salienti del proprio tempo, non può che rimanere vittima di angoscia e rabbia quando gli si chiede di adeguarsi a provvedimenti straordinari di salute pubblica. 

E questo vale dal punto di vista politico.

Ma guardiamo che cosa la mancata percezione dell’emergenza significa sotto il profilo psicologico e simbolico. 

L’ideologia negazionista e il nichilismo

Siamo di fronte ad una deriva nichilista. Da un lato coloro che misconoscono l’emergenza mostrano di ignorare a quale punto di distruzione l’azione umana ha portato se stessa. D’altro canto, però, costoro non sanno neppure che il loro stesso atteggiamento di rifiuto delle cure, delle limitazioni e del pensiero attuale è il frutto della generale temperie nichilista dell’umanità moderna. Come scrisse Heidegger nel 1943, all’interno del suo magistrale corso Il nichilismo europeo, comprendere concettualmente significa “esperire consapevolmente nella sua essenza ciò che si è nominato e quindi riconoscere in quale attimo della storia occulta dell’Occidente noi stiamo”. 

Lungi dall’essere esclusivamente un ragionamento filosofico, questa è una considerazione storica. La “storia occulta dell’Occidente” è la storia della cultura europea che ha dato al mondo e a noi stessi la forma che abbiamo oggi. L’affermazione di un pensiero nichilista, dunque, è il percorso secolare compiuto dalla nostra civiltà per imparare ad usare il mondo in un certo modo. I nichilisti, irretiti dal disfattismo ideologico da fine del mondo,  dalla seduzione della catastrofe catartica, oppure convinti assertori della difesa ad oltranza dell’ordine economico mondiale, vivono al di fuori di queste categorie di realtà.

“Pensare il nichilismo, perciò, non vuol dire nemmeno avere in testa ‘meri pensieri’ al riguardo, ed evitare, da spettatore, la realtà”, scrive Heidegger. “Pensare il nichilismo significa quindi soprattutto stare in ciò in cui tutte le gesta e tutte le realtà di questa epoca della storia occidentale hanno il loro tempo e il loro spazio, il loro fondamento e i loro sfondi, le loro vie e le loro mete, il loro ordine e la loro giustificazione, la loro certezza e la loro insicurezza – in una parola: la loro verità”. 

Quando è crollata la percezione della realtà (il cambiamento climatico e la sesta estinzione di massa sono qui, ora, adesso) il nichilismo appare essenzialmente come un allontanamento progressivo e inarrestabile dal principio di realtà.

Il ricorso perverso al mito della libertà

L’esito finale di tutto questo è un rafforzamento dei negazionismi. Da sempre i movimenti per la protezione del clima insistono nella denuncia del negazionismo pagato con i dollari delle compagnie petrolifere. Commettendo un errore madornale. Il negazionismo autentico è piuttosto la interdizione consapevole dell’intelligenza critica, in cui la società civile occidentale si è buttata entusiasta ad occhi aperti. 

Per questo il negazionismo dell’emergenza climatica, biologica e sanitaria si nutre della retorica sul ritorno mitologico alla normalità. Non è mai esistita una normalità normale. Mentre è sempre esistito un decorso storico di fatti, atteggiamenti, discorsi e culture. Vivevamo in uno stato d’animo collettivo che ha portato ai rischi dell’epidemia. 

Un ulteriore sintomo del negazionismo nichilista è il ricorso perverso al mito della libertà personale. Il culto autarchico della libertà e dell’individuo, come ha spiegato perfettamente Umberto Galimberti, è una delle strutture simboliche e religiose a fondamento del nostro Occidente. 

Queste spasmodiche contrazioni emotive (negare il virus, rifiutare le cure, evitare di pensare il virus in connessione causale con l’annichilamento biologico della biosfera) sono il tentativo convulso di contenere lo stato di eccezione, di non lasciar debordare l’orrore dell’emergenza. Una simile disposizione mentale, lo si intuisce, impedisce però la piena comprensione di quanto sta accadendo.

Le illusioni feticcio

È così che il nichilismo, spinto da partiti solo apparentemente in opposizione tra loro, produce una contro-normalizzazione che pretende di agire contro lo stato di emergenza. Proprio come lo spettro della “controrivoluzione” nei passaggi pericolosissimi dei cambiamenti storici rivoluzionari, la contro-normalizzazione è il tentativo di normalizzare l’eccezione.

Sono illusioni che non fanno che acuire la crisi. È il presente che divora se stesso perché non riesce a pensarsi eccezionale. 

Lo stato di emergenza mancato denuda dunque la debolezza estrema dei nostri assunti di uso comune. La fragilità, in altre parole, di una civiltà che non sa più pensarsi nella realtà che lei stessa ha prodotto e si esplica, invece, solo nella mitologia delle proprie fantasticherie.

Eppure, neppure queste illusioni-feticcio (ritorno alla normalità pre Covid) possiedono più il potere mitopoeietico delle grandi utopie, delle grandi religioni, dei movimenti di massa. Sono configurazioni culturali statiche, che tendono a replicarsi nella continua riaffermazione del consumo, dell’anarchismo, dell’impotenza emotiva.

L’emergenza ha dunque perso quel sentimento di eccitazione o di disperazione che sempre in Europa ha contraddistinto i periodi di frattura con il passato. L’emergenza si è spenta a poco a poco, pur continuando di per sé a peggiorare ed ad intensificarsi. 

La forza di comprensione

Manca insomma “la forza di comprensione”, come la chiamava Karl Kraus. La diagnosi stessa di questa lacuna proposta da Kraus è disarmante nella sua consonanza con il nostro presente. “Com’è profondamente comprensibile il disincanto di un’epoca la quale, mai capace di vivere qualcosa e di rappresentarlo, non è scossa neppure dal proprio crollo, ha idea dell’espiazione tanto poco quanto dell’atto, e tuttavia ha abbastanza spirito di autoconservazione da tapparsi le orecchie davanti al fonografo delle proprie melodie eroiche, e abbastanza spirito di sacrificio da tornare, all’occasione, ad intonarle”.

Kraus queste righe le scriveva nel 1918. La catastrofe del suo tempo era cosa fatta. Ma “al di sopra di tutta la vergogna della guerra sta quella degli uomini di non volerne più nulla sapere”. Il disgusto di Kraus per i suoi contemporanei oggi ci stupisce, perché consideriamo gli uomini di inizio Novecento ben più colti e geniali di noi. Erano generazioni dal cuore duro, forse, ma di capacità intellettuali strabilianti in ogni campo dell’umano sentire. 

Eppure, né Kraus esagerava né noi siamo in errore. La sua denuncia dell’ignavia generale la sentiamo coerente con il deserto di consenso sull’emergenza climatica e biologica perché siamo in una continuità storica con la cultura occidentale del Novecento.

Oggi come allora la nostra esperienza della realtà è filtrata da schemi di pensiero delle cose di natura. Questi schemi, oltre a disegnare l’uso degli organismi viventi, plasmano la nostra percezione dell’esistenza, dei suoi rischi e delle sue opportunità.

Pensare l’emergenza in termini evolutivi

Ci siamo abituati molto tempo fa a mettere da parte lo stupore immaginifico per il fenomeno biologico, che si offre sulla scena del mondo come evento indipendente dalla volontà umana. Abbiamo così scartato la rilevanza dei meccanismi evolutivi che stanno a monte della nostra nascita e della nostra storia. 

“Per capire il mondo, non solo i fatti biologici, abbiamo bisogno di evoluzione. L’emergere di sempre nuove varianti del virus SARS-CoV-2 – avendo noi sedicenti sapiens scriteriatamente deciso di vaccinare solo la parte ricca del mondo – è un processo evoluzionistico che bene illustra la casualità delle mutazioni, la loro probabilità direttamente proporzionale alla quantità di virus in circolazione, il vantaggio darwiniano della contagiosità” ha scritto Telmo Pievani sul magazine PIKAIA. 

“Il vaccino che introduce una nuova pressione selettiva per il virus è un processo evoluzionistico. La nostra stessa co-evoluzione con il virus, la corsa della Regina Rossa tra ospite e parassita, appena cominciata e poi negli anni a venire, è un processo evoluzionistico. La lista è lunga. Non si capisce appieno la pandemia senza un’adeguata comprensione dell’ecologia delle zoonosi e della loro evoluzione”.

Insistere sull’identità evolutiva di noi Sapiens è una via di uscita dalla povertà del pensiero contemporaneo: “abbiamo bisogno di un approccio evoluzionistico anche perché apre lo sguardo al tempo profondo e alla globalità dei rapporti tra l’umanità e la biosfera: è un antidoto di largo respiro contro il deleterio schiacciamento sul presente e sull’emergenza quotidiana, di bollettino in bollettino, che domina le nostre cronache da due anni”.

In definitiva, la biologia evolutiva è il fondamento di qualunque lettura filosofica del nostro tempo: “abbiamo bisogno di evoluzione per inquadrare la crisi ambientale nella storia naturale di una specie invasiva e prepotente, Homo sapiens”. 

Una primitiva forma di opposizione politica

Conviene, allora, chiedersi non tanto come si possa accendere il sentimento di emergenza quanto piuttosto se ci sia una via di uscita allo stato di emergenza stesso.  Finora si sono esplorate fallimentari proposte politiche, nello spettro delle quali la debacle degli ecologisti è tanto significativa quanto la vittoria dei loro nemici. Queste proposte sono, appunto, politiche e cioè collettive.

Ma esiste la possibilità che una più elementare e forse primitiva via di sopravvivenza e di opposizione, che lasci emergere l’emergenza in tutte la sua complessità storica, sia invece una scelta individuale. Se il vuoto che ci attanaglia è un vuoto di comprensione, allora “fare la rivoluzione” contro questo vuoto è dedicarsi allo studio. Studio delle cause della nostra situazione presente, in uno spazio di esplorazione il più ampio e diversificato possibile. 

Bisogna dedicarsi con passione (la “passione per il reale”) a capire le cause storiche del disastro ecologico, della sesta estinzione di massa, del disagio di civiltà che la pandemia ha reso evidente e palese per tutti. Dobbiamo essere consapevoli che soltanto lo studio smonta il meccanismo, ossia la percezione della impermeabilità, della inesorabilità e della monolitica impassibilità del sistema culturale del nostro XXI secolo. 

È questo il significato a noi più prossimo del “ritorno a monte” di cui parlava Heidegger. Un “andare a ritroso” per “comprendere noi stessi”. 

(Per approfondire questi temi clicca qui).

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