Esplorare le origini storiche della Sesta Estinzione
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Il collasso ecologico è il superamento della bio-capacità del Pianeta. Questo significa che la civiltà umana ha compromesso l’equilibrio chimico dell’atmosfera e la struttura genetica della biosfera.
L’atmosfera fuori equilibrio si esprime nel cambiamento climatico. I danni inflitti alla biosfera corrispondono invece all’estinzione delle forme di vita animale e vegetale. Gli effetti di queste alterazioni ecologiche si combinano gli uni con gli altri rafforzandosi a vicenda.
Da sempre la nostra specie modifica gli ecosistemi per produrre cibo e costruire i propri insediamenti. Ma a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo nel XVI secolo si è innescato un processo ancora più rapido e invasivo.
Il superamento, appunto, della bio-capacità del Pianeta. Da qui nasce la cultura moderna.
La costruzione della civiltà moderna coincide con una espansione geografica illimitata. Infine, l’uso dei combustibili fossili ha permesso all’umanità di sviluppare una demografia fuori controllo e una economia globale sempre più esigente sulle risorse naturali.
Il collasso ecologico è quindi un disallineamento potenzialmente fatale tra le esigenze energetiche, alimentari e culturali di quasi 8 miliardi di persone e i limiti del Pianeta.
Secondo molti ecologi, questa traiettoria potrebbe portare entro pochi decenni ad una implosione della civiltà umana.
Qual è la domanda più importante sull’estinzione? Eccola: c’è un significato nella nostra esistenza? La vita ha un senso? C’è un significato nella storia? O non è piuttosto il crollo di un qualunque senso a definirci come testimoni della sesta estinzione di massa? Siamo figli ed eredi di una tradizione di pensiero che consegnava a chi ci ha preceduti risposte solide sul significato degli eventi: orientati in questo modo erano il capitalismo ottocentesco, il socialismo come reazione al capitalismo, finanche le grandi dittature assolutiste del Novecento. Noi, invece, abbiamo smarrito la certezza granitica che il corso delle cose si inscriva in un ordine, un assetto formale e metafisico, capaci non solo di conferire stabilità economica o sociale, ma anche risposte alle impellenti domande che da sempre si affollano nel cuore e nell’ingegno umano.
Ed ora il conflitto in Ucraina. THE ECONOMIST annuncia: “l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe diventare la più grande azione militare sul campo in Europa dal 1945. E però segnare anche l’inizio di una nuova era di guerra economica ad alto rischio, che avrebbe il potenziale di mandare in frantumi l’intera economia mondiale”. In una serie di copertine speciali sulla guerra il settimanale economico britannico titola “The horror ahead”, l’orrore che ci aspetta.
Qualche giorno fa, il magazine americano VOX ha scritto addirittura che questa guerra potrebbe cambiare il corso della storia, intervistando William Wohlforth della Darmouth University (New Hampshire, Stati Uniti), un esperto dei conflitti armati post Guerra Fredda. “Il mondo ha vissuto per 30 anni in un periodo storicamente pacifico ed è questo stato delle cose ad essere in gioco stavolta. Certo, abbiamo avuto guerre devastanti. Ma erano tutte nel sud del mondo. Ne abbiamo avute nei Balcani, nei primi anni ’90. Ma quello che non abbiamo mai avuto”, spiega Wohlforth, “è un confronto serio tra superpotenze con vasti e minacciosi arsenali di armi nucleari sullo sfondo. Neppure i terrificanti attacchi di Al Qaeda agli Stati Uniti potevano innescare il livello di crisi esistenziale di cui discutiamo ora”. Dunque, “parliamo dell’ombra di una grande guerra di potere, imprevedibile e molto pericolosa, sospesa su tutto il mondo”.
Dobbiamo pensare alla dimensione di questo conflitto in stretta connessione con la crisi ecologica, quindi con le condizioni generali, globali, in cui la guerra stessa ha preso possesso della situazione. Non si tratta solo di energia, di gas e di petrolio.
Perché, a cosa ci serve l’energia che compriamo dai Russi? Quale è lo scopo della enorme quantità di combustibili fossili che ci occorrono, che ci tengono con il fiato sospeso, che fanno muovere i capi di Stato con una celerità mai vista durante i negoziati per gli accordi globali sulla integrità di biosfera ed atmosfera?
Ecco dunque che torniamo al punto di partenza. Nulla come una guerra mette davanti alla domanda di senso di se stessi e delle cose. Per cosa combattiamo? E se tutto dovesse crollare? Se la nostra realtà artefatta cucita insieme sullo sperpero di risorse, sulla disponibilità di una cheap nature, di una natura a basso costo da cui estrarre qualunque sugo vitale senza remore, se questo nostro mondo occidentale immobile su stesso, congelato nello shopping, dovesse infrangersi sulle necessità durissime dell’autarchia economica, dell’’irrigidimento del regime delle esportazioni globali? Se ci svegliassimo una bella mattina e scoprissimo che la solidarietà con il popolo ucraino vuol dire scegliere tra farsi una doccia calda e cuocere il pranzo?
URSS, novembre del 1941. Kocetovka è una stazione della rete ferroviaria sovietica, che smista traffico merci e vagoni militari verso il fronte. Zotov è un ufficiale di medio livello, che deve controllare ogni singolo treno che transita sotto il suo naso. In una notte di vento e pioggia, Zotov ascolta la conservazione di alcune colleghe: “Come s’è fatto freddo, non trovi? Sembra di gelare”, dice una. E una altra le risponde: “Sarà un inverno precoce. Oh, una guerra come questa e per giunta un inverno precoce…E voialtri, quante patate avete raccolto?”. Nel pieno della guerra, dunque, una conversazione sulle patate.
Zotov prova una irritazione profonda. È un comunista convinto, ama la sua patria più di se stesso. “Zotov sospirò e si mise a tirar giù le avvolgibili sulle finestre, premendole ben bene contro il telaio affinché la luce non trapelasse da nessuna fessura. Ecco quel che non riusciva a capire e che suscitava in lui un rancore e persino un senso d’isolamento. In apparenza tutti quei lavoratori attorno a lui ascoltavano i bollettini con la sua faccia cupa e si allontanavano dalla radio con il suo stesso silenzioso dolore.
Ma Zotov vedeva una differenza: quelli che lo circondavano sembrava vivessero per qualcos’altro oltre che per le notizie dal fronte; raccoglievano le patate, per esempio, mungevano le mucche, segavano la legna, davano il mastice ai vetri. E ogni tanto ne parlavano e ciò li interessava assai più di quel che succedeva al fronte”.
In queste parole Solzenicyn non parla solo del potere coercitivo delle ideologie politiche. Anzi, forse non ne parla affatto. Gli riesce invece di evocare quei piccoli gesti, quelle minuzie, quelle minuscole luci di ogni giorno e di tutti i giorni che contengono l’acme della vita. Le patate, allora, non sono più solo ortaggi. Sono il mondo stesso, a cui noi apparteniamo.
Questo mondo esiste anche quando siamo impegnati a negarlo, a cavarne fuori petrolio, metalli, carbone. A farne a pezzi gli organismi pluricellulari per ottenere cibo in eccesso, ciarpame consumistico, abiti alla moda.
È questo il senso che noi Europei, e poi noi occidentali, abbiamo perduto. È questo attaccamento, questa alleanza spontanea con il succo vitale della vita che da molto tempo ci ha smarriti. Perciò ci chiediamo, oggi, con la guerra alle porte, più che mai: la vita ha un senso? C’è un significato nella nostra esistenza? C’è un significato nella storia? Laddove, invece, Zotov era ossessionato da questo: “se in questi giorni crolla l’opera di Lenin, per che cosa continuerò a vivere?”.
Zotov un senso lo aveva fra le mani.
Non si pensi che questi interrogativi appartengano al novero delle speculazioni superflue, buone per i ricchi intellettuali comodamente seduti in poltrona. Sono domande fondamentali per ciascuno di noi. Dovremmo infatti sapere che come cittadini europei, dunque soggetti politici della EU, la nostra responsabilità verso l’Ucraina è storica. Sicché, siamo chiamati a fornire all’Ucraina una alternativa alla Russia che non sia solo economica (il mercato comune). Noi, che cosa possiamo offrire come civiltà europea a Kiev?
Certamente non una società che sa vedere in un raccolto di patate il segno della propria appartenenza organica ed evolutiva al Pianeta. Da tempo ormai, la nostra cultura e la nostra storia sono incapaci di elaborare la nostra permanenza sul Pianeta se non come consumo condannato all’eterno ritorno dell’uguale. Il vuoto di senso è la canzonetta pop che tutti canticchiamo, in Europa. È la colonna sonora della povertà culturale, metafisica direbbe Emanuele Severino, dell’epoca dell’estinzione, degli inverni estinti, della pioggia che non cade più su intere regioni del continente, delle neve prosciugata dai riscaldamenti di milioni di case.
“Al terrore per la possibilità della distruzione atomica della terra si unisce il compiacimento per il possesso di un mezzo capace di distruggere ciò che si riveli troppo poco consumabile”
La guerra, allora, è lo specchio anche di noi stessi. Superficialmente, perché abbiamo scoperto in un botto quanto è pericolosa la dipendenza geopolitica dalle fonti di approvvigionamento fossili. Storicamente, perché constatiamo la povertà estrema del nostro umanesimo drogato di energia in eccesso. Filosoficamente, perché sentiamo che occorre un pensiero alternativo a quello dominante. Noi, la NATO e la EU, viviamo un periodo storico che non ha altro nome se non nichilismo.
“L’Occidente porta nell’apparire una natura nuova e un nuovo operare dell’uomo. Chi condanna la provocazione e la devastazione della natura portate al loro culmine dalla tecnica, non avverte che questa natura è stata portata alla luce proprio per essere così provocata e devastata”, scrive Severino. “L’interminabile teoria di manufatti che vanno esaurendo lo spazio e il tempo non distoglie l’uomo dal suo autentico rapporto con la natura, perché è il risultato di quello stesso atteggiamento secondo il quale l’Occidente ha portato alla luce la natura. La civiltà della tecnica rende esplicito il nichilismo della sua essenza, nel concetto stesso di manufatto, di ‘bene di consumo’, che ormai è diventata la categoria trascendentale dell’essere”.
E allora, “se Agostino poteva ancora affermare che qualcosa è tanto più bene, quanto meno è consumabile, il bene di consumo si trova invece in una posizione di equilibrio, per la quale esso non è più un bene sia se è troppo consumabile, sia se lo è troppo poco. I principi della produzione esigono comunque che venga consumato; e al terrore per la possibilità della distruzione atomica della terra si unisce il compiacimento per il possesso di un mezzo capace di distruggere ciò che si riveli troppo poco consumabile”.
Questo è il nichilismo che ci è familiare. Le patate coltivate e raccolte non sono più categorie trascendentali dell’essere. Perché l’essere stesso, ossia la vita, è alienata nel nostro XXI secolo. Si parla molto, sempre di più, di nichilismo ecologico. Ma il ridurre le cose di natura a niente non è una pratica economica, e non è neppure una dottrina economica. Appare piuttosto, e questo Emanuele Severino lo capì e lo denunciò, come il destino di noi Europei. Come uno sguardo sul mondo che ha preso una certa direzione, e che su quella direzione ha edificato l’intera struttura della realtà. Siamo dunque prigionieri di una realtà di nostra invenzione.
Questa invenzione ci pone ora di fronte i suoi esiti: la guerra in Ucraina, il confronto di potenza Russia/USA, il dilemma energetico e le sue ripercussioni sulla biosfera e il Sistema Terra.
Ognuno di noi è portatore di queste gigantesche configurazioni storiche e culturali, anche quando non ci ha mai pensato, anche quando ritiene la speculazione analitica sul mondo una bagattella teorica. Il vero nichilismo ecologico è la condizione spirituale dell’umanità intera in questo secolo. Quindi anche mia e vostra. Siamo tutti, chi più chi meno, condannati a lavorare e consumare. A consumare per sopportare il lavoro. Siamo cioè avvinghiati alla cronica mancanza di senso del nichilismo. L’implosione del mio senso, dentro la mia biografia, è quindi il vettore del deserto che io stesso contribuisco a imporre là fuori, nelle geografie del Pianeta.
La crisi ecologica è la crisi dell’umano. Forte è lo sforzo, nelle costellazioni dei movimenti ambientalisti, di provare a proporre sulla scena civile un altro atteggiamento. Si chiami World Ecology, Extinction Rebellion o anche decrescita. Ma nessuno di questi sforzi è destinato ad avere successo fintanto che la questione stessa del Pianeta non verrà riportata all’interno di una ben più vasta messa in discussione dell’assetto ontologico su cui facciamo affidamento.
“Negli anni settanta del Settecento i philosophes radicali diffondevano una forma totalmente nuova di coscienza rivoluzionaria, che nelle loro menti non si applicava alla sola Francia, o specificamente a un particolare paese europeo, ma al mondo intero”, scrive Jonathan Israel, il massimo storico dell’Illuminismo. “Tutto il mondo soffriva sotto il controllo della tirannia, dell’oppressione e della miseria, sostenuto dall’ignoranza e dalla credulità, e tutta l’umanità chiedeva una rivoluzione – intellettuale, per cominciare, pratica, in seguito – attraverso la quale emanciparsi.
L’ultima e più radicale versione dell’Histoire philosphique, quella del 1780, generalizzava l’analisi radicale di ciò che in Europa era sbagliato, inclusi gli imperi coloniali che abbracciavano tutto il mondo, e proclamava con una forza senza precedenti la necessità di una rivoluzione globale, in India e in Africa, non meno che in Europa e nelle Americhe”.
In Alla Stazione, Zotov ha qualcosa da fare, nei ritagli di tempo: “nell’autunno del quarantuno, tra i bagliori del grande incendio, qui, in questo buco, Vasja Zotov poteva trovare tempo per Il Capitale. Nel salottino degli Avdeev, pieno di vasi di filodendro e di aloe, sedeva davanti ad un tavolinetto traballante e alla luce di un lume a petrolio (il motore Diesel non produceva abbastanza energia per tutte le case della borgata) leggeva, lisciando con la mano la carta grossolana: la prima volta per cogliere il senso, la seconda per imprimerselo, la terza per sunteggiare, cercando di cacciarselo in testa definitivamente. E quanto più sconsolanti erano i bollettini dal fronte, tanto più ostinatamente s’immergeva nel grosso volume blu”.
(Photo Credit: dr Alexander Sliwa, Kurator Kölner Zoo, Deutschland – Cercopithecus roloway, esemplare maschio. Una specie di scimmia criticamente minacciata, ormai quasi estinta. Con un habitat ristretto alla foreste tropicali della Costa d’Avorio e del Ghana, in Africa occidentale, ne rimangono forse 200. Tra le cause del collasso della specie c’è il bushmeat)
Che cos’è la sesta estinzione di massa? È il crollo del potenziale evolutivo del Pianeta a causa del collasso di integrità biologica degli ecosistemi. Di solito pensiamo che la sesta estinzione significhi rarefazione e poi scomparsa del numero di specie che abitano la Terra. Non c’è niente di sbagliato in questo approccio affermatosi agli inizi degli anni ’80. Ma forse dovremmo aggiornarlo, e renderlo molto più radicale di quanto vorremmo. Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha compiuto passi in avanti notevoli per comprendere le conseguenze del declino dei mammiferi (e degli invertebrati) in tutto il mondo. Questi studi permettono di porre al centro del dibattito sulla protezione della natura la “diversità evolutiva” delle specie.
Per testare la gravità della situazione attuale bisogna andare a vedere che cosa succede ai meccanismi fondamentali dell’evoluzione negli habitat ancora abbastanza integri. E in quelli defaunizzati, cioè spogliati dei “tasselli principali” della comunità di specie un tempo endemica: grossi predatori ed erbivori frugivori, che si nutrono cioè di frutta e contribuiscono a disperdere i semi degli alberi ad alto fusto, dal legno duro e resistente, un magazzino naturale di carbonio stoccato nelle foreste tropicali umide.
Osservare le cose in questo modo ha un forte impatto anche politico sui negoziati internazionali che dovrebbero garantire, entro il 2050, un Pianeta “in armonia con la natura”. Ma per capire che cosa è la sesta estinzione di massa bisogna anche ricostruire le diverse tappe della “scienza dell’estinzione”.
Le stime paleontologiche di Barnovsky fissano il tasso di perdita di vertebrati durante il Novecento superiore di un ordine di grandezza di 114 rispetto al normale tasso di estinzione di sfondo. È un fenomeno storico-ecologico globale: “l’evidenza che i recenti tassi di estinzione sono senza precedenti nella storia umana, e assolutamente inusuali nella stessa storia della Terra, è incontrovertibile”. La ricostruzione paleontologica recente è stata fondamentale per confermare l’ipotesi di una estinzione di massa. Ed ha fornito due importanti lezioni.
Barnovksy dimostrò che effettivamente la biodiversità globale va estinguendosi ad una velocità superiore a quella che possiamo dedurre dagli ultimi 4 miliardi e mezzo di anni. Il nostro presente è piuttosto simile ai cinque massivi show-down della presenza biologica sulla Terra, le cosiddette Big Five Extinctions. Eppure, se anche è vero che il 99% di tutte le specie mai apparse sul nostro Pianeta è ormai risucchiato nel tempo profondo, la fisiologica estinzione delle specie è sempre stata bilanciata dall’emergere di nuove forme di vita.
Ecco, quindi, la seconda lezione. Quando si cerca di capire perché e come le specie si estinguono, è saggio prestare molta attenzione a quante nuove specie compaiono sullo sfondo dell’evoluzione degli organismi. Una estinzione di massa ha un doppio volto: stermina la maggior parte di quello che è in circolazione, avvicinando allo zero la nascita di nuove specie. All’ecatombe segue però una riorganizzazione ecologica. L’evoluzione di animali e piante ricomincia a macinare novità, perché è rimasto abbastanza materiale genetico per riprendere il filo della storia da dove era stato interrotto. Di fatto, le comparazioni paleontologiche dei primi anni Duemila hanno aperto la porta ad una piena comprensione del significato della perdita di habitat in tutto il mondo. Non è importante solo mantenere un certo numero di specie. Ma anche, e forse soprattutto, il “metabolismo genetico” di queste specie.
Il XXI secolo si apre con la consapevolezza che i processi di estinzione delle specie animali sono inscritti nella storia delle nazioni, degli Stati e delle culture umane. L’intera modernità è implicata: “la perdita di habitat, il cambiamento climatico, l’ipersfruttamento per ottenere vantaggi economici dalla natura sono interrelati con le dimensioni raggiunte dalla popolazione umana e dalla crescita economica, che favorisce il consumo, specialmente tra i ricchi, e le diseguaglianze economiche”, scrivono Gerardo Ceballos e Paul Ehrlich insieme a Rodolfo Dirzo. I tre massimi esperti della sesta estinzione. Se la civltà stessa è pèarte del problema, quanti animali dovremmo salvare? Di quanti animali ha bisogno il Pianeta? Quanti animali sono compatibili con la civiltà umana? E dove dovremmo metterli?
Ecologia storica
La biologia della conservazione esce dagli anni Novanta con una convinzione in frantumi. Non è sufficiente stabilire una soglia minima per una popolazione animale, dentro un contesto giuridicamente protetto. Contano anche le funzioni ecologiche espresse dalle singole specie, e da ogni specie insieme alle altre in un habitat condiviso. Non esiste quindi un target assoluto sul numero di animali che non possiamo permetterci di perdere per sempre. Bisogna ragionare per ecosistemi.
Questo metodo, inaugurato al principio degli anni Duemila, ha cambiato il paradigma ecologico. Essenzialmente perché fa affidamento sulla ricostruzione storica. Raccogliere dati su come era un habitat secoli fa aiuta a contestualizzare la perdita di popolazioni. A tracciare, cioè, la “variabilità naturale” degli spazi occupati dagli animali, e la densità delle popolazioni. Le informazioni ecologiche di carattere storico forniscono dei “proxy”, cioè degli indicatori precisi dei cambiamenti ambientali subiti da un intero paesaggio e dai suoi animali.
L’ecologia storica ha permesso anche di capire meglio il concetto di “capacità di carico” degli habitat protetti. “Molta della conservazione è place-based (ndr, costruita su singoli luoghi), cioè focalizzata sui parchi nazionali o su altre tipologie di aree protette. In questi casi, “la conservazione di una specie può riguardare in via primaria il luogo”, scriveva Eric W. Sanderson nel 2006 su BIOSCIENCE. “Gli amministratori fissano un target di popolazione stimando ad esempio quanti individui di una certa specie possono saturare un’area senza che la popolazione stessa superi i limiti del parco protetto. Negli USA le popolazioni nei parchi nazionali vengono sostanzialmente gestite secondo questo criterio”. E ciò nonostante “il problema è che la maggior parte dei parchi sono troppo piccoli per contenere popolazioni di specie che si muovono su grandi distanze”.
I limiti di spazio sono clamorosi nel caso dei megavertebrati: i mammiferi di media e grossa taglia. Sono queste informazioni che ci dicono che i parchi nazionali non bastano ad arginare la sesta estinzione. Sono troppo piccoli, e troppo isolati. Ed è così in America del Nord, in America Latina, in Asia e in Africa.
“L’attenzione esclusiva sulle estinzioni delle specie, che è certamente un aspetto fondamentale del ritmo di estinzioni contemporanee, conduce ciò nonostante ad una generale, controproducente impressione che i biota della Terra non siano sotto minaccia immediata. E che, invece, stiano scivolando lentamente in una fase di massiccia perdita di biodiversità”. La defaunazione del Pianeta, al contrario, è già conclamata: “questa lettura dei dati trascura i trend attuali di declino delle popolazioni animali, e la loro estinzione. Il volume delle popolazioni in caduta numerica e il restringimento dei loro habitat si somma alla enorme erosione della biodiversità causata dagli esseri umani”.
Questo è il vero volto della sesta estinzione di massa. Quello di cui non si discute mai. Il Pianeta si svuota di specie animali molto prima che la Red List della IUCN classifichi una specie come “estinta allo stato naturale”. Ceballos, Ehrlich e Dirzo hanno riportato l’attenzione sulla centralità del processo storico. La sesta estinzione non è un fenomeno eclatante, puntiforme, isolato. È un evento che permea questa epoca attraversandola e condizionandola. Il preludio della scomparsa definitiva di una specie contiene più indizi, sintomi e danni irreparabili del possibile punto di approdo dell’intero processo.
L’umanità ha quindi attorno a sé “l’estirpazione e la decimazione” degli organismi animali. L’analisi della riduzione nell’habitat originario di 27.600 specie di vertebrati lascia comprendere che tra il 1900 e il 2015 sono state perse 177 specie di mammiferi. “Il 32% delle specie di vertebrati è in diminuzione, il che significa che diminuisce il numero di individui delle popolazioni e lo spazio che occupano”. Ecco come si presenta dunque il nostro Pianeta oggi: “almeno il 50% degli individui animali che una volta popolavano la Terra non esiste più, ossia miliardi di popolazioni animali”.
Integrità biologica
Un sano “metabolismo ecologico” (il circolo dei nutrienti attraverso il bilanciamento tra erbivori, carnivori ed onnivori, riproduzione di alberi e piante grazie alla dispersione dei semi garantita dai frugivori, stoccaggio di carbonio nella vegetazione) è l’espressione finale della diversità di specie di un habitat. La cosiddetta diversità filogenetica. Ma su un Pianeta popolato da 8 miliardi di esseri umani, che cosa significa che dovremmo preoccuparci di preservare la variabilità genetica di milioni di specie?
“A dispetto della nostra impossibilità nel predire i prodotti finali dell’evoluzione – ossia le traiettorie delle future morfologie degli animali o le innovazioni della loro futura fisiologia – possiamo comunque stilare stime sensate sui processi evolutivi, su come cioè essi subiranno gli effetti del depauperamento della diversità biologica. L’esito finale delle estinzioni che incombono andrà di gran lunga al di là delle distruzioni ambientali cui assistiamo oggi. Non meno importante sarà infatti l’alterazione dei processi evolutivi stessi”.
Alcune di queste alterazioni Myers e Knoll potevano immaginarle: “la frammentazione dei range delle specie, con la conseguente distruzione del flusso di geni; il declino numerico all’interno delle popolazioni, con l’impoverimento delle riserve di geni; gli scambi biologici di specie a seguito dell’introduzione di alcune specie, o addirittura di interi biota, in nuove aree”.
Allo stato delle cose, dovremmo anche rassegnarci alla “fine della speciazione dei grandi vertebrati”. Infatti, “anche le nostre più grandi aree sotto protezione si riveleranno troppo piccole per una ulteriore speciazione di elefanti, rinoceronti, scimmie, orsi e grandi felini (…). Potranno la biodiversità e gli esseri umani prosperare in un mondo in cui la maggior parte della diversità biologica sarà confinata in parchi e riserve relativamente piccoli?”.
Capire la sesta estinzione di massa significa anche constatare l’insufficienza dell’etica e della morale moderna dinanzi a dilemmi di coscienza che mai l’uomo si è trovato ad affrontare. “Chi dovrebbe prendere simili decisioni?” Si chiedeva Paul Ehrlich al termine del COLLOQUIUM. “A quali valori dovremmo far riferimento?”.
“Faunal intactness”
Nel 2016 la IUCN ha messo a punto uno standard globale “per la identificazione delle aree strategiche di biodiversità”. Tra i 4 criteri prescelti per definire una regione di fondamentale valore ecologico spicca la integrità ecologica.
Secondo Andrew Plumptre questa caratteristica è decisamente la più importante tra le altre fissate dalla IUCN. Per almeno un paio di motivi. Intanto, è strumentale a capire la relazione tra lo stato di una foresta e il bisogno di protezione delle intere comunità di specie che ospita. L’integrità ecologica (il criterio C della metodologia internazionale IUCN) permette di riformulare il tanto controverso concetto di “wilderness” o “natura selvaggia”. Non poco, se pensiamo che da un secolo l’argine contro l’estinzione delle specie animali è proprio la conservazione degli habitat originari e selvaggi.
Plumptre ha posto al centro di qualunque altra valutazione sulle conseguenze della sesta estinzione la “interezza faunistica” delle eco-regioni del mondo. Uscito allo scoperto nel 2019 su FRONTIERS, Plumptre ha di fatto scritto il capitolo integrativo del pionieristico lavoro di documentazione del Gruppo di Stanford sulla defaunazione. “Il criterio C per le aree strategiche di biodiversità incorpora deliberatamente sia la interezza faunistica che l’integrità biotica”. Ossia “aree completamente intatte dal punto di vista naturalistico, con un minimo di disturbo antropogenico post-industriale, abbastanza estese da ospitare la maggior parte dei processi ecologici su vasta scala (…), compresi i predatori altamente mobili e gli erbivori che lungo tutta la loro vita influiscono sulla struttura della vegetazione”. Plumptre ritiene che concentrarsi solo sulla estinzione delle terre ancora selvagge non basti. Una foresta può essere folta e molto estesa fotografata dal satellite. Ma ormai vuota delle serie complete di specie animali che la rendono una foresta ecologicamente viva e pulsante.
“Gli sforzi di conservazione dovrebbero avere come obiettivo-target le poche regioni rimaste al mondo che rappresentano esempi eccezionali di integrità ecologica (…) dovrebbero anche puntare alla restaurazione di questa stessa integrità ecologica su una porzione più vasta di mondo”. Meglio chiedersi, allora: dove possiamo ancora trovare comunità animali ecologicamente intatte?
Tutte le specie di un certo paesaggio esprimono inoltre la “diversità funzionale”: ognuna di loro ha un ruolo che contribuisce a mantenere vivo l’ecosistema. A far circolare i nutrienti, a rinnovare la vegetazione, a regolare l’equilibrio tra carnivori ed erbivori. L’approccio di Brodie è innovativo. A suo parere finora ci si è concentrati troppo sul calcolo del numero di specie, sperando di dimostrare che se in una area protetta le specie sono numerose allora le cose vanno bene. Ma i meccanismi ecologici sono molto più sofisticati e molto più sensibili ad ogni tipo di disturbo inflitto dall’uomo. Caccia, bracconaggio, trappole, taglio di alberi ad alto fusto hanno un potere di rifrazione gigantesco in un habitat.
I dati raccolti da Brodie confermano le pessime notizie degli ultimi anni. Gli habitat cancellati hanno un impatto sui mammiferi di 25 volte superiore rispetto al cambiamento climatico. E la caccia (più o meno di sussistenza) fa peggio dell’aumento delle temperature di un ordine grandezza di 28 volte. La conclusione è intuibile: “la diversità filogenetica ha un immenso valore intrinseco, perché è una misura fondamentale della biodiversità, probabilmente, anzi, la migliore delle misure. Di conseguenza, la protezione della diversità filogenetica è un obiettivo primario della conservazione”.
Colonizzazione assistita contro l’estinzione
Brodie è convinto che la Convenzione sulla Biodiversità (CBD) dovrebbe prendere molto più sul serio la rapidità del cambiamento climatico. Viviamo già in tempi estremi. Insieme a Kent H. Redford (che nel 1991 coniò il termine “foresta vuota” con uno studio pionieristico sull’Amazzonia) e a James Watson (della University of Queensland, in Australia, autore delle mappe più dettagliate al mondo sulle terre selvagge), Brodie ha affidato a SCIENCE la sua proposta più provocatoria: la CBD deve includere la colonizzazione assistita nel prossimo accordo internazionale sulla natura.
La proposta: spostare alcuni individui di specie a rischio in un habitat fuori del loro home range originario. In un futuro ormai alle porte, infatti, almeno un terzo delle specie potrebbe “avere un rischio correlato al clima”. La prima risposta a uno stress ambientale è il movimento. Ma molti organismi “potrebbero avere bisogno di aree-rifugio al di fuori dei loro attuali e storici luoghi di insediamento”. Brodie e i suoi colleghi ritengono che la colonizzazione assistita sia la migliore opzione per ottenere popolazioni in grado di resistere su un Pianeta con pattern climatici in veloce trasformazione.
La vera controversia riguarderebbe piuttosto la definizione giuridica ed ecologica di area di nuovo insediamento di una specie: “intrinsecamente statica o invece dinamica”. Soltanto la CBD può fornire una regolamentazione internazionale di questo tipo, che funzioni da base anche per gli inevitabili negoziati politici. Spostare una popolazione animale potrebbe voler dire insediarla in uno Stato sovrano diverso da quello di origine.
Colonizzazione o no, anche questa via d’azione riporta in auge la questione di vecchia data dei parchi transfrontalieri, come il Kgalagadi o il Kavango Zambesi in Africa, che oggi sono una rarità. È vero che nel 2019 la IUCN ha riconosciuto “il ruolo delle popolazioni animali al di fuori dei loro range storici come risultato della colonizzazione assistita”. Ma Brodie e i suoi colleghi sanno che serve qualcosa di più ardito: “la CBD dovrebbe considerare di espandere l’applicazione del termine neo-nativo, che fu all’inizio suggerito per specie che colonizzavano spontaneamente nuove aree in risposta al cambiamento climatico, per includervi, oggi, specie traslocate”.
La sesta estinzione e l’Antropocene
Il lungo viaggio per capire che cosa è la sesta estinzione di massa termina su risposte che abbiamo tra le mani da 30 anni. La conservazione delle specie su un semplice principio: bisogna proteggere sia la quantità che la qualità di animali e piante di un certo ecosistema. Per ottenere questo obiettivo macro-ecologico, è indispensabile garantire che, come disse Eric W. Sanderson nel 2001, “gli animali facciano gli animali”. Le comunità animali devono funzionare dal punto di vista evolutivo. Ma non dobbiamo ingannarci sullo stato del Pianeta nel XXI secolo. I parchi nazionali sono pochi, e isolati. La nostra iper-demografia richiede reti di strade e concentrati di infrastrutture che tagliano a puzzle le aree protette ricche di animali, e di alberi. La Terra si restringe.
Evoluzione e civiltà sono in conflitto. Lo scorso autunno alcuni autori hanno proposto di considerare l’Antropocene come evento geologico, e non come una epoca. Quello che i media chiamano Antropocene racchiude infatti uno spettro molto ampio di “pratiche culturali umane di tipo trasformativo”. Che durano da millenni. L’Antropocene è quindi “un evento geologico che si è protratto nel tempo”, nonostante tutti gli sforzi di fissare una data precisa (e un indicatore stratigrafico) del suo inizio. Gli esseri umani non alterano la biodiversità a partire dal 1945, con la Grande Accelerazione, o perchè hanno detonato alcuni ordigni atomici. Lo hanno fatto a intermittenza per migliaia di anni, anche quando non progettavano di cooptare intere specie a proprio vantaggio.
Conosciamo un lungo elenco di attività umane i cui effetti sul sistema terrestre valicano i confini temporali di una data, un giorno, una epoca storica: la deforestazione, l’industrializzazione, il colonialismo. E “la dispersione delle specie condotta sotto assistenza umana, ossia la omogeneizzazione della biodiversità della Terra”.
Questo ci aiuta non poco a capire che cosa è la sesta estinzione di massa. “Gli impatti umani sulla superficie della Terra sono diacronici” e “definire l’Antropocene come un evento lo pone accanto alle grandi trasformazioni del sistema terrestre”. Questo perché “la relazione stessa tra gli uomini e l’ambiente è diacronica”.
Nonostante i nostri disastri, noi esseri umani siamo parte del Pianeta. E non costituiamo neppure una eccezione, avvertono gli autori di questo studio. Altre forme di vita hanno fatto cose fuori scala, di portata geologica. Ad esempio i cianobatteri, protagonisti del “grande evento di ossidazione” occorso tra i 2.4 e i 2.1 miliardi di anni fa. L’ossigeno prodotto dai cianobatteri, nel corso di milioni di anni, ha consentito agli organismi multicellulari di spostarsi sulle terre emerse e di innescare la portentosa evoluzione dei regni animale e vegetale. Perciò, “la comprensione scientifica del cambiamento ambientale globale richiede una analisi dei processi su scale temporali e spaziali multiple”.
Sarebbe davvero utile recintare nuove riserve mentre piante e animali sono in movimento a causa delle temperature? “Entro metà secolo (2050) più della metà della superficie terrestre avrà caratteristiche climatiche pertinenti ad una eco-regione diversa rispetto ad oggi. Quella che attualmente è una foresta molto folta potrebbe diventare una radura aperta con alberi a legno duro. Una prateria trasformarsi in un deserto”.
Il sorgere del sole nel cratere di NgoroNgoro, in Tanzania, sembra portare con sé tutte le promesse dell’alba del mondo. La luce si spande sulle colline che circondano il cratere e accarezza le piccole capanne rotonde dei boma, i villaggi tradizionali dei Maasai. Ogni cosa è al suo posto, in una sorta di giustizia ancestrale e di pace cosmica. Ma nulla di questa estasi è davvero come appare. Il cratere di NgoroNgoro è denso di conflitti sempre più bellicosi. Ed è un falso Eden.
Da una parte i Maasai, che negli anni ’50 ottennero dall’autorità coloniale britannica il permesso di continuare ad abitare nel cratere e sulle sue pendici. Dall’altra parte il Governo centrale, che si sente addosso tutte le contraddizioni implicite in un modello di protezione ecologica che non regge più.
Un governo che vorrebbe ampliare e intensificare il turismo d’élite, che però è diventato un problema ambientale molto serio: nel 2000 entravano nel cratere 30.782 Land Rover da safari, diventate 113.423 nel 2018. Ora i Maasai reclamano più diritti di proprietà, e di insediamento, perché la loro comunità cresce di numero, ed è cronicamente affamata e povera.
Una infuocata domanda di giustizia, dunque, nel parco nazionale attraverso cui passa la grande migrazione di quasi un milione di gnu diretti alle pianure del Serengeti e del Masai Mara.
Sotto scrutinio per una revisione che potrebbe avere implicazioni storiche, è il Multiple Land Use Model (MLULM). Il MLULM è la cornice amministrativa entro cui da sempre il Governo centrale regolamenta la pastorizia nomade e l’economia della wildlife dentro NgoroNgoro. Secondo i movimenti per i diritti civili dei popoli indigeni e la comunità Maasai, la strada intrapresa dal Governo è la progressiva espulsione dei Maasai.
Una politica su base etnica per favorire le organizzazioni internazionali bianche dedicate alla protezione degli animali. E l’industria del safari. Una accusa che non desta sorpresa nel fronte avanguardista della conservazione: gli ecologi e i sociologi che ritengono il modello dei parchi nazionali una forma di neocolonialismo militarizzato.
Tornano a ribollire, dunque, i rancori mai sopiti filtrati dentro la Tanzania indipendente del 1961. Ma dall’altra parte della barricata c’è una voragine di governance della stessa conservazione della natura. La miseria di chi con la megafauna selvatica ci vive da secoli, stock genetici di intere specie in caduta libera, pressioni occulte lungo canali diplomatici impalpabili che, forse, hanno come obiettivo finale stoccare enormi riserve là dove è più facile bypassare diritti e leggi. Mentre avanza l’industrializzazione green e l’accaparramento delle risorse minerarie e naturali indispensabili per sostenerla.
“Sviluppato per venire incontro alle preoccupazioni delle agenzie internazionali per la conservazione e generare proventi dal turismo, il piano è l’ultimo capitolo della storia di espulsione e distruzione dei mezzi di sussistenza dei pastori indigeni della Tanzania in nome della conservazione”. Caustico è l’attacco ai principali attori della protezione delle faune selvatiche, che avrebbero a cuore la “pure wilderness”, ossia l’ideale ottocentesco di una natura selvaggia senza esseri umani, intonsa, congelata in una sorta di perfezione incontaminata. La stessa natura offerta all’immaginazione dei turisti occidentali.
La Tanzania non è nuova ad accuse di violazione dei diritti umani. Nel 2015, con l’elezione alla presidenza di John Magufuli, il Paese ha intrapreso una china secondo molti osservatori di stampo autoritario. Da allora, la repressione delle voci critiche si è intensificata. Dopo l’improvvisa morte di Magufuli lo scorso marzo (probabilmente per Covid), è diventata presidente una donna del suo stretto entourage, Samiaa Hassan.
Tutto il Paese si trova quindi in uno stato di notevole fibrillazione interna, in cui il mantenimento dello status quo coincide con un rafforzamento degli orientamenti politici già consolidati. Anche nelle politiche ambientali.
L’ufficio stampa del Ministero dell’Ambiente non ha risposto ad una mail di chiarimento sugli scopi del MLULM.
Di certo, c’è consapevolezza che il mantenimento di NgoroNgoro si è fatto molto più complicato. Il Governo prospetta una crescita enorme delle mandrie dei Maasai dagli attuali 230mila capi (dato del 2017) a 800mila entro il 2038. Gli stessi Maasai potrebbero diventare 200mila. Non c’è dubbio che la questione demografica, qui come altrove, abbia una sua consistenza.
Si pensa dunque di allargare i confini dell’area protetta, mettendo un tetto al numero di bovini (non più di 117mila) e di persone (non più di 20mila Maasai). Bisognerebbe annettere a NgoroNgoro il Lake Natron, portando il totale dell’area protetta a 3.494 Kmq, a cui aggiungere una “conservation sub-zone” di 1.053 kmq per lo sviluppo turistico e infine una “transition zone” di 5.398 kmq senza villaggi, solo per il pascolo stagionale. Una decisione in questa direzione implica un decreto legislativo che cambia lo status giuridico di NgoroNgoro in vigore da 70 anni.
La questione ecologica è diventata perciò una questione umanitaria, e morale. Per dare più spazio alla protezione della fauna, bisogna concederne di meno ai Maasai. È giusto che sempre più turisti visitino il cratere mentre i nativi sono spinti ai margini delle zone cuscinetto del parco?
(Il Gate di ingresso alla Ngorongoro Conservation Area)
La missione era chiamata a dare un parere sulla volontà del Governo di far inserire il sito paleo-archeologico di Laetoli (il Laetoli Hominin Footprints Museum) nella definizione di “luogo patrimonio dell’umanità” già accordato a NgoroNgoro nel 1972. La vicina Olduvai Gorge, “culla dell’umanità”, è sito UNESCO dal 1979. Qui, alla fine degli anni ‘60 gli scavi condotti da Mary e Louis Leakey portarono alla luce i resti dell’Australopitecus boisei e poi di decine di altri ominidi.
Anche Laetoli è un sito fondamentale per la ricostruzione della storia evolutiva umana. Nel 1979 la Leakey vi scoprì alcune ossa di un Australopitecus afarensis, un altro antenato del complesso “cespuglio” dei nostri progenitori. In un ipotetico futuro, la regione avrebbe tutte le potenzialità per diventare un parco archeologico da affiancare al parco naturale. Una esperienza totale della profondità temporale ed ecologica dell’appartenenza del genere umano al rift dell’Africa orientale. Un connubio che vale da solo intere strategie di marketing.
Per Oakland Institute, nel rapporto finale della missione c’è una commistione di interessi tra gli esperti degli organismi internazionali e gli obiettivi del governo. “La NCAA (NgoroNgoro Conservation Area Administration) ha bisogno urgente di implementare politiche stringenti per controllare la crescita della popolazione e il suo conseguente impatto sullo spettacolare valore universale dell’area”, sostennero gli inviati speciali nel 2019.
La missione chiedeva pertanto al governo “di completare la revisione del MLUM e di condividerne i risultati con WHC (World Heritage Committee Unesco) e i gruppi di consiglio correlati, per dare indicazioni sul modello di uso del territorio più appropriato, inclusa la questione dello stanziamento delle comunità locali nelle aree protette”. L’accusa è dunque di dare man forte alla visione della “conservazione fortezza”, che esclude i nativi approfittando della questione demografica.
IUCN è impegnata da anni nella valorizzazione dei popoli nativi nella protezione della natura. E nel XXI secolo non si può fare conservazione senza la IUCN. La stessa Red List, la più vasta catalogazione aggiornata delle specie in pericolo di estinzione, è compilata dagli esperti che collaborano con IUCN. La descrizione della natura nel XXI secolo dipende in buona misura dai rapporti (assessment) che la IUCN raccoglie per valutare il rischio di estinzione di migliaia di specie.
Raggiunta via email, la sede centrale di Ginevra, in Svizzera, ha così ribattuto alle accuse dello Oakland Institute: “la missione congiunta del 2019 organizzata da World Heritage Centre, ICOMOS e IUCN è stata condotta da esperti con molta esperienza di questa regione africana, due dei quali sono site manager del World Heritage. La missione aveva il mandato di valutare, e poi fornire raccomandazioni, su una serie di questioni che riguardano la protezione della NgoroNgoro Conservation Area World Heritage Site. Una di queste questioni era la sostenibilità degli stili di vita delle comunità locali”. La missione ha quindi consigliato il Governo di “continuare a confrontarsi con le comunità locali e tutti i soggetti coinvolti per esplorare soluzioni di stili di vita alternativi rispetto all’attuale schema di reinsediamento volontario”.
IUCN sottolinea anche che “in un nostro recente incontro con il Governo della Tanzania e la NgoroNgoro Conservation Autority (NCAA) siamo stati informati del fatto che non c’è nessuna pianificata espulsione dei Maasai”.
(La vista mozzafiato sulla Olduvai Gorge come appare dal Museo dedicato ai Leakey)
Il turismo è una minaccia sempre più seria
In realtà, leggendo il Rapporto Finale della missione, emerge non solo uno scenario molto più complesso di quello presentato dallo Oakland Institute, ma addirittura più drammatico. L’intreccio di rivendicazioni umanitarie e imminente fragilità ecologica ha creato una condizione esplosiva.
La missione doveva capire l’impatto di una nuova strada asfaltata, che il governo considera indispensabile, e di valutare una ulteriore spinta sul turismo. La presenza dei Maasai non è vista come un problema etnico di per sé. Ma come un sintomo del limite raggiunto nell’idea di sviluppo turistico che nessuno prendeva seriamente in considerazione fino a 10 anni fa.
“Con il cambiamento delle condizioni di vita, è imperativo intraprendere una ricerca etnografica per aggiornare le informazioni già esistenti sulle pratiche culturali e i sistemi di pensiero, inclusa la cultura materiale delle persone che vivono all’interno del possedimento (ndr, la NgoroNgoro è di proprietà nazionale)”, conclude il Rapporto Finale.
IUCN e Unesco osservano che “rispetto a quando venne definito l’assetto giuridico dell’area, e venne auspicata la coesistenza pacifica degli esseri umani e degli animali selvatici in un contesto tradizionale, entrambi questi elementi non sono rimasti statici nel corso dei decenni. Nel 2018 la NCA registrò 93.136 abitanti.
La proiezione è che la popolazione raggiunga i 161mila abitanti entro il 2027”. E poi c’è il clima: “con il cambiamento climatico e l’imprevedibilità delle precipitazioni, la siccità e la scarsità dei terreni da pascolo e delle risorse idriche all’interno dell’area designata alla conservazione hanno contribuito ad espandere gli insediamenti dentro la proprietà, perché le persone sono in cerca di opzioni per vivere”.
Il Governo, da parte sua, dovrebbe monitorare l’impatto del turismo, ma non dispone di una “carrying capacity integrata”. La missione dice in sostanza che per decidere al meglio del futuro di NgoroNgoro in Tanzania è indispensabile avere in mano molte più informazioni sul tipo di attività umane che questa regione può reggere.
Ecco perché oggi si discute di come allargare i grandi parchi nazionali su scala continentale, per recuperare ampie porzioni di natura in modo da garantire gli spostamenti degli animali e la funzionalità ecologica. Come farlo, è poi un altro discorso. Ed è la controversia in cui sta dentro anche il cratere di NgoroNgoro.
In quegli anni, il Kenya assistette ad un crollo vertiginoso del numero di animali selvatici. Alcune specie di erbivori come il kobo, la gazzella di Thompson e l’alcelafo rosso diminuirono del 60%. Le giraffe e i bufali fino all’88%. E gli gnu, protagonisti della grande migrazione, del 75%. Nulla di tutto questo accadeva intanto in Tanzania, dove i Maasai continuavano a lasciar pascolare le loro vacche dentro NgoroNgoro e nella Loliondo Game Controlled Area.
La Loliondo è una zona a protezione naturalistica ridotta, con diritto di residenza per i pastori Maasai. Gli gnu in migrazione si disperdono anche in questo tipo di zone cuscinetto a ridosso dei parchi. Negli anni ’80 e negli anni ’90, in Kenya, i ranch privati attorno al Masai Mara sfruttarono i buoni prezzi di mercato per convertirsi alla coltivazione meccanizzata del mais.
E così mentre nelle terre Maasai della Tanzania gli gnu continuavano a migrare senza grossi ostacoli, in Kenya ne trovano di fatali. I campi. Secondo il Bureau of Statistics della Tanzania, tra il 1978 e il 1988 la popolazione dei Maasai di NgoroNgoro crebbe del 3.6% annuo e le mandrie rimasero più o meno sempre le stesse. Non stava lì il rischio per le specie selvatiche.
Se Loliondo dovesse essere incluso dentro NgoroNgoro, ci sarebbero gli appoggi giuridici giusti per ampliare il turismo mettendo parte della riserva sotto regime di stretta conservazione naturalistica.
(Una leonessa nell’erba alta del cratere di NgoroNgoro. Secondo una stima recente del gruppo di ricerca KOPE LIONS, i leoni di NgoroNgoro sono circa 80. Questi felini sono i discendenti di leoni su cui si hanno dati a partire dagli anni Sessanta)
Pressioni internazionali
Del tutto inutile, e fuorviante, è nondimeno il richiamo della Tanzania al pieno rispetto della firma apposta sulla UN Declaration on the Rights of Indigenous People. Molto più cogente è infatti la contraddizione sostanziale in cui è imbrigliata la conservazione in Africa. La protezione della natura africana dipende da un assetto politico-economico deciso fuori dal continente. Sono state la nazioni occidentali a stabilire che cosa era la natura africana e quindi ad attribuirle un significato che fosse ritagliato sulle esigenze dei propri cittadini, e dei propri elettorati.
A partire dalla seconda metà del Novecento, durante la decolonizzazione, questo modello economico ha preso il sopravvento, poiché le nazioni africane erano ormai agganciate ai flussi di denaro, di finanziamenti e di commerci globali. Occorreva tempo per uscire dai vincoli micidiali della miseria e provare ad imporre la propria idea di esistenza umana.
Il collasso ecologico del Pianeta ha irrigidito e al contempo imbaldanzito i meccanismi di conservazione della natura inscritti nel DNA del capitalismo ultra-moderno. Bisogna allargare le aree protette, ma anche farlo in fretta, e appoggiarsi il più possibile sull’elaborazione scientifica disponibile nei ricchi Paesi occidentali. Non c’è dubbio che la diagnosi sulla crisi di estinzione e il collasso della biodiversità abbia un solido fondamento scientifico.
La clamorosa perdita di habitat è però il frutto malato non solo della crescita demografica delle nazioni africane. Lo è altrettanto dell’industrializzazione moderna e del super-consumismo dei Paesi più ricchi. Non è più onesto parlare di conservazione della natura senza parlare dello spreco immane di vita biologica (piante, animali, risorse minerarie, vite umane) necessario a sostenere stili di vita deformanti, che producono diseguaglianze sociali, povertà esistenziale e miseria psicologica. In Occidente.
Questo modello economico, e la progressiva marginalizzazione degli Africani dal loro stesso patrimonio faunistico, ha fatto suo il vizio di forma della idea di conservazione della natura, che si sviluppò in conseguenza del boom industriale moderno in Europa e Stati Uniti.
L’invenzione della natura protetta
Bram Büscher ha ricostruito in modo efficace questi passaggi storici: “la conservazione non viene a riempire un vuoto. È piuttosto parte, nella sua storia, di sviluppi politici ed economici. Uno di questi è l’emergere delle aree protette che mettono la natura da parte, intendendo proteggerla dal resto dell’umanità. Questo significa di fatto proteggerci da noi stessi o, in qualche modo, proteggere la natura dalla natura.
Un pensiero del genere è stato possibile solo negli ultimi 200 anni. Ci siamo talmente abituati a questa impostazione che consideriamo del tutto normali le aree protette. Be’, non lo sono. Sono vecchie, per così dire, soltanto di 150 anni, e la maggior parte di quelle di cui parliamo non hanno più di 30 o 40 anni. La conservazione è sempre stata una risposta a sviluppi più grandi, che in un modo o nell’altro hanno cambiato il mondo attorno. Noi e anche la nostra capacità di vivere dell’ambiente naturale e con l’ambiente naturale”.
La conservazione non è un sinonimo per “Pianeta vivente”. La protezione organizzata e burocratica della natura sostituisce il concetto di biosfera quando la Terra cessa di esistere se non all’interno di logiche di consumo e plus valore. Se insomma la natura è profitto, non può essere anche contesto ontologico per gli esseri viventi.
La conservazione è perciò una conseguenza culturale dell’economia moderna: “il capitalismo industriale nei secoli XVII, XVIII e XIX ha distrutto buona parte della natura non umana. Per proteggere gli ambienti naturali sorse così un contro-movimento, esattamente come il movimento operaio fu una risposta finalizzata a proteggere la società.
Lentamente, tra il 1970 e il 1980, sotto la spinta soprattutto della rivoluzione neo-liberista, abbiamo assistito ad una forma di integrazione tra i due: la conservazione è stata intesa come una forma di sviluppo. Sempre di più liberalismo e conservazione sono andati integrandosi: capitalismo e natura sono visti fondamentalmente come una sola, identica immagine dominante”.
È intuitivo che in questo vero e proprio assetto geo-politico alberga una contraddizione intrinseca. “Si cerca di rappresentare una forma economica e politica specifica, il capitalismo, che è di per sé totalmente insostenibile, all’inizio e alla fine di ciò che noi intendiamo per natura”, sostiene Büscher.
La produzione di profitto attraverso la conservazione ha così scoperto di avere a disposizione un’arma infallibile per perseguire la messa a reddito degli ecosistemi ancora selvaggi del Pianeta: il turismo. Ma il turismo ha anche un carattere neo-coloniale.
Il turismo e l’economia neo-coloniale
È infatti l’umanità ricca, e bianca, del Pianeta, che può godere della natura in località remote ed esotiche. Il turismo di lusso coopta le risorse naturali ancora intatte (foreste, laghi, branchi di elefanti e di leoni) per dislocarne il valore monetario. I soldi, in definitiva, se ne vanno insieme ai voli di linea dei turisti. In un posto come NgoroNgoro rimangono i villaggi Maasai pieni di gente che ha fame, con i denti decalcificati dalla denutrizione.
Consumando la natura africana, la parte benestante del nord del Pianeta dà un contributo essenziale allo squilibrio ecologico.
In modo analogo, sono i Paesi ad alto reddito i responsabili dell’eccessivo uso di risorse globali, con una media di impronta materiale di 28 tonnellate pro capite all’anno – quattro volte la misura sostenibile. È cruciale capire che questi alti livelli di consumo dipendono dall’appropriazione netta dal sud del mondo attraverso uno scambio iniquo, che include 10.1 miliardi di tonnellate di materiali grezzi e di 379 miliardi di ore di lavoro all’anno.
In altre parole, la crescita economica del nord si appoggia su schemi di tipo coloniale: appropriazione dello spazio comune che è l’atmosfera e l’appropriazione delle risorse del sud, e della loro fatica umana”.
La capacità di carico degli ecosistemi, quindi, non è condizionata solamente dall’uso delle risorse naturali intrapreso dalla gente locale. Anzi, è il risultato finale di una imponente e complessa equazione di sfruttamento combinato della bio-capacità di atmosfera e biosfera.
Il turismo di lusso non è altro che uno degli addendi di questo gioco di interazioni economiche con ricadute ecologiche globali. Bisogna dunque vedere il peso del turismo, e della conservazione che si aggrappa al turismo, all’interno del disequilibrio dell’intero Pianeta.
Il Gruppo di Stanford (i massimi nomi degli studi sull’estinzione e il collasso ecologico che gravitano attorno alla Università di Stanford, ossia Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos, William Ripple e Paul R. Ehrlich) ha rimarcato di nuovo (“Response – Commentary: Underestimating the Challenges for Avoiding a Ghastly Future”) questo aspetto della crisi del XXI secolo.
“Ci sono iniquità impressionanti nella distribuzione della ricchezza. Centinaia di milioni di persone sono già, disgraziatamente, sul confine apocalittico della perdita del proprio sostentamento. Noi non biasimiamo affatto per queste calamità i popoli indigeni, che vivono con redditi bassissimi. Il nostro studio (“Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future”) ha gettato una luce sul fatto che più del 70% degli esseri umani vivono in Paesi che sono dentro un deficit di bio-capacità, ma che non hanno le risorse finanziarie per compensare questo deficit accedendo alla bio-capacità di altri Paesi e quindi accrescendo la propria resilienza.
In altre parole, quelli che hanno meno possibilità economiche sopporteranno il peso sproporzionato dovuto all’impatto dello sbilanciamento ecologico. Perciò, coloro che hanno amplificato il problema hanno la enorme, indiscutibile, responsabilità morale di affrontarlo. In mancanza di solidarietà con le persone più svantaggiate da un punto di vista politico ed economico, anche la parte privilegiata non sarà in grado di proteggersi dalla distruzione imposta dai trend globali”.
Ciò non toglie, purtroppo, che le nazioni africane stesse siano inserite nel sistema di produzione capitalistico. E che lo assecondino. Alla fine degli anni ’60, la Tanzania indipendente ha deciso in piena autonomia di affidare al turismo il destino della propria ricchezza faunistica.
Il lento declino dei Maasai
Nulla di ciò che vediamo oggi in Tanzania nelle aree protette è intatto o identico alle condizioni ecologiche del Paese negli ultimi due secoli. Per capire il posto dei Maasai nella Tanzania di oggi bisogna tornare al XIX secolo, prima della colonizzazione europea. E poi spostarsi nei primi decenni del Novecento, quando gli Europei cominciarono ad elaborare la percezione dell’Africa selvaggia che dura ancora oggi.
Negli anni ‘90 Adam e McShane ricostruirono “il mito dell’Africa selvaggia”. Gli Europei sognavano l’Africa perché da tempo l’industrializzazione aveva cancellato foreste, boschi e praterie dalla loro vita quotidiana. Una malinconia primordiale che sognava le origini dell’umanità e il principio del mondo, con branchi di animali che si muovevano liberi in spazi immensi e incontaminati. Negli Stati Uniti la nostalgia per la natura selvaggia aveva da tempo stretto un patto politico con i programmi di appropriazione della terra su base razziale sulla frontiera a Ovest, tra il 1850 e il 1890.
Dopo decenni di caccia indiscriminata, il trauma di intere società civili che rinunciavano alla natura per costruire il benessere moderno si trasformò così nell’aspirazione a salvare le faune africane dall’Africa stessa. Un anelito alla redenzione della nostra specie, una teodicea ecologista che sacralizzò il Serengeti, in cerca di un sentimento di appartenenza.
Poi vennero le straordinarie scoperte paleontologiche degli anni ’60 in Kenya e in Tanzania, che accesero un inedito interesse mediatico per la “culla dell’umanità”. L’Africa orientale diventava così un capitolo avventuroso in una storia di coraggio e ardimento (l’Out of Africa) e di commosso ricordo dell’epopea evolutiva di Homo sapiens.
A pagare per le disfunzioni culturali dell’Europa, in Africa orientale furono soprattutto i Maasai. “La disintegrazione degli spazi condivisi dalla comunità dei Maasai ha portato ad un deterioramento delle strutture sociali delle tribù. La cultura Maasai sta morendo, e con essa un sistema di valori che ha sostenuto una comunità e un ecosistema per generazioni”, scrivevano Adam e McShane nel 1992.
La Tanzania cesellata da maestosi parchi nazionali e riserve gigantesche (il Ruaha e la Selous) è il prodotto di una pianificazione a tavolino decisa dal governo centrale all’indomani dell’indipendenza dalla corona britannica. Ma, prima dell’arrivo dei coloni tedeschi negli anni novanta dell’Ottocento, la Tanzania stessa non era isolata dal resto del mondo e incapsulata in una intonsa natura selvaggia.
La decimazione sistematica degli elefanti aveva già allora ridotto le grandi distese di erba, favorendo invece l’espansione della vegetazione di arbusti e di alberi, oltre alle mosche tse-tse, vettori della famigerata malattia del sonno. Le tse-tse, però, portavano anche patologie che colpivano le mandrie dei pastori nomadi Maasai. Intanto, le carovane di mercanti a caccia di avorio avevano bisogno di viveri e stimolavano così l’espansione dell’agricoltura di sussistenza. Il nord-est del Paese è una fonte netta di beni di lusso dal 1850 a metà degli anni ’90 del secolo.
Mentre i mercanti battevano le savane in cerca di elefanti, i Maasai erano in movimento. Spostandosi a sud del Kilimangiaro entrarono in conflitto con i Kwavi, un’altra etnia endemica della regione. I Kwavi occupavano queste terre dai primi dell’’800. Da questi scontri periodici derivarono diverse guerre, le cosiddette lloikop, che spinsero i Kwavi sulle colline.
Anche le epidemie contribuirono a modellare l’aspetto del paesaggio.
(Un branco di gnu al pascolo di prima mattina nel cratere di NgoroNgoro)
Mettere a reddito il patrimonio biologico della nazione
Questo stato delle cose tenne fino al 1961, anno della dichiarazione indipendenza della Tanzania. Poi furono gli anni della attuazione della Dichiarazione di Arusha del 1967, ossia il piano di sviluppo economico del Paese ispirato agli ideali del socialismo.
Dopo la politica di auto-sufficienza degli anni ’70 e ’80, decenni in cui il Paese dipendeva fortemente dagli aiuti internazionali, negli anni ’90 comincia una liberalizzazione economica in cui la bio-economia delle risorse naturali ha un posto centrale. Il governo punta decisamente sulla estrazione mineraria, sui biocarburanti e soprattutto sul turismo d’élite.
Per i Maasai il posto disponibile si restringe sempre di più: “i Maasai sono stati rimossi dalle loro precedenti terre attraverso la definizione di nuovi parchi nazionali per i grossi animali, la diffusione di grandi fattorie commerciali e dell’appropriazione della terra da parte dello Stato per concessioni minerarie e concessioni di caccia”.
Bisognava virare, e in fretta, dagli ideali del 1967 e fatturare sull’unico bene che il Paese aveva già a disposizione in abbondanza senza impianti industriali e catene di montaggio: la biodiversità.
A nord, il destino dei Maasai si fondeva con le decisioni prese dal governo del Kenya. Perché i due Paesi avevano in comune le pianure del Serengeti. Di fatto, la Tanzania adottava il modello di area protetta formulato dagli Inglesi.
Sin dagli anni ’30 del Novecento gli Inglesi vanno imponendo un modello di gestione del territorio che non ha precedenti storici in Europa, ritagliato apposta sulle colonie, ossia i “game parks”. Riserve per gli animali selvatici ad uso esclusivo dei bianchi.
Nel 1931 Richard W.G. Hingston giunge in Kenya su mandato del governo inglese e della Society for the Preservation of the Fauna and Flora of the Empire. Il compito di Hingston è valutare l’opportunità di aree speciali in cui confinare le specie selvatiche per preservarne la sopravvivenza a vantaggio dei cacciatori di trofei. E Hingston dice apertamente quello che pensa sia appropriato allo sviluppo moderno dell’Africa: riserve naturali piene di animali non domestici disposte come sporadiche isole in un paesaggio convertito all’agricoltura.
Sulla scorta di queste idee, nel 1957 una commissione d’inchiesta britannica propose di dividere il Serengeti in 2 regioni. Una sarebbe diventata l’attuale Serengeti, in Tanzania, dove sarebbe stato proibito abitare.
La seconda regione sarebbe stata la Ngorongoro Conservation Area, che diventava così una “multiple-use area”, un territorio dedicato alla conservazione delle risorse naturali, alla protezione degli interessi dei nativi Maasai e alla promozione del turismo di lusso.
NgoroNgoro è quindi una sorta di macro-compromesso, che limita e regolamenta la vita tradizionale dei Maasai, ma ha l’obiettivo principale di tenere l’ecosistema NgoroNgoro-Serengeti sotto un rigido controllo governativo.
Alla fine degli anni ’90 la Tanzania ha ormai sposato in pieno un modello di business basato sui safari fotografici. La conservazione della natura è semplicemente strumentale a qualcosa di molto più prosaico.
Anche i villaggi in prossimità delle aree protette hanno il permesso governativo di vendere diritti di caccia o di stringere rapporti d’affari con i tour operator.
“Benché l’iniziale spinta per la conservation estate derivi da una visione coloniale dei paesaggi africani, la ragguardevole crescita del numero di aree protette in Tanzania riflette il vigoroso supporto fornito dallo Stato per la conservazione (rafforzato dai provenenti che essa offre), in combinazione con una potente lobby internazionale della conservazione. Ma considerando come è avvenuta l’espansione della conservation estate, è difficile immaginare che possa finire”.
La posta in gioco oggi
E quel turismo che doveva essere la soluzione a tutti i problemi è diventato una metastasi forse fuori controllo. Nel 1979 i turisti erano circa 20mila all’anno. Nel 2018 quasi 650mila.
Se il nuovo MLUM verrà approvato, verrà posto un limite al numero di Maasai residenti, perpetuando il loro status di intrusi, di presenza scomoda e fastidiosa, mentre un mare di turisti entra in area protetta con abiti di poliammide, bottiglie di plastica, su Land Rover a motore Diesel. Per Arudhna Mittal dello Oakland Institute sta in questo atteggiamento politico la violazione dei diritti umani dei Maasai.
“Senz’altro bisogna capire chi sono gli immigrati che entrano in NgoroNgoro, queste persone che reclamano una residenza. È una area speciale, e serve una analisi dettagliata per individuare i componenti della comunità. Ma occorre anche onestà su un altro fronte”, spiega la Mittal via Skype dalla California.
“Se i Maasai devono andarsene, quale sarà la loro destinazione? Con quali opportunità? Stiamo parlando di persone a cui manca tutto. Scuole, centri di assistenza medica, sicurezza alimentare. Vivono nel vuoto lasciato loro dalle promesse mai mantenute fatte al tempo della chiusura del Serengeti. Un vuoto che si propaga e si ripete ancora, procedendo in questo modo”.
È vero che la domanda di abitazioni e di stanziamento dei Maasai non è quella degli anni ’60. C’è bisogno di case moderne, in muratura, di elettricità, di scuole, di strade percorribili anche in stagione umida. Il rapporto della missione del 2019 insiste sul problema abitativo dei Maasai.
“La missione nota con preoccupazione l’impatto visivo dei nuovi edifici che sorgono velocemente come risultati di un incremento della popolazione umana. Le comunità dentro la proprietà stanno costruendo case di tutte le grandezze e di ogni tipo di design, usando differenti materiali di costruzione, che risultano fuori contesto.
Il passaggio da case tradizionali a case molto grandi, in stile moderno, alcune protette da recinzioni (…) è anche una erosione del legame tra le comunità e il loro ambiente. I boma sono un testamento vivente di questa armonia. Mentre l’architettura moderna e il comfort sono indispensabili per vite migliori e lo status sociale, c’è bisogno anche di essere creativi e innovativi attraverso forme architettoniche e di progettazione che non si limitino ad abbracciare la modernità”.
Bisogna pensare qualcosa di nuovo “con l’aiuto di affermate scuole di architettura del continente africano. Nozioni come modernità e cambiamento sono accettabili, ma dovrebbero essere intese in modo tale da preservare l’integrità e l’autenticità del paesaggio, la sua gente e le loro cultura”.
Eppure la Mittal ritiene che qui, sotto la superficie diplomatica, ci sia un vizio di logica. “Queste organizzazioni spingono per soluzioni partecipate, ma di fatto sostengono un modello di conservazione che non funziona così. Non possono chiedere più democrazia nei processi decisionali quando il loro interlocutore è un Governo che va avanti con lo stesso schema discriminatorio di sempre nei confronti dei Maasai”.
Come può un governo centrale sempre più accentrato e autoritario garantire l’equità di decisioni controverse già da decenni?
Si può anche auspicare un “approccio armonico” sul futuro di NgoroNgoro. Lecito mettere sul tavolo delle trattative la capacità di carico. Ma, forse, sarebbe più onesto ammettere dove stanno le responsabilità dei conflitti che avvelenano questa regione. “Io credo nel concetto di capacità di carico, certamente, e la crisi climatica è qui per ricordarci che i limiti di carico esistono e dobbiamo considerarli”, dice Arudhna Mittal.
“Ma chi ne discute? Non certo noi, in Occidente, dove nessuno vuole rinunciare al suo stile di vita. E dove si sogna la Tesla, o il nuovo iPhone. Parliamoci chiaro, nessuno viene a casa nostra, negli Stati Uniti o in Italia, a dirci, ehi, ho le migliori soluzioni per i tuoi problemi ecologici. Fatti da parte, e le implementerò per te. Eppure, è ciò che avviene in Africa. Si mantiene vivo da decenni un doppio standard”.
Per Mittal sarebbe ingenuo pensare che grandi e prestigiose organizzazioni internazionali parteggino apertamente per piani espliciti contro interi gruppi etnici. La distorsione della realtà sociale del cratere di NgoroNgoro è più sottile. “È questo su cui vogliamo insistere per i Maasai. Il loro impatto rispetto all’impatto del turismo. Lo sviluppo economico tramite il turismo, va bene, ma a favore di chi? Tutti siamo per la conservazione, ma la conservazione deve essere un processo partecipativo, nato dal basso della società civile. E non si tratta neppure di puntare il dito contro qualcuno.
Ci sono ottime persone anche nelle ONG. Però è ancora operativo, dentro queste organizzazioni, un modello coloniale di protezione della natura, nonostante l’indipendenza di queste nazioni dalle potenze coloniali. La conservazione così come è oggi è una atteggiamento mentale strutturale, datato, dal fascino antico”.
Una visione lacunosa
L’intera vicenda svela una lacuna di progettazione nella visione della nazione che la Tanzania decise di adottare negli anni ’60. La separazione netta tra uomini e animali, e la marginalizzazione delle persone, hanno dato l’effetto opposto di quello previsto, e non solo a NgoroNgoro.
“La creazione dei parchi non ha creato floride popolazioni di animali selvatici, che migrano oltre confine. Questi parchi hanno semplicemente facilitato lo spopolamento degli animali selvatici al di fuori dei loro stessi confini. Finendo con il rafforzare le loro stesse linee di demarcazione. La fondazione dei parchi accelera la classificazione del paesaggio dentro le categorie di territorio sviluppato e territorio selvaggio immaginato da Hingston”.
La sensazione è, quindi, che l’opposizione più estrema e tagliente non sia tanto tra Maasai e governo centrale, ma tra i diritti dei Maasai e la cornice ideologico-economica che ha risucchiato, insieme a NgoroNgoro, anche le loro vite.
Se i Maasai avessero più diritti dentro NgoroNgoro, nulla cambierebbe nella configurazione istituzionale della loro terra, che da mezzo secolo non ha più un valore di per sé.
I parchi nazionali, sotto la superficie delle loro indubbie virtù, sono soltanto le enormi aree di divertimento del capitalismo avanzato. “Ancora più importante dell’influenza esercitata dalle organizzazioni stranieri (ndr, le ONG) è il ruolo dei governi africani stessi. Essi sono soltanto un altro dei canali attraverso i quali i desideri dei turisti fanno sentire la loro voce”, scrive Dan Brockington.
“Messa in termini semplici, gli Stati africani sono ben felici di creare spazi dove i turisti possano recarsi. I turisti pagano soldi sicuri. E quindi sono molto più affidabili nel pagare le tasse rispetto ai cittadini residenti che il governo scaccia dalle loro terre. Ma c’è anche di più.
I miti dei turisti sono in felice accordo con la visione degli Stati di ciò che uno Stato moderno dovrebbe essere. I parchi nazionali forniscono uno strumento per spostare e modernizzare i popoli indigeni che sono percepiti come primitivi e vengono dopo i loro governi.
Un sistema ben rodato di aree protette è inoltre percepito come buono di per sé, una misura riconosciuta di progresso messo lì a mostrare gli indicatori del successo degli obiettivi di sviluppo del millennio. Le aree protette ancora selvagge possono anche essere una invenzione coloniale, ma sono state abbracciate con entusiasmo dai governi post indipendenza”.
(NgoroNgoro: un Eden per i turisti occidentali. Una regione controversa dal futuro incerto per i Maasai)
Come a dire, ciò che è già protetto non si tocca. Poi viene il resto, che seguirà le stesse regole viste fin qui. E adesso la massima attenzione è sulla connettività dei parchi nazionali. Pur con un certo imbarazzo, è stata abbandonata la concezione delle aree protette incastonate nel paesaggio. Oggi quasi tutti ammettono che le specie animali hanno bisogno di spazio per muoversi e prosperare. Gli Inglesi si sbagliavano, nel Kenya degli anni ’30.
Eppure, ed è paradossale, il mindset degli Inglesi del tempo della Regina Vittoria è ancora oggi un punto di riferimento politico ed economico. Parchi nazionali più grandi, ma sempre avulsi dal contesto circostante.Natura più protetta, ma pur sempre enorme riserva. Possiamo anche essere a favore di una ritirata parziale degli umani a vantaggio totale delle altre specie, è un argomento che ha solide basi filosofiche. Ma sul fatto che i parchi nazionali a isola non siano la soluzione alla sesta estinzione non si può discutere.
Le specie animali hanno bisogno di spazio.
Ecco perché il governo della Tanzania ha solidi appigli per riorganizzare NgoroNgoro senza toccare l’impianto generale delle sue politiche ambientali. La direzione politica generale sembra orientata su enormi riserve all’interno dell’imperante schema economico globale.
Il governo nutre infatti l’ambizione di unire “NgoroNgoro, Selela e il corridoio del Manyara Ranch per connettere il Serengeti-Mara con il Lake Natron e l’ecosistema Lake Manyara – Tarangire (ndr, entrambi parchi nazionali)” e quindi “per aumentare la funzionalità degli ecosistemi”. Perché, in sintesi, “cambiare i confini di NgoroNgoro arricchirebbe il flusso di geni tra differenti popolazioni di animali selvatici e tra gli stessi ecosistemi”.
Nei negoziati internazionali della CBD, aumentare la protezione per la biodiversità significa dichiarare protetto il 30% del Pianeta entro il 2030.
Il 30% di Pianeta protetto entro il 2030
La soglia del 30%: un numero magico, una panacea simile al limite di + 1.5 °C spacciato nel 2015 a Parigi come soluzione alla crisi climatica. Una similitudine che dovrebbe metterci paura.
Dal 1992, la CBD è la piattaforma di accordo e discussione sovranazionale più importante per la protezione della natura.
È il tavolo a cui, nel bene e nel male, si siedono i governi del mondo che hanno firmato la Convenzione per discutere del declino degli ecosistemi e dell’estinzione del regno animale.
Quindi il fatto che la CBD abbia adottato la soglia del 30% significa questo, che il 30% di Pianeta protetto è una unità geografica scientificamente motivata. Non è un numero a caso, è un numero che viene fuori da studi, ricerche, raccolte dati lunghe anni.
Nel 2016 è la IUCN, insieme alle organizzazioni che ne fanno parte, a proporre la protezione totale per il 30% degli ecosistemi marini. Nel 2018 un editoriale su SCIENCE (J.Baillie, Y-P Zhang, Space for Nature, SCIENCE 361, 1051) sostiene che la stessa percentuale debba valere per gli ecosistemi di terra ferma.
Poi, nel 2019, un lungo articolo su SCIENCE ADVANCES (A global Deal for Nature: Guiding Principles, milestones, and targets)svela tutte le carte della proposta. Diventando di fatto il punto di riferimento sostanziale del futuro accordo globale per la natura, il cosiddetto “global deal for nature (GDN)”. È un vademecum che si regge su alcune evidenze molto forti.
Clima e biodiversità sono interdipendenti e siamo ormai vicini ad un punto di non ritorno: “la biodiversità è parte attiva del flusso del carbonio in atmosfera”. Infatti “oltre la soglia del 1.5 °C (ndr, di aumento delle temperature medie globali) la biologia del pianeta sarà gravemente danneggiata perché gli ecosistemi cominciano letteralmente a collassare”.
Quindi, non basta proteggere le foreste primarie rimaste, bisogna ripristinare gli ecosistemi danneggiati “per creare emissioni negative” e avviare una “conservazione aggressiva degli habitat rimasti”.
Il GDN è “un piano vincolato alle scadenze temporali, basato su evidenze scientifiche, per salvare la diversità e l’abbondanza della vita sulla Terra”. Al 30% protetto dovrebbe essere aggiunto un “20% designato come aree di stabilizzazione climatica” per stare sotto + 1.5°C. Sono le CSAs (Climate Stabilization Areas)”. Per stabilizzare il clima, arginare il declino della biodiversità ha una importanza strutturale.
Gli obiettivi del GDN sono più ambiziosi degli Obiettivi di Aichi al 2020, perché seguono una stringente logica evolutiva: “mantenere popolazioni vitali di tutte le specie native entro la dimensione naturale della loro abbondanza e distribuzione” e “affrontare i cambiamenti ambientali mantenendo i processi evolutivi e adattandosi così agli impatti del cambiamento climatico”.
La connettività tra aree protette è fondamentale in questa prospettiva: “assicurare la creazione di network di aree protette che rappresentino il più vasto assortimento di habitat e, per estensione, conservare il più vasto assortimento di specie e i loro adattamenti unici ai loro ambienti”. Il ruolo dei popoli indigeni viene citato, ma in un paragrafo decisamente marginale.
Il 12 luglio scorso, infine, la bozza del GDN presentata alla stampa sanciva ufficialmente l’inclusione del 30% nella cornice su cui lavora la CBD: “l’obiettivo numero 2 della bozza di accordo recita: entro il 2030, proteggere e conservare, attraverso un sistema di ben connesse ed effettive aree protette e altre misure di conservazione basate sul territorio, almeno il 30% del pianeta”. SURVIVAL INTERNATIONAL ha subito definito l’obiettivo del 30% “il nuovo imperativo coloniale verde”.
I finanziatori privati
Intanto, però sono usciti allo scoperto i pesi massimi della natura del XXI secolo. Lo studio pubblicato da SCIENCE ADVANCES ha messo in movimento alcuni degli ambienti più prestigiosi non solo della protezione della natura, ma anche del giornalismo ambientale.
È stata così lanciata una petizione online voluta da ONE EART, un progetto che unisce LEONARDO DI CAPRIO FOUNDATION, AVAAZ, RESOLVE e NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY.
La Fondazione HALF EARTH insiste per una soglia ancora più alta, del 50%, e ha come manifesto e ispirazione Half Earth, il saggio di E.O.Wilson del 2016.
Perché il 50% ? Perché la causa numero uno del collasso delle specie è la perdita di habitat. Più estesa è una riserva, più è alto il numero di specie che ci abitano. Quali riserve proteggere? Le moderne tecnologie per individuare la presenza degli animali permettono di costruire mappe molto precise per capire le regioni del mondo che meritano priorità.
Questi i principi guida della Fondazione. Le comunità indigene devono essere “onorate” e rispettate. Ma la crisi è tale da imporre scelte geografiche altrettanto drastiche.
Identica è la posizione del collettivo NATURE NEEDS HALF, nato nel 2009 dalla WILD FOUNDATION. Tra i co-fondatori c’è Harvey Locke, un pioniere del concetto di connettività tra grandi parchi transfrontalieri nel Nord America con il progetto Y2Y, “Yellostowne to Yukon”.
Sul sito del gruppo sono disponibili materiali scientifici per verificare la concretezza delle posizioni proposte sul disastro ecologico. “Siamo impegnati a connettere gli spazi naturali e le persone, per avere paesaggi più sani, animali che si muovono più efficacemente da un posto all’altro, e vite più ricche di significato per le persone”. E anche qui i popoli indigeni figurano come imprescindibili protagonisti del difficile futuro.
Non c’è dubbio che chi ha molti soldi, per una ragione o per l’altra, ne stia investendo nelle riserve e nei parchi nazionali. Un esempio fulgido di investimenti privati è la Ngo AFRICAN PARKS.
E soprattutto la loro scintillante iniziativa LEGACY LANDSCAPES FUND lanciata il 19 maggio scorso nel cuore dell?Europa, a Berlino. AFRICAN PARKS è responsabile del recupero e della gestione di alcuni dei progetti più importanti degli ultimi 20 anni, come Akagera in Rwanda (dove è stato reintrodotto il leone, localmente estinto, grazie ad esemplari del Sudafrica), Zakouma in Chad (parco dove, sempre con animali nati in Sudafrica, si prova a reintrodurre il rinoceronte) e Matusadona in Zimbabwe. A Berlino, alla presentazione di LEGACY LANDSCAPES, c’era addirittura la presidente della CBD, Elizabeth Maruma Mrema.
LEGACY LANDSCAPES è un fondo in cui ricchissimi finanziatori privati e Governi bonificano il loro contributo in dollari per “fermare la perdita di biodiversità”.
Il fondo è “una iniziativa congiunta del Ministero per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica della Repubblica Federale tedesca, della Agence Française de Développement (AFD), di Campaign for Nature (CfN), della Frankfurt Zoological Society (FZS), della IUCN, dell’UNESCO World Heritage Centre e del WWF. Il Governo francese ha dichiarato che comincerà a contribuire nel 2022”.
L’obiettivo è fornire ad almeno 30 Paesi (su almeno 60mila Kmq) abbastanza denaro da proteggere negli anni a venire le loro terre selvagge. La Germania di Angela Merkel ha già staccato un assegno da 82.5 milioni di euro.
La Gordon and Betty Moore Foundation altri 5 milioni di dollari. Si punta a raggiungere il miliardo di dollari di donazioni il prima possibile. I nomi delle località africane coinvolte parla da solo: North Luangwa NP Zambia, Iona NP Angola, Gonarezhou NP Zimbabwe, Odzala-Kokua NP DRC (Repubblica Democratica del Congo).
Chi si batte per i diritti dei Maasai in Tanzania e dei popoli nativi denuncia questo modus operandi. Ne critica l’impostazione ideologica, ma anche la reale efficacia nel fermare l’emorragia di biodiversità.
Per questo il 2 settembre scorso il fronte alternativo della conservazione ha organizzato a Marsiglia un convegno per “decolonizzare la conservazione”: OUR LAND, OUR NATURE.
In aperta polemica con la IUCN, che pur ha indetto per il 3 settembre il “World Summit of Indigenous People and Nature” schierandosi a favore della questione più generale dei diritti di uomo e natura: “i diritti della natura e i diritti verso la natura: quali nuovi principi e strumenti sono necessari nel diritto ambientale internazionale? (…) Entro il 2030 dobbiamo raggiungere un equilibrio armonico tra l’integrità ecologica del paesaggio naturale, una prosperità condivisa e la giustizia per i custodi degli ecosistemi ancora funzionanti. Lo dobbiamo fare entro i limiti che la natura è in grado di sostenere”.
(Il cratere di NgoroNgoro al tramonto in stagione secca)
Gli obiettivi di protezione delle aree protette e degli animali selvatici propagherebbero “una forma neo-coloniale di conservazione, che è ritagliata apposta su potenti interessi globali. Da una lato una memorializzazione della natura e dall’altro il furto di terra (green grabbing)”.
Il lavoro della stessa CBD avrebbe quindi un impianto coloniale: “la contemporanea espansione del network globale di aree protette è il prodotto di una coalizione potente di donatori, istituti di ricerca e gruppi di pressione uniti a istituzioni multilaterali che hanno esteso il loro peso politico ed economico sulla conservazione ad aree protette esclusive”.
Tra questi attori più o meno occulti ci sarebbero i giganti della conservazione: Conservation International, The Nature Conservancy, e il WWF.
Secondo questi ricercatori, ridurre la natura rimasta a una fortezza protetta da militari addestrati da bianchi e armati contro i bracconieri serve per aprire la strada a meccanismi di monetizzazione della biodiversità, come i green bond o il carbon market.
Insomma, recintare gli habitat non serve: “mettere sotto chiave la natura in blocchi sicuri di natura selvaggia non eviterà la sesta estinzione di massa, perché gli aggiustamenti istituzionali allo status quo aiutano a perpetuare sistemi politici ed economici che sono alla radice della distruzione della biodiversità.
Ma, cosa ancora più importante, la conservazione-fortezza non risolverà neppure il cambiamento climatico. La crisi climatica in atto minaccia di travolgere le aree selvagge da decenni, come appare evidente negli incendi in Amazzonia, in Australia, nel Canada Occidentale e nell’Ovest americano”.
Oggi, pur nel dissesto economico globale e nel caos della pandemia, queste voci cominciano a conquistare la platea internazionale. Rivendicando per il pensiero africano sugli animali selvaggi un posto centrale. E quindi quella nuova etica della conservazione che nel 1992, anno dello Earth Summit di Rio e della nascita della CBD, era ancora una utopia.
“Le pratiche della conservazione colonialista implicano violenza e disonestà. I media non mostrano mai immagini di Africani che convivono pacificamente con la fauna selvatica”, ha dichiarato Ogada. “Perché vogliono rimuovere gli Africani neri dalle loro terre, anche se conviviamo con la fauna selvatica da milioni di anni”.
OUR LAND, OUR NATURE ha avuto il coraggio di dire che la crisi della biodiversità è una crisi esistenziale. Umanitaria. Un futuro spaventoso per gli animali e le foreste significherà un abisso per l’umanità. E cioè fine della nostra esperienza estetica ed emotiva di un Pianeta biologicamente vivo.
Questa condizione del XXI secolo non è una faccenda che riguardi quindi solo i Paesi che ancora oggi, con disprezzo e supponenza, definiamo “in via di sviluppo”.
A Marsiglia, Guillaume Blanc, docente di storia ambientale alla Università di Rennes 2 (Bretagna, Francia), ha sintetizzato il dramma della nostra civiltà attuale: “la naturalizzazione è una forma di de-umanizzazione”. Vale a dire che la pretesa occidentale di ridimensionare la natura selvaggia sui bisogni della industrializzazione ha snaturato il contesto biologico del Pianeta. Uomini compresi.
NgoroNgoro undici anni fa
Sono passati undici anni da quando visitai NgoroNgoro. Il giorno prima dell’ingresso nella conservation area pernottammo in una locanda nel distretto di Karatu, che distava in jeep circa un’ora dal gate di accesso al parco nazionale. Eravamo in pieno inverno e la nebbia acuiva il freddo pungente e sferzante.
Ma non erano il cielo grigio e il tramonto precoce a lasciare una cortina di amarezza e disagio sugli edifici in lamiera, cartone e mattoni della strada principale. La povertà mordeva gli occhi, seccava la parola, inquinava lo spirito.
Cenammo nel nostro albergo. Uno stuolo di ragazze servizievoli, dal volto triste e rassegnato, ci servì patate e carne arrosto in un silenzio di tomba. Ricordo che ciò che più mi colpì furono i loro abiti.
Indossavano gonne e camice degli anni Settanta. Come se lì a Karatu il tempo si fosse fermato. Come se il tempo fosse una trappola, un inganno, una menzogna. Da cui i turisti avevano il privilegio di evadere in qualunque momento lo avessero voluto. Pagando in dollari il carburante diesel delle loro Land Rover.
Noi eravamo i bianchi che la mattina successiva sarebbero partiti per vedere, e toccare, e sentire dentro l’olfatto e il gusto, la polvere dei luoghi in cui i nostri progenitori avevano passeggiato sulla lava vulcanica di 2 milioni di anni fa.
A quelle ragazze spettava l’eredità sporca, contaminata, della storia successiva.
Non ero mai stata in Africa prima. Ero entusiasta, ma quella sera provai anche vergogna. Mi vergognai di aver mangiato quelle patate, di aver acconsentito a respirare anche io l’ossigeno globale del razzismo moderno.
Sentivo che qualcosa non funzionava, ma non ero in grado di dare un nome al sentimento di disintegrazione che non riusciva ad andarsene.
(La strada principale di Karatu, non lontano dal quartiere degli alberghi per i turisti)
Oggi penso che la vergogna sia un buon alleato per provare a capire che cosa succede in Africa e che cosa non va nel nostro mondo. Il turismo è quasi sempre fuorviante. È un agente corruttore. È uno spietato seduttore.
Migliaia di persone pensano di amare la natura soltanto perché raggiungono posti come NgoroNgoro. La maggior parte di loro non sa nulla del cratere, non conosce il nome preciso delle specie animali che incontrerà, ignora la storia di discriminazione razziale e di “sviluppo” forzato che ha stuprato le civiltà endemiche di questa regione.
I Maasai, costretti a recitare la loro parte e ad accogliere i turisti nei loro boma, sono diventati gli ospiti dell’atmosfera elettrizzante cucita addosso ai bianchi stranieri.
Questa ignoranza ha un peso politico cruciale. In Tanzania, e in nella società civile occidentale, che pretende di costruire il futuro di NgoroNgoro postando foto sui social media.
Con la forza di livellamento psicologico di un rullo compressore, il turismo industriale ha strappato all’opinione pubblica l’idea di biosfera. E così i diritti degli Africani, che spuntano tra leoni ed elefanti come camerieri, valletti, guide, autisti, sono semplicemente fuori equazione. Non esistono.
Ma anche la biosfera, se esiste solo nelle aree protette, allora non è più una biosfera, ma un terreno di coltura di qualcos’altro, che innesta in noi e nei Maasai, anche se non ce lo siamo mai detti, anche se nessuno di noi lo sa ancora, lo stesso disagio, lo stesso disadattamento emotivo, la stessa angoscia.
Leggendo le storie dei Maasai, i report scritti su di loro, ma non da loro, rimane addosso un sentimento oscuro di tradimento. Come se il contesto generale sfuggisse continuamente, vanificato dallo splendore degli animali e del paesaggio, oggi, come undici anni fa. La sensazione che qualcosa di enorme, mal accordato, l’unica cosa che conti davvero, ci sfugga completamente.
Io, come tantissimi altri, salii a NgoroNgoro per scoprire le radici della nostra umanità. Ma il dolore di questo posto, di uomini e animali, entrambi confinati dentro confini ristrettissimi, mi ha fatto infine trovare un essere umano molto diverso dal sogno della paleontologia.
Il nemico della natura non è Homo sapiens, ma il modello economico-esistenziale di matrice europea ormai vecchio di 5 secoli che noi chiamiamo capitalismo. Non c’è nessuna relazione primaria con la natura, ma solo una relazione con il vivente, uomo o animale che sia.
Capirlo è l’esperienza più selvaggia che ciascuno di noi possa intraprendere. Anche a migliaia di chilometri di distanza dalle savane orientali della Rift Valley.
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(Ricostruzione del cranio di Homo Nesher Ramla. C’è una vertigine dentro di noi: la profondità del tempo evolutivo che ciascuno porta nel suo DNA è il luogo in cui cercare le radici della nostra moralità. Photo Credits: Ufficio Stampa Università La Sapienza – Roma)
La performance ambientale dei Sapiens ha raggiunto il suo acme. Questo punto di non ritorno si chiama Antropocene. La nostra epoca segna infatti la maturità di Homo sapiens, il momento, lungo una storia evolutiva lunga due milioni e mezzo di anni, in cui possiamo finalmente constatare gli effetti ecologici della nostra umanità.
Il 24 febbraio del 1871 Charles Darwin diede alle stampe un libro destinato a divenire ancora più spinoso dell’Origine delle Specie. Questo libro era The Descent of Man. La ricerca, stavolta, “avrebbe dovuto spaziare dalla selezione sessuale e dalle scimmie progenitrici fino all’evoluzione della morale e della religione”. Darwin aveva intenzione di dimostrare che anche le più alte qualità morali della società britannica avevano una eziologia racchiusa nella storia biologica dei suoi cittadini. Non c’era nulla di metafisico o di soprannaturale (ossia divino) nel codice di condotta delle persone dabbene, o nella necessità moderna di ordinamenti giuridici e politici che tenessero ben distinto il bene dal male. Dopo il gran chiasso dell’Origine, Darwin, una volta tanto, era in sintonia con il suo tempo: “applicare alla società le teorie del darwinismo era ora un business intellettuale in rapida espansione”.
A tal punto che Walter Bagehot, che di professione faceva il banchiere, ma era anche un redattore dell’Economist, sosteneva pubblicamente che “il progresso si verificava solo se la società era autoritaria. La civiltà cominciava con l’obbedienza, il rispetto della legge e il ‘vincolo militare’”. La forza, in definitiva, presupponeva sempre una morale. Darwin era affascinato da simili idee e le lodava con i suoi amici. I suoi biografi inglesi Adrian Desmond e James Moore arrivano ad affermare che “di certo Darwin aveva in mente gli inglesi colonialisti quando scrisse questo appunto: i popoli che si spostano e si incrociano sembra che abbiano le maggiori probabilità di variare”. Morale, impero ed evoluzione. I tre termini fondamentali che dovevano, e potevano, dire qualcosa di sostanziale sulla vicenda storica umana.
Darwin si diede, in definitiva, questo compito: dedurre la genesi della morale dalla genesi della nostra specie. Una questione tutt’altro che tramontata, o vetusta. La performance ambientale dei Sapiens è oggi più che dibattuta, nello sforzo epistemologico di comprendere quanto e come possiamo essere considerarci responsabili colposi del collasso ecologico.
In The Descent Of Man Darwin sostenne che la maggior parte delle differenze tra gli esseri umani e gli animali superiori fosse questione di “intensità e non di tipologia”. Negli ultimi mesi numerose coincidenze attorno all’anniversario, i cento cinquant’anni appunto, hanno reso molto popolare l’assunto di Darwin, “of degree and not of kind”. Il 2021 è stato salutato come anno dedicato a importanti svolte nelle politiche ambientali. A ottobre, l’Inghilterra ospiterà a Glasgow la COP26, che ha l’ingrato compito di negoziare l’accordo mai raggiunto, e mai trovato, sul contenimento entro limiti accettabili della distruzione del sistema climatico terrestre. Lo stesso mese, la città di Kunming in Cina aprirà i lavori della Convention on Biological Diversity.
Di nuovo un obiettivo di scala epocale: definire i contorni di un accordo per la protezione della biodiversità dell’intero Pianeta, in grado di trasformare la vita umana iper-moderna in una vita “in armonia con la Terra”. Si percepisce in tutto questo una sorta di stanchezza che non vuole ammettere di essere stanca. Già si parla di un rinvio di Kunming al 2022 e il draft distribuito alla stampa il 12 luglio non contiene elementi davvero conformi all’allarme lanciato dall’IPBES nel 2019. Queste diplomazie bio-climatiche assomigliano a un pugile messo all’angolo dall’avversario, che, sotto una gragnola di colpi sempre meglio assestati, non riesce a reagire o a controbattere. L’incontro, certo, sta in piedi. Lui continua a combattere. Non cede e non perde, ma neppure cambia il corso del match.
In The Descent of Man Darwin sostenne che era possibile dedurre la genesi della morale dalla genesi dalla nostra specie. L’evoluzione umana aveva comportato anche l’evoluzione del pensiero morale. Che peso ha tutto questo, oggi, in Antropocene?
C’è confusione là fuori, e anche dentro le nostre società afflitte da una crisi globale segnata dal ristagno economico, da ondate di calore senza precedenti nel Nord America, dalla pandemia, dalle alluvioni in Germania. Questa confusione proviene dalla sensazione che ai summit internazionali manchi la terra sotto i piedi. Proviene anche da una intuizione: all’avvicinarsi del punto di non ritorno della crisi biologica e climatica, non ci è chiaro con chi abbiamo a che fare. Il cosa lo conosciamo. È minuziosamente documentato. Siamo ormai oltre la bio-capacità del nostro Pianeta.
Ma il chi, il soggetto, insomma, di questo eccesso di produttività (la CO2, la plastica negli oceani, il numero di specie in estinzione) non è altrettanto convincente. Anzi, la paleo-antropologia spazia ormai così a fondo nel nostro personale mistero che è difficile non farvi ricorso per ampliare la domanda sostanziale sulla nostra identità di specie. Stiamo forse vivendo l’acme della storia evolutiva umana? E, di riflesso, è questo il significato da attribuire all’esperimento di costruzione di nicchia avviato a partire dalla fine del Pleistocene? Che cosa significa che siamo diversi da ogni altro animale nella misura “of degree and not of kind”?
Dunque ciò che successe, lungo la nostra storia evolutiva, è questo: “una volta che le abilità per accumulare cultura e per estendere la cooperazione furono in campo, un insieme di conseguenti cambiamenti evolutivi (a suite of subsequent evolutionary changes) divenne a sua volta possibile e probabilmente inevitabile”.
A partire da 300mila anni fa, la cultura agì, per così dire, come un acceleratore evolutivo, che, entrando in sinergia con la selezione naturale su base genetica, fornì alla nostra specie un motivo, una causa efficiente e una spinta ecologica interna tali da garantirci una diffusione geografica planetaria. Questa co-appartenenza reciproca della vocazione umana ad espandersi in ogni tipo di ecosistema e delle condizioni ambientali complessive del medio e tardo Pleistocene ha prodotto la sfasatura ecologica del XXI secolo. Viviamo infatti nel pieno dell’affermazione di Homo sapiens, che coincide però con un dissesto generale della biosfera e dell’atmosfera.
È come se il nostro perfetto adattamento alle circostanze esterne (Antropocene) in funzione delle circostanze interne (la nostra genetica) non fossero allineate, o coerenti le une con le altre. L’Antropocene non sarebbe che il punto di collisione tra la perfezione delle nostre doti adattative e i biomi. Un punto di frizione interno, una screziatura ontologica permanente dentro la performance ambientale di Homo sapiens.
Da qui deriva lo sgomento per la distruzione imposta agli ecosistemi, per le montanti estinzioni e per i segni visibili di una nuova era climatica fuori dall’Olocene. Ma da qui origina anche il disprezzo di alcuni per Homo sapiens in quanto tale. Condanna che prende le forme o di un utopismo a-scientifico e mitologico o dell’intento intellettuale di decentrare Homo sapiens per recuperare dignità, personalità giuridica e consistenza ontologica alle altre specie.
Nessuna di queste due posizioni sembra però centrare il bersaglio fissato da Darwin: “of degree and not of kind”. La storia evolutiva dei Sapiens non si esaurisce nella morale, elaborata come tecnica di sopravvivenza ecologica. Semmai, trova un suo compimento nel nostro presente di dissesto globale.
L’amnesia congenita
In una science-fiction prodotta da una poderosa major americana Homo sapiens potrebbe ricordare i suoi antenati. Ritrovarsi dotato di una memoria tridimensionale, che proietterebbe sullo schermo della sua immaginazione le scene di vita quotidiana del mondo a partire dai 7-5 milioni di anni fa, quando cominciò l’avventura delle scimmie del tardo Miocene. Questo tipo di memoria ci aiuterebbe là dove schiere di geniali filosofi hanno fallito per secoli: definire la vera natura del tempo, agguantandone i segreti e usandoli per chiarire la nostra posizione nel cosmo. Ovviamente, nessuno può ricordarsi qualche parente in più delle poche decine di Homo sapiens che ha incontrato nella sua biografia.
Eppure, questa amnesia che ci portiamo dentro noi umani lavora nella nostra coscienza. E proprio nella fucina di ciò che, a partire da Descartes e Galileo, abbiamo inteso con “coscienza”. Ossia, il formidabile apparato di elaborazione dell’esperienza percettiva che diventa capacità di porre la realtà stessa attraverso la costruzione di concetti logico-matematici. Nel modo in cui, oggi, entriamo in relazione con il Pianeta vivente, con le sue faune, con le sue foreste, le sue praterie, le sue savane, le sue distese di ghiacci, i suoi deserti; ecco, su tutto questo soffia il vento antico dei nostri antenati geneticamente codificati e sopravvissuti nel nostro DNA. Non li ricordiamo. Ma il contributo che hanno dato per farci diventare ciò che siamo oggi è qui con noi. La grande amnesia condiziona infatti non solo la qualità ecologica della vita del ventunesimo secolo, l’impatto ambientale del nostro stile di vita, ma soprattutto la reattività della civiltà umana globale alle conseguenze della propria presenza sulla Terra.
Homo sapiens del XXI secolo è iper-attivo. Ma quando si ferma a riflettere sugli effetti di queste azioni frenetiche, non è più tanto sicuro di capirci qualcosa. Pragmatico fino alla morte, eppure destabilizzato dall’interno.
La eco-cultura dell’Ottocento, il secolo della nascita del capitalismo globale, è in linea con la temperie filosofica che spinge Marx a identificare la totalità dell’esperienza con il potere di trasformazione della società e della natura. L’uomo morale è altamente razionale e proprio per questo progetta di ri-organizzare il mondo.
Il pragmatismo della ragione è il prodotto ultimo della rivoluzione scientifica. Questa rivoluzione non è stata solo una messa a soqquadro delle precedenti letture del mondo. È stata probabilmente, in maniera ancora più drastica e radicale, l’affermazione della supremazia definitiva del talento ecologico degli esseri umani. A questa dimensione delle abilità umane si riferiva Marx quando metteva la produzione al centro della sua teoria dell’esistenza.
La eco-cultura dell’Ottocento, il secolo della nascita del capitalismo globale, è esattamente in linea con la temperie filosofica che spinge Marx a identificare la totalità dell’esperienza con il potere di trasformazione della società e della natura. Per questo nelle Tesi su Feuerbach, Marx scrisse: “i filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta di trasformarlo”. Ciò che, dopo lunga maturazione, finisce in secondo piano nel corso del XIX secolo, è una visione complessiva di Homo sapiens.
E visione complessiva significa: considerare Homo sapiens un prodotto dell’evoluzione della specie, che nella sua natura evolutiva incontra i suoi limiti anche là dove sprigiona la sua efficacia ecologica. La ragione inghiotte tutto il resto. L’uomo, definito esclusivamente dalle sue doti razionali, si sgancia consapevolmente dalla altre sue caratteristiche innate. Eppure, la natura evolutiva di Homo sapiens è sempre lì. E lontano dai confini europei predispone gli esseri umani ad atteggiamenti verso il Pianeta che le civiltà non occidentali hanno saputo conservare più a lungo: compartecipazione, contemplazione, accettazione.
Benché anche questi atteggiamenti intellettuali abbiano un fondamento bio-culturale, in Occidente essi sono finiti imbrigliati in un processo di selezione sociale e culturale che li ha esclusi dalla ormai dominante esperienza del mondo e della comunità umana. La ragione assoluta è la grande regista dell’Antropocene.
Oggi, l’impronta ecologica umana sulle specie animali sbugiarda i limiti della ragione. Se siamo molto più simili alle altre specie di quanto ci piaccia supporre, allora l’estinzione programmata e accettata degli animali e delle piante compromette il primato della ragione moderna. La maturità di Homo sapiens è una sconfessione della sua modernità illuministica.
Le dimenticanze, le omissioni, la trascuratezza che riserviamo ai viventi non umani non sono che una faccia, la più ambigua, della grande amnesia. Agiamo come se sapessimo chi siamo, ma di fatto non prendiamo in considerazione il nostro passaporto genetico ed ecologico per affrontare la realtà dell’Antropocene. Tendiamo così a sostituire all’evoluzione la politica, o, peggio, l’ideologia.
Dove nasce la morale
La più pericolosa di queste ideologie considera Homo sapiens estraneo alla storia del Pianeta. Preda di una ansia di giudizio e di verdetto di colpevolezza, questo pensiero che pretende di demistificare l’Antropocene rimane intrappolato nella sua contraddizione fondamentale. Il disastro ecologico non smette di essere “naturale” perché ad esserne responsabile è l’essere umano. Un maturo discorso scientifico va ben oltre l’estatico abbandono a condanne tout-court. Ed è l’unico fondamento davvero solido per ragionare sulla identità di Homo sapiens.
Questo ragionamento non è privo di angoscia. C’è una vertigine dentro di noi. La vertigine del tempo profondo, dei molti uomini simili a noi che si sono estinti, e che però noi abbiamo conosciuto fino a 40mila anni fa. La vertigine di una storia evolutiva nient’affatto lineare, quindi, ma costellata di “rami periferici” o di “specie-sorelle”. La vertigine prodotta dai pochissimi resti fossili che ci danno il contesto paleo-archeologico degli altri attorno a noi. La vertigine di una specie che si è accorta di sé, e in modo frammentario, soltanto quando i giochi erano già fatti e il Pianeta era suo. Un Pianeta ormai troppo affollato, troppo coltivato, troppo inquinato. Troppo caldo.
Qualunque sia la conclusione morale che dovremo trarre da tutto questo, è soltanto da qui che potrà nascere. Dalla constatazione della posizione evolutiva di Homo sapiens. La vertigine del tempo profondo che ci portiamo dentro è, forse paradossalmente, l’unico scenario storico possibile per formulare ipotesi sulla nostra responsabilità nella crisi ecologica del XXI secolo.
L’atteggiamento morale che ci è richiesto dall’Antropocene, e dalla performance ambientale dei Sapiens, contiene un elemento di imprecisione, di imperfezione e di imprevedibilità. Poiché soltanto adesso le evidenze paleontologiche sulle nostre molteplici linee di derivazione (evolutionary lineages) permettono di costruire ipotesi attendibili sulla complessità e sulle lacune della identità umana, l’Antropocene può essere letto in modo nuovo, fuori da un moralismo distruttivo. Questa epoca di disintegrazione ecologica conclamata segna la nostra maturità di specie. E da questo punto di vista è senz’altro un inizio.
“Si è creduto a lungo che i Neanderthal fossero nati e avessero prosperato sul continente europeo. E tuttavia, recenti studi morfologici e genetici hanno suggerito che i Neanderthal possano aver ricevuto un contributo genetico (genetic contribution) da un gruppo non europeo ancora sconosciuto”. L’uomo di Nesher Ramla, datato tra i 140.000 e i 120.000 anni fa, potrebbe essere questo gruppo: “le analisi comprensive di tipo qualitativo e quantitativo delle ossa parietali (cranio), della mandibola e del secondo molare inferiore hanno rivelato che questo gruppo di Homo presenta una singolare combinazione di caratteristiche del Neanderthal e di qualcosa di più arcaico”. Il confronto dei resti del cranio con numerosi reperti già analizzati non produce infatti nessuna corrispondenza. I frammenti non combaciano, pur mostrando caratteristiche compatibili sia con Homo erectus (la prima specie umana a uscire dall’Africa 1.9 milioni di anni fa) sia con i Neaderthal, cugini decisamente più recenti.
I paleontologi israeliani sono dunque giunti alla conclusione che “i reperti di Nesher Ramla sono quelli degli ultimi sopravvissuti (late survivors) di un paleo-deme (NDR, antica popolazione) del Levante risalente al Medio Pleistocene, che fu molto probabilmente implicato nell’evoluzione di Homo durante la fase centrale del Pleistocene sia in Europa che in Asia orientale”. In altre parole, Hershkowitz ipotizza che l’uomo di Nesher Ramla possa essere stato un precursore dei Neanderthal stessi.
I Neanderthal appaiono in Medioriente non prima di 70mila anni fa. Ma sappiamo che anche i primi uomini anatomicamente moderni (Homo sapiens) abitavano queste regioni, in cui arrivarono 180mila anni fa. Gli israeliani ritengono che a questa convivenza debba essere aggiunto Homo Nesher Ramla.
La “relazione a 3” sarebbe testimoniata dagli utensili usati per macellare animali trovati nel sito stesso di Nesher Ramla insieme ai resti umani: “questi fossili potrebbero appartenere ad un gruppo a parte di Homo dell’Asia sud-occidentale, che precedette cronologicamente i Neanderthal di Amus, Kebara e Ein Qashish”, datati tra i 70mila e i 50mila anni fa. La “morfologia a mosaico” di questi fossili potrebbe spostare dentro la categoria tassonomica di Nesher Ramla anche altri fossili molto discussi rivenuti sempre in Israele.
Tutti apparterrebbero ad un paleo-deme “ la cui presenza dai 420mila ai 120mila anni fa circa in una ristretta area geografica si trovò in frequenti occasioni di interbreding con popolazioni di umani moderni, come ad esempio quelli della grotta di Misliya, una ipotesi avvalorata dalle tradizioni tecnologiche evidentemente condivise”. Questo scenario, a sua volta, sarebbe altamente coerente e compatibile con le prove di un precise flusso di geni tra i moderni umani, e cioè i Sapiens, e i Neanderthal tra 200mila e 400mila anni fa.
Il contesto evolutivo è quindi quello della ibridazione di più specie di esseri umani. Secondo gli israeliani, questo paleo-deme potrebbe addirittura essere la “popolazione fonte” ipotizzata nel modello “source and sink”, ossia il ripopolamento dell’Europa Occidentale durante le fasi alterne della intermittenza glaciale del Pleistocene “attraverso una serie di migrazioni successive”.
Sempre il 25 giugno THE INNOVATION annuncia la scoperta di una seconda, nuova specie, stavolta in Cina: “Late Middle Pleistocene Harbin cranium represents a new Homo species”. I ricercatori hanno ri-datato un cranio umano rivenuto nel 1933 a Harbin, nel nord est della Cina. Anche questo cranio parrebbe appartenere ad una specie completamente nuova di Homo, collocabile tra il Neanderthal e l’Erectus. Questa specie avrebbe abitato la Cina orientale circa 146mila anni fa.
“Il cranio umano di Harbin datato al Medio Pleistocene è uno dei fossili umani arcaici meglio preservati e quindi ha una grande importanza nella comprensione della diversificazione del genere Homo e della origine di Homo sapiens.
Esso rappresenta una nuova linea evolutiva umana che si è evoluta in Asia orientale e trova la sua posizione come membro del sister group (NDR, l’insieme di due o più taxa – gruppi zoologici- derivati da un antenato comune) di Homo sapiens”. La scoperta conferma la mappa sempre più variegata e polimorfa di ominidi del contesto asiatico: “questo essere umano arcaico del tardo Medio Pleistocene (oltre i 146mila anni fa) è sostanzialmente contemporaneo con alcuni altri uomini arcaici del Medio Pleistocene cinese: gli uomini di Xiahe (in media 160 mila anni fa), di Jinniushan (in media 200 mila anni fa), Dali (327-240mila anni fa) e Hualongdong (345-265 mila anni fa).
Questo intervallo temporale si sovrappone ai primi Homo sapiens originari dell’Africa e del Medioriente. Se, dunque, questi umani arcaici dell’Asia orientale appartengono davvero ad una linea evolutiva monofiletica sorella della linea evolutiva di Homo sapiens, questa linea evolutiva deve avere conosciuto un successo pari a quello delle prime popolazioni di Homo sapiens in Africa e in Medioriente. Il motivo è la loro distribuzione su di una area davvero ampia, che includeva anche alcuni ambienti estremi, ad altitudini e latitudini elevate”.
I sempre meglio documentati episodi di ibridazione tra Homo sapiens e le altre specie di Homo ormai estinte raccontano non una storia di ecocidio, ma una parabola evolutiva complessa e articolata che probabilmente ha raggiunto il suo acme e la sua maturità in Antropocene.
Benché la comunità scientifica discuta sulla precisa collocazione tassonomica dei reperti israeliani e cinesi, queste scoperte allargano le tenebre che avvolgono la nostra avventura fuori dall’Africa, ma lo fanno fornendoci in realtà un surplus di complessità genetica e geografica.
Il sostrato essenziale di queste ricerche è che “sin dal nostro ultimo antenato comune con le altre scimmie 6-8 milioni di anni fa, l’evoluzione umana ha seguito il tracciato comune alle altre specie, ossia la diversificazione in specie strettamente imparentate tra loro e alcune ibridazioni conseguenti tra queste stesse specie”.
Così come il Pleistocene garantì ai Sapiens, ai Neanderthal e agli altri occasioni di affermazione e di dispersione sempre più articolate, altrettanto oggi, in Antropocene, la nostra storia culturale è inscritta dentro la storia biologica del Pianeta, ma ora con effetti di amplificazione su scale incomparabilmente più ampie. Questa maggior intensità della co-dipendenza tra noi e il Pianeta non è solo di tipo ecologico. È di tipo culturale. L’interferenza con gli equilibri di atmosfera e biosfera ha prodotto una condizione di esistenza del tutto originale per noi Sapiens: la convivenza con gli effetti finali della costruzione di nicchia. Una sorta di entelechia aristotelica.
L’esito di tutto questo è solo superficialmente il senso di colpa per l’ecocidio. Molto più profondamente, esso è invece una eccezionale pressione adattativa di tipo psicologico e psichico. Non siamo cioè semplici spettatori, più o meno consapevoli o disperati, del disastro. Ci troviamo noi stessi sotto la spinta di driver di cambiamento ecologici su scala globale che impongono un riadattamento del nostro modo di pensare noi stessi. Un ri-adattamento “of degree”. Questa è una sfida evolutiva. E proprio per questo è una sfida autenticamente umanistica, oltre che umana.
Sono gli stessi reperti a dircelo, anche se in una lingua affatto diversa da quella della paleontologia. Una lingua che sa di politica.
Morton studiava il volume del cranio e dalle sue misurazioni traeva conclusioni sulle razze. Non era l’unico a farlo. In epoca coloniale, e negli Stati Uniti, dove la schiavitù era un sistema sociale consolidato, i ricercatori pretendevano di percepire una affinità tra la preistoria umana e lo status biologico delle razze a loro contemporanee. Fino agli anni ’30 del Novecento, le ossa di africani e nativi americani nei musei servirono questo scopo: “studiare la razza e promuovere l’eugenetica”.
È l’Antropocene a imporre sulla scena questi nuovi orizzonti fatti di colonialismo, schiavitù e brutali diseguaglianze nei diritti civili fin dentro il nostro presente. La nostra epoca chiede che sia fatta chiarezza sulle sue prime battute, sui secoli (XVIII e XIX) in cui la civiltà prese possesso di popoli ed ecosistemi per saldare insieme, in una unica prospettiva esistenziale ed economica, morale e modernità.
La maturità di Homo sapiens nel XXI secolo
È in corso un cambio di prospettiva sulla crisi di estinzione del nostro secolo. Per trent’anni il cambiamento climatico è stato il big player del tentativo di affrontare le conseguenze del capitalismo avanzato. Oggi che il capitalismo stesso è sotto scrutinio, il pericolo posto dall’estinzione della diversità biologica emerge come fattore di disintegrazione non solo della struttura ecologica degli ecosistemi, ma anche dell’esistenza degli esseri umani in un senso più antropologico. Per la prima volta, IPBES e IPCC hanno co-firmato un documento di sintesi sulla interdipendenza di clima e biodiversità: “Tackling the biodiversity crisis and climate crisis and Their Combined Social Impacts together”.
In alcuni passaggi il documento si scosta dalla narrativa corrente e cerca di riposizionare la biodiversità, per restaurare il contesto ontologico in cui pensare la crisi di estinzione. Bisogna accelerare sulla conservazione, ma soprattutto bisogna darsi obiettivi e scopi più ambiziosi. Non c’è protezione del clima senza protezione delle faune e dei biomi: “dobbiamo considerare il clima, la biodiversità e la società umana come sistemi interconnessi”.
La nostra impronta ecologica sulla specie animali non è cosa diversa dalla impronta climatica.
Nessuna riflessione sul clima può prescindere dalle valutazioni sempre più preoccupanti sugli effetti di genetica di popolazione prodotti dal mix accelerato di temperatura in aumento e perdita di habitat: “la capacità, e i limiti di capacità, delle specie di adattarsi al cambiamento climatico, la resilienza degli ecosistemi tenendo conto delle soglie-limite per i cambiamenti irreversibili e del background di perdita di biomassa e di biota già in corso, con tutti i rischi del caso associati alle specie stesse”.
Gli habitat ancora selvaggi, e anche quelli gestiti e progettati da mano umana, regolano i flussi di emissioni serra, e quindi sono fondamentali per fronteggiare il riscaldamento. Ma la tenuta di questi ecosistemi dipende dal modo in cui vegetazione e faune potranno rispondere all’alterazione degli schemi climatici su cui si sono evolute.
Ma la deforestazione si somma agli effetti sistemici indotti dal cambiamento climatico: una maggiore mortalità degli alberi e una ridotta fotosintesi. Sottoposti a stagioni secche più lunghe e più torride, gli alberi vanno in squilibrio idrico e muoiono più spesso, anche nei mesi successivi al picco di calore. Il caldo aumenta la velocità della decomposizione di tronchi e foglie, e quindi il rilascio di carbonio, che non è compensato dalla fotosintesi proprio perché la totalità della copertura arborea perde fitness. E ancora nulla di dettagliato ovviamente sappiamo su come risponderanno gli animali a tutto questo.
Sono questi gli scenari bio-climatici e i rischi su cui IPBES e IPCC hanno ricalibrato la loro posizione: “al progredire del cambiamento climatico, la distribuzione, le funzioni e le interazioni degli organismi, e quindi degli ecosistemi, vengono sempre più alterate. Gli ecosistemi e le specie con una distribuzione spaziale ridotta, quelle già vicine ai loro limiti di tolleranza, o con una limitata capacità di andare in dispersione e di fermarsi in nuovi habitat, sono particolarmente vulnerabili al cambiamento climatico.
La maturità di Homo sapiens coincide con un paradosso: la conoscenza del nostro passato è ancora frammentaria. E c’è di più: abbiamo creato un rapporto nuovo con il Pianeta, ma non ne sappiamo nulla dal punto di vista esistenziale ed ontologico.
I rischi di estinzione si moltiplicano in hotspot di biodiversità circoscritti (island-like), come ad esempio le montagne, le isole, le barriere coralline e le baie costiere, o i frammenti rimasti di habitat un tempo molto estesi, oggi separati da paesaggi agricoli, da attività di acqua dolce e marina che supportano molta meno biodiversità”.
In una civiltà globale che ha già perso lo scioccante 83% della sua biomassa di mammiferi, “una notevole capacità adattativa” sarà necessaria per far fronte al futuro anche se le emissioni dovessero venire ridotte in modo consistente. Gli interventi di protezione dei prossimi anni vanno orientati sul rafforzamento della capacità adattativa degli ecosistemi ed è per questo che anche la bozza dell’accordo di Kunming della CBD si espone, finalmente, sulla questione della connettività delle aree protette per garantire il “potenziale genetico evolutivo” di piante e animali (species-rich ecosystems).
Ed ecco, allora, che torna il monito per una “profonda svolta (shift) collettiva e individuale” che porti l’umanità fuori dalle paludi della insensatezza e della indifferenza indirizzandola invece verso il proprio destino. Un destino di co-esistenza con il Pianeta non soltanto strumentale. Rispunta quindi anche la fastidiosa sensazione di non aver chiaro il chi di questa storia. Chi dovrebbe porsi questo obiettivo? E in nome di quale spinta interiore? Considerando la possibile, futura cornice giuridica internazionale, che cosa significa che stiamo facendo esperienza della maturità di Homo sapiens?
“La ricerca moderna sull’origine della moralità si rifà a molte delle prime riflessioni di Darwin su questa questione, ad esempio gli studi sul comportamento animale, che sottolineano le continuità tra la moralità umana e la società animale”. La capacità di mettersi nei panni degli altri (i rifugiati, i profughi, le specie non umane) è un “building block” della moralità umana, che dovrebbe aiutarci a considerare i benefici dell’empatia e della collaborazione su basi di giustizia condivisa.
“Gli psicologi hanno cominciato a vedere nelle concezioni morali intuitive sul male e sul bene ingredienti fondamentali del processo decisionale”, ad esempio “nella rivalutazione del ruolo giocato dalla razionalità nel giudizio morale”.
Il funzionamento delle aree cerebrali rispecchia queste valutazioni: “l’analisi neurologica per immagini mostra che il giudizio morale coinvolge un gran numero di aree del cervello, alcune estremamente antiche”.
L’espressione di comportamenti morali, che noi percepiamo come giusti e doverosi, potrebbe essere un ponte di collegamento tra “i nostri antichi circuiti neuronali e il sistema dopaminergico che presiede alla cura e all’attaccamento”. Secondo le recente teoria della “moralità-come-cooperazione” pensare in modo morale ci è servivo per risolvere i problemi posti dalla cooperazione di più individui in gruppi sociali complessi. E oggi sappiamo che la cooperazione è stato l’innesco di processi evolutivi decisivi per noi.
Dunque empatia, collaborazione e morale sono interconnessi.
Ma se siamo così come siamo per ragioni evolutive, allora è la fisiologia stessa del nostro cervello a riportarci nell’abisso temporale dentro di noi. E si configura, prendendoci per mano, come una vertigine esistenziale. Se proviamo a concepire la domanda sull’essere – cos’è il mondo che ci circonda? da dove veniamo? cosa è l’Antropocene? – ci scopriamo aggrappati al fondamento paleo-storico del tempo profondo.
È dentro di noi che sta la risposta morale alla crisi del XXI secolo.
Invertire la rotta
Poiché l’aspetto più impressionante della crisi è l’annichilimento delle specie animali selvatiche, il tentativo di rispondere a questa domanda è sempre più concentrato sull’urgenza di trovare un posto per animali e piante nella civiltà umana. Restituendo a questi viventi una dignità e dei diritti. Finora la polarizzazione tra i difensori delle specie non umane e i difensori dei diritti umani è stata acuta. Ed è prosperata sull’assunto, comune ad entrambe le parti, che non sia possibile schierarsi su uno dei due fronti senza fare torto all’altro.
In un brillante contributo sulla rivista DIALOGUES IN HUMAN GEOGRAPHY (“The nonhuman turn: Critical Reflections on alienation, entanglement and nature under capitalism”), Bram Büscher ha criticato questa impostazione, mettendone in luce una aporia sostanziale. Escludere gli esseri umani dall’inversione di rotta nei confronti dello sfruttamento del Pianeta conduce questo tipo di pensiero ad esaurirsi in una idealizzazione dei rapporti di forza tra specie priva di un solido contesto storico di riferimento.
Una critica non di poco conto, che insiste infatti sulla necessità di integrare con rigore le motivazioni morali del nostro sguardo sugli esseri viventi in una cornice storica. Nessuno dei problemi attuali può sussistere fuori dal sistema socio-economico che ha plasmato tanto gli animali quanto i popoli negli ultimi secoli.
Se cioè vediamo le specie animali come oggetti biopolitici (materia vivente da inserire in logiche di produzione industriale) è perché noi stessi, per Büscher, siamo storicamente determinati dal capitalismo globale. Anche noi umani ci troviamo insomma ai margini di tutele filosofiche e giuridiche in cui il rispetto della integrità della vita e dei diritti fondamentali dovrebbero prescindere da ogni arrivismo economico e opportunismo politico.
La domanda morale dell’Antropocene riguarda l’intensificazione dello sfruttamento biopolitico degli esseri viventi tipica del capitalismo avanzato iper-moderno. Perciò uomini e animali vi sono entrambi coinvolti.
Piuttosto che decentralizzare Homo sapiens, riconoscendone le colpe ed enfatizzando le sue somiglianze evolutive con molte altre specie, sarebbe più costruttivo intendere quanto sta accadendo come una dialettica spuria tra condizioni “more-than-human” e condizioni “less-than-human”.
La situazione umana del XXI secolo è più che umana, perché non può prescindere dal destino delle altre specie e perché l’interferenza umana con la biosfera ci obbliga ad un livello di responsabilità mai sperimentata. Ma è altrettanto vero, secondo Büscher, che ovunque nel mondo proliferano situazioni “meno che umane”. Violazioni dei diritti fondamentali, sacche di emarginazione e miseria e discriminazione sistematica di interi gruppi etnici e sociali, che sono la periferia globale dell’umanità.
Il reagente comune di questa ghettizzazione dei viventi è il capitalismo. Nella sua forma ultra-moderna: la intensificazione dei processi che generano profitti.
“È degno di nota che la svolta non-umana (nonhuman turn) sia diventata così influente durante l’ascesa del capitalismo delle piattaforme (NDR, i social media), dove le distinzioni assolute – in definitiva tra 1 e 0 – permettono all’economia politica di prosperare creando l’apparenza di relazioni vive e immanenti”. In realtà, “le forme di connessione e di relazionalità online conducono a dinamiche di oggettificazione non-umane (less-than-human) e di disumanizzazione”, a tutto vantaggio di alcuni gruppi umani il cui potere è così ampliato e rafforzato.
La questione dei diritti della biosfera si interseca dunque con la questione del capitalismo e delle sue premesse coloniali. La ricerca di una risposta morale alla crisi biologica del XXI secolo avanza là dove riconosciamo il peso storico della costruzione del sistema capitalistico nelle attuali strutture di potere e di sfruttamento di uomini e animali.
Anche la comunità umana è potentemente destabilizzata per opera di quelle stesse forze economiche e culturali che hanno trasformato la biosfera in un oggetto di consumo.
Büscher: “particolarmente importante è riconoscere in modo critico la fondamentale violenza contro i neri consumatasi nella storia (history) del capitalismo. Wilderson spinge ancora più avanti questa intuizione. Questa violenza, a suo parere, non è soltanto una componente storica del capitalismo, è costitutiva del capitalismo (it is costitutive of it). Nelle sue parole: capital was kick-started by the rape of the African continent”.
Allontanandoci dalla natura selvaggia per depotenziare il nostro impatto devastante, non ci accorgiamo che proprio la nostra parentela così stretta con le altre specie ci pone nella loro stessa posizione rispetto a meccanismi di sfruttamento che sono fuori controllo. Moltissimi di noi sono già stati alienati, ridimensionati, eliminati, esclusi.
Il discorso sulla natura e per la natura è un discorso su una violenza auto-inflitta che ha disattivato la risposta morale genetica alla sfida della cooperazione tra gruppi umani.
“È importante insistere sul fatto che questa violenza è più che contingente. Cambia forma col tempo. Faccio qui riferimento ad Achille Mbembe. Mbembe pensa che le premesse ormai storiche del capitalismo ci stanno trasportando in una condizione globale che lui definisce becoming black of the world.
Quel che intende è che ‘i rischi decisi dal sistema di cui fecero specifica esperienza gli schiavi neri durante le prime fasi del capitalismo sono ora diventate la norma per, o almeno una parte consistente, di una umanità subalterna’”.
Antropocene: l’acme della nostra storia evolutiva
L’Antropocene è l’epoca in cui gli uomini, pensando tutta la realtà, sono anche in grado di riformularla al cento per cento. Lavorando sui propri corpi e sui corpi delle altre specie. È quindi un compimento di una vocazione di specie, e anche, però, un superamento di condizioni bio-ecologiche che in quanto preesistenti a noi sono sembrate per millenni immodificabili, come la chimica dell’atmosfera.
Gli effetti collaterali di questa parabola sono sotto gli occhi di ciascuno di noi.
Sin da quando cominciammo a pensare in modo moderno, tra Descartes e la Rivoluzione Francese, due questioni hanno tormentato il nostro sonno. Fissare un metodo che rendesse la conoscenza solida e affidabile, assolutamente certa. E, in secondo luogo, scoprire come questa certezza potesse sconfiggere il limite che avvertivamo dentro di noi in quanto mortali. Per tutto il Medioevo la verità sul cosmo era stata garantita dall’idea di Dio. Ma ora, in pieno mercantilismo oceanico, mentre i fermenti sociali attizzati dai nuovi ceti sociali borghesi eccitano l’Europa e le città americane sull’Atlantico, c’è bisogno di un pensiero che travalichi la finitezza umana e osi costruire un assoluto scientifico. Kant la definì “necessità incondizionata”.
C’è appunto un passaggio della Critica della ragion pura (1781) in cui Kant sintetizza questo bisogno di una intera civiltà: “la necessità incondizionata che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana. Persino l’eternità – per quanto terribilmente sublime possa risultare nella descrizione di Haller – è ben lungi dal recare all’animo una simile impressione di vertigine. L’eternità, infatti, misura soltanto la durata delle cose, ma non le sostiene”.
Sarà Hegel a pensare che la ragione possa reggere “il sostegno ultimo di tutte le cose”, pensando il mondo attraverso la logica dialettica.
Kant e Hegel descrivevano il modo in cui la civiltà europea vedeva il mondo proprio nel momento in cui andavano affermandosi le premesse sociali ed economiche dell’Antropocene. Coscienza, riflessione, assoluto, ragione sono gli estremi concettuali con cui entrambi immaginano la supremazia dell’uomo sulla natura. E così essi si proponevano anche di definire il compito dell’uomo nel mondo e di precisarne la posizione in relazione ad ogni altro vivente.
Hegel coniò il termine Aufhebung per esprimere questa ricerca di certezza e di chiarezza sulla costituzione congenita delle facoltà intellettuali umane.
La ricchezza di questa parola, che non ha un significato univoco, illumina la frattura storica della modernità rispetto a se stessa e al resto della biosfera. Aufhebung è il superamento del finito nell’infinito, ossia l’assorbimento di ogni realtà e di ogni esperienza nella capacità concettuale umana.
È la coscienza che “vede tutto insieme”. Il mondo è “spirito” (Geist) perché i suoi elementi naturali sono tali in quanto pensati dalla coscienza assoluta. Soltanto la coscienza umana può vedere ciò di cui è fatto il mondo nella sua totalità. Ecco perché Aufhebung significa anche “porre”(aufheben): rendere visibili i diversi componenti della realtà, ciascuno per conto suo. Infine, Aufhebung vuol dire “elevare”(erheben) qualcosa, e cioè connettere, riunificare e relazionare gli elementi uno in rapporto all’altro.
Insomma, è il pensiero a costruire la struttura architettonica del mondo. Un modo più antico rispetto al nostro per dire: Antropocene.
La vertigine che sta dentro di noi è dunque questa. Un pensiero con basi biologiche sulla cui evoluzione non sappiamo ancora molto, e che però imparò ad esprimere solidarietà e cooperazione. Un pensiero che, muovendosi in una oscurità altrettanto dirompente, seppe progettarsi una propria interpretazione del mondo. Ignorando dove tutto questo avrebbe potuto portare.
Oggi la nostra posizione rispetto al Pianeta è matura. Lo è dal punto di vista ecologico e lo è dal punto di vista scientifico. Che cosa questo possa significare nell’elaborazione di una risposta alla crisi è un fronte apertissimo sulla cui indeterminatezza si gioca l’opportunità di una morale adeguata al nostro tempo.
(Alla ricerca sull’Homo di Nesher Ramla – SCIENCE, A Middle Pleistocene Homo from Nesher Ramla, 24 June 2021 – hanno partecipato anche il professor Giorgio Manzi del Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università La Sapienza di Roma e il dottor Fabio Di Vincenzo ora al Museo di Storia Naturale di Firenze)
Siamo davvero sicuri di condividere sui social media informazioni sullo stato reale della natura? L’enorme abbondanza di dati che confluiscono dentro i nostri account, e che ci spingono a postare senza posa appelli urgenti per salvare specie in pericolo o denunciare lo sfruttamento di foreste e oceani, restituisce una rappresentazione attendibile di quello che sta succedendo al Pianeta? Non è invece giunto il momento di discutere anche dell’ambientalismo nell’era della post verità?
Un saggio che ogni ambientalista convinto dovrebbe leggere, soprattutto se nutre un vibrante ottimismo nelle possibilità di mobilitazione civile e politica dei social media e del dire ad alta voce, su Facebook o su Twitter, la “verità” sulle condizioni ecologiche della biosfera.
L’analisi di Büscher non risparmia neppure il mondo della conservazione e della protezione della natura, e francamente si sentiva il bisogno di un discorso competente e critico di questo tipo. Nell’ultimo decennio, infatti, abbiamo assistito al sorgere della “plattform conservation”, ossia della “rapida integrazione delle azioni finalizzate alla conservazione, il fundraising, la sensibilizzazione, l’educazione ambientale e l’implementazione di tutto questo dentro le piattaforme dei nuovi media”.
Non c’è ormai soggetto impegnato nella protezione della natura, di qualunque tipo, che non abbia una intensa attività di comunicazione sui social media (e uffici preposti a questo compito, con gente che lavora anche durante i weekend per alimentare i feed), e che vi si affidi per innescare un cambiamento radicale nella nostra gestione delle risorse biologiche della Terra.
Ma le piattaforme nascondono una trappola micidiale: sono la quintessenza del “plattform capitalism”, ossia della forma iper-moderna assunta dal capitalismo globale grazie all’affermazione di modelli di business come Facebook, Google e Twitter. L’intero loro funzionamento è costruito sull’accantonamento di dati grezzi, che vengono poi elaborati da algoritmi e rimessi in circolazione come valori di scambio.
In questo ecosistema nulla ha importanza se non il dato in sé, la sua abbondanza infinita e la sua capacità di sintonizzare il pubblico sullo stimolo di fornire sempre nuovi dati. C’è quindi un circolo vizioso tra la pretesa degli ambientalisti di dire la verità sulla natura usando i social media e il carattere genetico di queste piattaforme, i loro scopi e i loro obiettivi.
Un circolo vizioso, scrive Büscher, “imbevuto di potere economico e politico, che funziona su più livelli. Condividere la verità sulla natura sui nuovi media online per fronteggiare la post-verità ha l’effetto non intenzionale di rinforzare proprio le dinamiche strutturali che sono responsabili per la crisi ambientale”.
“Condividere la verità sulla natura sui nuovi media online per fronteggiare la post-verità ha l’effetto non intenzionale di rinforzare proprio le dinamiche strutturali che sono responsabili per la crisi ambientale”
E questo perché “il capitalismo delle piattaforme, così come si esprime sui social media, conduce gli ambientalisti dentro una certa economia politica e le sue logiche. Questa politica economica prospera sulla condivisione, la co-creazione e la individualizzazione di prodotti e informazioni online, inclusi la verità e la natura, trasformandoli in dati che sono beni di consumo”.
Condividere quindi montagne di foto, dati scientifici, video di denuncia sui social media fa il gioco del capitalismo maturo e inchioda le organizzazioni dedicate alla conservazione a servire la costruzione (co-creazione) di una narrativa virtuale di enorme appeal in cui la verità è del tutto ininfluente. Anzi, per definizione “le piattaforme, in quanto apparati di estrazione di dati, sono, letteralmente, post-verità”.
Contro l’ambientalismo dogmatico
The Truth about Nature è un libro contro ogni forma di ingenuità ambientalista e di ambientalismo dogmatico. Che noi possiamo cambiare il mondo usando i social media, e in meglio a favore della natura. Che noi possiamo mettere a soqquadro il capitalismo, usando i social media, e quindi porre fine all’ipersfruttamento della natura. Che possiamo diventare protettori degli animali, semplicemente interagendo e condividendo contenuti on line.
Affidando timori e preoccupazioni alle piattaforme, l’ambientalismo rischia di divenire ostaggio di ciò che vorrebbe combattere. L’ambientalismo nell’era della post verità è un prodotto di consumo molto sofisticato, ma insidioso.
Scorrendo Facebook e Twitter, ma anche Youtube, questa “natura” così discussa e amata dal pubblico sembra perfetta: lo specchio selvaggio di quella giustizia assoluta, spontanea, che non troviamo nel mondo umano. A dover essere salvata è quindi una natura assoluta, intonsa, priva di ogni contatto con gli esseri umani. Prevale, insomma, il rifiuto della constatazione, secondo Büscher, che “la natura è una entità biofisica e sociale”.
Sulle piattaforme come Facebook e Twitter prevale l’immagine di una natura perfetta e giusta, priva di ogni contatto con gli esseri umani. Online, la natura cessa cioè di essere ciò che è, una entità biofisica e sociale.
Ho parlato del suo libro direttamente con Bram Büscher, in collegamento ZOOM dal Sudafrica. Può The Truth about Nature essere letto come uno strumento contro una simile ingenuità ?
“In qualche modo questo è vero, ma il focus primario del libro non è smantellare, o smontare, l’idea della natura selvaggia, di questo costrutto concettuale, intesa come qualcosa di puro e di purificato da ogni sorta di male. Un’idea che di certo è stata molto attraente, in molti modi. Credo anche che questa idea stia diventando ancora più seducente, oggi, perché il mondo è entrato in una fase storica di estrema confusione e di insicurezza.
Il libro parte da qui: una analisi epistemologica che spiega come l’intera biodiversità sia un costrutto, un discorso sociale. Tutto in natura è pensato e quindi mediato e costruito, anche se non ogni cosa è mediata nello stesso modo e ci sono molte sfumature. Se la storia viene inserita nel ragionamento, e presa in considerazione, ecco che allora ci troveremo ad avere tra le mani qualcosa che ci consentirebbe di parlare della natura dinanzi al potere in una maniera che sia più coerente con la natura stessa. Per cambiare il mondo, in altre parole, noi dobbiamo capire come è il mondo, ossia come funziona il potere a cui vogliamo parlare della natura e in cui va formandosi il discorso sulla natura”.
L’etnografia rimane ancora una esperienza accademica del patrimonio culturale universale africano. La conservazione e la questione della natura seguono a ruota. Questi sono pregiudizi psicologici, che agiscono inconsciamente, ma favoriscono anche il “capitalism plattform”.
“Sicuramente questo riguarda il ruolo dell’Africa nell’immaginazione globale. L’Africa, insieme all’Amazzonia, come l’ultimo posto al mondo con animali magnifici. Come dico sempre, se pensi di salvare gli animali, rifletti sul fatto che sei l’ultimo di una lunga lista di persone che negli ultimi 300 anni sono venuti in Africa pensando di salvare l’Africa dagli Africani. La crisi del bracconaggio contro il rinoceronte è secondo me l’esempio principe di come i cittadini del web, i netizen, vogliano e sentano di essere parte dell’Africa condividendo una narrativa”.
“La crisi del bracconaggio contro il rinoceronte è l’esempio principe di come i cittadini del web, i netizen, vogliano e sentano di essere parte dell’Africa condividendo una narrativa”
La politica dell’isteria
Il bracconaggio sui rinoceronti del Kruger National Park in Sudafrica comincia nel 2007 e diventa quasi subito un “caso internazionale”, perché negli anni successivi innesca una tempesta di attivismo social che Büscher chiama “la politica dell’isteria”. La caccia illegale per il corno di rinoceronte, soprattutto sui Gruppi Facebook, viene riscritta in un copione dove “i cattivi e gli eroi sono facilmente distinguibili e dove il male incarnato dal bracconaggio sul rinoceronte è nettamente separato da ogni circostanza storica di contesto, che invece ha ampiamente contribuito proprio al generarsi di questa crisi”, spiega Büscher nel libro.
Le sue ricerche hanno portato in primo piano il fatto che la maggior parte dei netizen che condivide peana per gli “eroi” della lotta a mano armata contro i bracconieri è composta da bianchi: “a difendere e proteggere i rinoceronti dovrebbe essere lo Stato, ma i discorsi online mostrano chiaramente che molti bianchi sentono che lo Stato fallisce miseramente nel suo compito.
E allora queste persone si cercano altri protettori per gli animali, qualcuno che sia davvero capace di prendere il controllo di una situazione fuori controllo”. E passare all’azione da soli vuol dire scrivere post sempre più violenti, aggressivi, convinti.
In Sudafrica, i parchi nazionali come il Kruger sono stati inaugurati attraverso l’espropriazione della terra agli africani nativi. La perdita del controllo politico seguita allo smantellamento dell’apartheid ha lascito un sentimento di frustrazione in una certa parte della società bianca.
E così la malinconia per la wilderness, la natura selvaggia purificata di ogni essere umano fatta eccezione che per gli avventurieri bianchi, è filtrata nel senso di appartenenza e di struggimento post-moderno che l’industria del turismo, anch’essa bianca, continua a impiegare proprio online.
“Il Kruger simbolizza non soltanto un mondo perfetto composto di animali, ma anche una perfetta separazione tra uno spazio controllato dove ogni cosa è al suo posto e un mondo esterno al Kruger, caotico, che sembra fuori posto e fuori controllo”. La crisi del corno di rinoceronte, postata milioni di volte come “out of control”, è quindi un discorso stratificato di pregiudizi coloniali, razzismo e distorsioni dell’immaginario prodottesi in un contesto storico molto preciso.
Ancora più surreale è la vicenda dell’Elephant Corridor, un crowfunding da quasi 500mila dollari organizzato nel 2010 sulla piattaforma di online charitypifworld.com su mandato di Peace Park Foundation, una Ngo sudafricana cui aderiscono molti milionari del Paese. Migliaia di persone comuni hanno pensato di poter ottenere, senza nessun negoziato governativo e al di fuori di qualunque cornice di governo, l’apertura di un corridoio transfrontaliero per la migrazione centomila elefanti tra Botswana del nord, (Chobe NP) Namibia nord occidentale (Caprivi Strip) e Zambia meridionale (Kafue NP), all’interno dell’area protetta nota come KAZA – Kavango Zambesi.
Una situazione anche paradossale, in cui un gruppo considerevole di netizen senza nessuna formazione specialistica in ecologia, biologia o conservazione dei grandi mammiferi, pretendeva, con la propria donazione, di avere voce in capitolo nella gestione di una porzione di territorio sotto la sovranità di 3 nazioni africane. Il corridoio non è mai stato realizzato, ma ha mobilitato, online, i buoni sentimenti di una folla di agguerritissime persone amanti degli elefanti africani.
Questo dimostra che, anziché stare sulle piattaforme social, chi vuole davvero fare del bene alla biodiversità dovrebbe leggere giornali seri e accreditati?
“Sì, una vicenda incredibile. Ricordo il funzionario di una Ngo del Botswana che se la prese con me, come se fossi stato io a innescare un effetto domino che non aveva alcun legame con la realtà. Una storia che è uno scherzo, una gigantesca ironia, ma piuttosto che considerare il possibile ruolo di magazine o media hub dobbiamo concentrarci su come funzionano queste piattaforme.
La realtà per loro è spesso del tutto irrilevante. Le piattaforme competono tra loro per ottenere l’attenzione delle persone che sono intenzionate a compiere buone azioni. Il loro proposito, dunque, è strappare e mantenere questa attenzione, tenere le persone aggrappate all’idea veicolata dalla piattaforma, non importa quanto reale o meno. E per farlo, esse si servono di effetti strutturali, cioè di un funzionamento che intrinsecamente è progettato per eccitare l’attenzione. A riprova di questo, dobbiamo ammettere che possiamo trovare anche articoli giornalistici molto, molto validi postati su Facebook. Ma la piattaforma non ha alcun interesse nella loro qualità giornalistica. E non si tratta neppure di una attività di manipolazione diretta, è qualcosa di ancora più pericoloso: è la totale indifferenza nei confronti della verità”.
La vera verità sulla natura
Büscher, infatti, insiste sulla opportunità di sostituire al concetto di “verità” nudo e crudo, inoppugnabile, molto in voga all’interno degli stessi gruppi ambientalisti, certi di postare la verità sullo stato delle natura attraverso i “fatti” contenuti in statistiche e dati numerici, con il concetto ben più articolato di “tensions truth”.
La verità, anche quella sullo stato reale della biosfera, è uno stato di tensione tra realtà complesse, definite dal contesto storico e dalla posizione sociale di tutti i gruppi umani coinvolti. Un terreno scivoloso, che richiede comprensione delle cose e non solo conoscenza dei fatti, e dei numeri, nudi e crudi.
La verità è uno stato di tensione permanente tra realtà complesse, definite dal contesto storico e dalla posizione sociale (positionality) dei gruppi umani, un terreno scivoloso che richiede comprensione delle cose e non solo conoscenza dei fatti: “Dobbiamo parlare di una metafisica della verità, che io intendo come ecologia politica della verità. Hannah Arendt ha spiegato la differenza tra conoscenza e comprensione.
Ciò che rende la conoscenza dei fatti comprensione dello stato delle cose è un lavoro di riconoscimento del contesto, della storia (history) e del ruolo sociale subito dalla persone (positionality). Solo così possiamo investigare come funzionano le piattaforme rispetto, invece, ad una effettiva comprensione della realtà. Per loro la conoscenza coincide con la utilità delle informazioni: ciò che tu puoi usare. Non c’entra con la comprensione nel senso della Arendt.
Nel libro lancio un appello in nome della verità: la verità sulla natura è interamente legata alla comprensione e la comprensione significa che, quando parliamo di questioni ecologiche e di conservazione, ci muoviamo continuamente nello spazio tra la roccia solida e la sabbia scivolosa. La verità è qualcosa di solido e di incerto allo stesso tempo.
Dobbiamo sempre essere critici, come dico nel libro, di fronte a qualsiasi pretesa di verità assoluta e del potere che ci sta dietro e non smettere mai di cercare la verità. Qui sta il legame tra ecologia e politica dal mio punto di vista: le cose non sono granitiche. C’è invece bisogno di instaurare un equilibrio tra la posizione sociale dei gruppi umani, il contesto e la storia. Bisogna capire la incessante tensione tra la conoscenza semplice e definita, i fatti, e, invece, la vita di tutti i giorni.
D’altronde, va detto che la verità conta. Se niente fosse vero, non sarebbe possibile nessuna politica e nessun discorso al potere, perché l’intero discorso sociale si risolverebbe in uno sfogo di rabbia e indignazione, che è poi quello che vediamo al esempio su Twitter. Ma le piattaforme su cui postiamo questa rabbia sono indifferenti al messaggio: è per questo che usandole non otteniamo nulla contro il capitalismo, che loro stesse rappresentano e incarnano. La politica ecologica questo lo deve dire forte e chiaro, e deve anche trasformare questa consapevolezza in una opportunità”.
La spettacolarizzazione della natura, iniziata negli anni ’50, è una delle tecniche utilizzate dai social media per ottenere una risposta istintiva dagli utenti, sempre più avidi di scene ad effetto. Questo trasforma la natura in un intrattenimento, su cui l’algoritmo lima narrative costruite ad hoc che gratificano i nostri gusti.
Tra le tecniche utilizzate dalle piattaforme per innescare l’attenzione e avviare negli utenti una risposta istintiva sempre più avida di “verità” mirabolanti c’è il ricorso alla spettacolarizzazione della natura. A partire dagli anni ’50 i media hanno imparato ad assimilare sempre di più il documentario naturalistico alle sceneggiature del cinema drammatico, valorizzando narrazioni sentimentali che puntassero a mostrare scene epiche di sopravvivenza o violenza, caos o resistenza.
I social media hanno portato questo bisogno di intrattenimento spettacolare all’estremo. Ma non solo perché un leone che abbatte la preda ottiene più click di un leone che dorme; la ricerca di contenuti naturalistici viene personalizzata (customize), limata dagli algoritmi. Alla fine, ciò che ognuno di noi “vede” della natura selvaggia non è la natura, ma un copione generato dagli algoritmi. Composto da capitoli selezionati apposta per gratificare i nostri gusti.
“Per le piattaforme, la ricerca dello spettacolare è una forma di accumulazione di capitale”, commenta Büscher. L’esempio della App LATEST SIGHTINGS, che ha raggiunto un milione di followers su Facebook, lo dimostra nel modo più brutale: un gigantesco business nato su Youtube e fondato da un adolescente, Nadav Ossendryver, che aveva notato quanto “annoiati” fossero i turisti che uscivano da un safari al Kruger senza aver visto nemmeno un leone o un leopardo.
Il suo canale video, e poi la sua App, collezionano le foto più degne di nota degli animali del parco. Un fantasmagorico riduzionismo 2.0: “qui il Kruger esiste solo attraverso le foto sensazionali ad animali altrettanto maestosi avvistati e immediatamente fotografati. La realtà è molto diversa. Quando le grandi cose non sono lì fuori davanti a noi, è allora che emerge il significato. Personalmente, ad esempio, quel che mi ha colpito più di tutto il resto al Kruger è l’odore del parco. Concentrandosi sugli odori viene fuori una percezione completamente nuova. Queste piattaforme ci hanno convinti che in un posto come il Kruger vedere sia la cosa più importante.
Ma la vista è solo una delle funzioni percettive con cui gli animali selvaggi, di cui vorremmo conoscere l’ambiente, avvertono costantemente ciò che li circonda. Pensiamo ai leoni, tutti vogliono la foto del leone, ma il leone caccia di notte, quando la sua vista non è il suo miglior strumento. Ragionare invece sull’odore cambia radicalmente la tua percezione di un posto come il Kruger e quindi della cosiddetta wilderness. E allora io dico: possiamo forse postare l’odore di un parco nazionale su Facebook? Certo che no.
Dedicando del tempo all’osservazione paziente delle cose, emergono nuove cose. Ma il focus delle piattaforme è sulla cosa singola, perché è quella che genera denaro. Perciò le persone sono portate a pensare: io ho bisogno di vedere un leone. Lo spettacolo comprime e riduce la realtà, ne assottiglia e semplifica le sfumature. È la società umana ad aver creato la necessità di una natura perfetta, giusta, equa. Prima della modernizzazione la natura era piuttosto cattiva, e anche minacciosa. La spettacolarizzazione veicolata dalle piattaforme alimenta questa distorsione”.
Dal punto di vista della conservation2.0 lo show della natura selvaggia è però anche qualcosa di più. È una pericolosa, inconscia liason con il colonialismo, e cioè con la visione della wilderness come Eden. In Sudafrica, il Paese da cui il libro deduce i suoi maggiori esempi, i bianchi hanno sviluppato il loro sentimento di apparenza alla terra grazie alla conservazione, che ha funzionato però come espropriazione dei neri in nome della protezione della natura.
La volontà, dunque, di preservare ciò che di selvaggio e di animale era stato risparmiato dalla modernizzazione, dall’industrializzazione, dall’esilio dalla natura, ha le sue lontane radici nella amministrazione razzista del territorio nazionale. La “verità sulla natura” online è inquinata dal colonialismo: “riconoscere il modo in cui funzionano queste cose, le piattaforme e i discorsi che vi proliferano sopra sulla verità della natura, è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per decolonizzare la conservazione.
Qui ci sono due dimensioni fondamentali. Il primo è che la conservazione comincia quando gli Africani nativi vengono trasformati in lavoratori salariati, che non possono più vivere delle terra, ma devono essere impiegati in fabbriche, industrie e attività manifatturiere. La conservazione nasce quando la terra viene svuotata dei suoi abitanti per fare spazio alle riserve. Questo è un punto assolutamente cruciale, che ho trattato anche in un mio precedente libro. Il secondo punto essenziale è, quindi, che la conservazione è stata una risposta al capitalismo e, contemporaneamente, una sua conseguenza. Sono due facce della stessa moneta”.
Uno dei temi più caldi delle agguerrite discussioni on line sulla verità del Pianeta è la iper-demografia umana. Potrebbe essere anche questo un effetto di espansione artificiale di un problema che si presta perfettamente alle polarizzazioni tra bene e male su cui prosperano le funzioni matematiche che regolano il traffico sulle piattaforme? “La demografia umana è chiaramente un problema importante, non lo nego.
Ma insistervi nasconde le vere cause delle questioni ecologiche. Troppo spesso si sentono ecologi affermare che gli Africani devono smettere di avere bambini. E sarebbe invece più corretto dire, che comincino le persone ricche nel cosiddetto primo mondo a non avere più bambini. Trovo insomma terrificante e orribile che si dica in modo esclusivo alle persone nere e asiatiche (black & brown) di non fare più figli. Una simile impostazione non ha nulla a che vedere con l’ecologia.
Siamo cresciuti in modo esponenziale in tutto, pensiamo alle infrastrutture, alle strade, alle ferrovie. Ammettiamo invece che, su ogni fronte, noi dobbiamo de-crescere. Il senso di urgenza è comprensibile, anche quando si parla di annichilamento della natura. Ma non è corretto pensare agli esseri umani solo secondo il paradigma della sovrappopolazione elaborato dagli ecologi. Il nostro obiettivo, all’opposto, deve essere come raggiungere il potere con un messaggio ecologico. Non serve a nulla insistere sulla crescita della popolazione umana: le parole roboanti non ci forniscono soluzioni. Il nostro obiettivo, invece, deve essere come raggiungere il potere con un messaggio ecologista, come sfidare le regole e le regolamentazioni. In sintesi, come creare una sorta di piattaforma realmente politica in cui dare spazio alla politica ecologica”.
Il libro di Büscher dimostra, in definitiva, che la più semplice verità sulla natura è che non ci può essere una realtà della natura senza esperienza diretta. Ma questa esperienza non è né un safari di lusso da cinquemila euro, né un viaggio in solitaria in luoghi remoti e intatti: è una profonda immersione nella complessità ecologica della storia umana, che ha trasformato la natura stessa in un discorso sociale, da sempre.
Se da un lato stare nella natura è un esame di realtà indispensabile e a volte scioccante (Büscher racconta del sentimento di orripilante paura dei suoi studenti aggrediti dagli insetti nelle foreste tropicali del Sud America, bagnati fradici dopo una pioggia torrenziale e costretti a bivaccare mezzo congelati dal freddo), dall’altro è la comprensione del contesto storico e umano in cui questa stessa natura esiste accanto a noi il modo migliore per mettere a fuoco, un po’ meglio, il caos di dilemmi morali della nostra epoca.
Se sei arrivato fin qui, di sicuro pensi che sia importante capire come funziona l’ambientalismo, se la sua capacità di suscitare consenso e fare politica è realmente efficace e se lo stato delle cose (il cambiamento climatico, l’estinzione delle biodiversità, l’erosione delle risorse naturali del Pianeta) sarà finalmente inserito nelle scelte politiche europee dei prossimi anni. Questo articolo è costato 40 ore e mezzo di lavoro. Considera di fare oggi una donazione: il giornalismo di qualità significa tempo per leggere documentazione scientifica e libri, per raccogliere informazioni e pareri, anche contrastanti, e per condurre interviste con esperti e ricercatori. Quello che vedi in pagina, e che ti induce a riflettere, è solo la punta di un iceberg. Grazie !
SarsCov2 inaugura una nuova epoca biologica. A un anno esatto dall’inizio della pandemia lo scenario sul futuro spalancato dal SarsCov2 è estremamente nitido. Non certo incoraggiante, ma quanto meno ben delineato. Sono proprio le notizie delle ultime settimane sull’affermazione di mutazioni molto efficienti nella struttura proteica del virus a far intendere i contorni del contesto ecologico globale ormai consolidato.
La nostra dipendenza coatta dalle misure di contenimento dell’infezione non è quindi una stagione transitoria e passeggera, che svanirà grazie alla vaccinazione di massa. Facciamo invece i conti con l’instaurarsi di una nuova realtà condivisa e globale: l’interferenza ecologica permanente, che è poi il succo dell’Antropocene, genera questo tipo di problemi.
Una volta scoperchiato il vaso di Pandora di una zoonosi altamente aggressiva gli effetti sistemici del disturbo ecologico diventano dominanti, pervasivi e definitivi. Ci dicono che lo shock economico indotto dal virus sarà ancora lungo. Ma questa è solo una valutazione approssimativa. Abbiamo varcato la soglia di sicurezza. Nessuno, dopo il 2020, potrà più affermare di non sapere che cosa succede in Antropocene quando la ferocia dei commerci, dell’uso delle risorse naturali organiche, dell’allevamento in batteria di migliaia di individui di centinaia di specie diverse raggiungono il loro acme.
Quindi il bilancio del primo anniversario della pandemia impone alcune riflessioni di ordine biologico prima ancora che economico.
Una zoonosi come il SarsCov2 non completa il suo “ciclo vitale” quando viene sconfitta dal vaccino, o dai vaccini, all’interno delle comunità umane che contano miliardi di individui. Il virus, ormai acclimatato fuori del suo ospite originario, ha trovato un enorme ambiente-mondo in cui continuare, silenzioso e indisturbato, la sua normale amministrazione.
Lo ha scritto NATURE lo scorso 2 marzo: “sin da quando il coronavirus ha cominciato a diffondersi nel mondo, gli scienziati hanno espresso la loro preoccupazione sul fatto che il virus avrebbe potuto passare dagli esseri umani agli animali selvatici. Se ciò avvenisse, il virus potrebbe annidarsi in diverse specie, avere la possibilità di mutare e quindi risorgere fra gli umani anche dopo che la pandemia sia stata domata.
Questo condurrebbe il SarsCov2 a completare il cerchio, perché gli animali selvatici probabilmente lo riporterebbero indietro negli umani. Forti evidenze suggeriscono che il virus ha avuto origine nei pipistrelli Rhinolophus, forse passando per altri animali prima di infettare le persone.
Nella fase attuale della pandemia, con centinaia di migliaia di infezioni confermate di COVID-19 ogni giorno, le persone sono ancora il vettore principale di trasmissione del SarsCov2. Ma negli anni a venire a partire da adesso, quando la diffusione all’interno delle comunità sarà stata soppressa, una riserva di SarsCov2 negli animali che si muovono liberamente potrebbe diventare una fonte recalcitrante di nuove fiammate di infezione”.
Che cosa questo potrebbe significare per specie selvatiche minacciate o già a rischio di estinzione è molto presto per dirlo. Ma sappiamo che tra i mammiferi, ad esempio, specie iconiche non sono immuni al virus: tigri, puma, leoni e leopardi delle nevi contano almeno un caso già accertato ciascuno di infezione, solo per rimanere nel campo d’azione dei big cat.
Tuttavia, l’allarme è già acceso anche per gli animali domestici: “gli animali selvaggi non sono gli unici ad essere finiti sotto osservazione. Alcuni studi hanno mostrato che il SarsCov2 può infettare molte creature domestiche e tenute in cattività, dai gatti ai cani (…) i focolai negli allevamenti di visoni indicano che gli animali infetti possono passare il virus agli esseri umani”.
Bisogna essere molto chiari sulle implicazioni di meccanismi di interazione ecologica di questo genere. Intanto, essi dimostrano il livello e il tipo di coinvolgimento che ci lega ormai non solo alle faune rimaste selvagge sul Pianeta (il 4% del totale), ma anche ai nuovi assemblage artificiali di animali creati appositamente da noi: le popolazioni degli zoo (ad aprile 2020 furono testati e trovati positivi al virus 4 tigri e 3 leoni al Bronx Zoo di New York.
Lo scorso dicembre 4 leoni erano positivi allo zoo di Barcellona ), le specie addomesticate (i gatti, che vengono monitorati in uno screening in corso nel dipartimento di veterinaria della Texas Team A&M University, negli Stati Uniti), le specie in via di estinzione inserite in ambiziosi e controversi programmi di captive breeding (i gorilla di montagna al San Diego Zoo della California, di cui almeno un individuo era positivo un mese fa) e le specie di valore commerciale (legale e illegale) allevate in strutture specifiche e destinate alla caccia, ai macelli e al traffico di organi, pelle, ossa (i forse 10mila leoni del Sudafrica, le tigri delle tiger farms nel Sud Est Asiatico e in Cina), gli animali da pelliccia.
La questione non è più quindi solo come trovare un modo per tenere sotto stretto monitoraggio possibili hot spot di nuove patologie ancora sconosciute; la questione riguarda anche come amministrare, dal punto di vista etico e sanitario, le popolazioni animali volute da noi esseri umani, che stanno accanto a quelle selvatiche ed amplificano i rischi globali di trasmissione zoonotica.
Ad essere entrata in crisi non è dunque soltanto la regolamentazione internazionale (che va riscritta, secondo molti osservatori) che definisce limiti e paletti del commercio di prodotti animali (a scopo alimentare e ornamentale), come CITES; in fibrillazione è l’intera convivenza con le faune, domestiche o meno, del nostro Pianeta, che abbiamo manipolato fino al punto da mettere in piedi convivenze spericolate sui cui effetti non sappiamo nulla. “La storia dei visoni e del COVID-19 ha confermato nei ricercatori i timori della prima ora – rimarca NATURE – e cioè che il virus può rifugiarsi negli animali in modi che sono difficili da prendere e da controllare e che da lì possono saltare e tornare indietro sulle persone”.
E proprio questo fatto – il comportamento fluido e dinamico del virus – è della massima importanza per capire cosa accade, cosa è accaduto e cosa accadrà. Già un anno fa Telmo Pievani avvertiva che, da un punto di vista strettamente evolutivo, il virus risponde a se stesso in modo impeccabile. È quindi sbagliato, ancorché inutile, vedere nel SarCov2 un nemico orientato alla distruzione insensata della popolazione umana. Assistiamo, invece, ad un copione coerente con l’assetto generale della biosfera. L’enorme danno subito da noi Sapiens non è una spia della spietatezza dell’aggressore, quanto piuttosto della nostra miopia che tende a sopprimere i dati di realtà, analizzati dal discorso scientifico, a vantaggio della propaganda che ha come unico obiettivo la sottovalutazione, dinanzi all’opinione pubblica, della gravità della crisi ecologica.
Ora una review sulla natura dei virus uscita su FRONTIERSIN propone un ulteriore allargamento del ragionamento: A place for virus on the tree of life. Per meglio intendere la minaccia che grava su di noi, e il nuovo contesto ecologico globale inaugurato nel 2020, bisogna prima capire come si collocano i virus nell’organigramma complessivo della vita, ossia lo schema fondamentale che rappresenta le ramificazioni, le interrelazioni evolutive e le parentele di tutti gli organismi del Pianeta.
Il dibattito è ancora apertissimo sulla domanda se i virus siano o meno esseri viventi, ma è certo che i virus sono in una relazione evolutiva con una molteplicità di organismi, uomini compresi, da milioni di anni: “i virus esercitano una pressione selettiva sulle cellule (ndr, dell’organismo aggredito) per evolvere contro-misure adeguate ad evitare l’infezione. Questo, a sua volta, forza il virus ad evolversi per evitare le strategie difensive dell’ospite”. Si tratta quindi di “una co-evoluzione dinamica e di lungo periodo, che nasce dalle interazioni ecologiche dei virus con le cellule ospite”. Di conseguenza “i virus sono entità biologiche che condividono una lunga storia evolutiva con gli organismi cellulari”.
Il dibattito sulla natura dei virus serve a ridimensionare il nostro sentimento di strapotere sui meccanismi intrinseci alla proliferazione delle forme di vita, dalle più semplici alle più complesse. Nonostante l’enormità delle nostre conoscenze genetiche, moltissimo rimane da capire sul fenomeno biologico, nella sua essenza e origine: “è importante ricordare che le forme di vita macroscopiche (ndr, come i grandi mammiferi e i Sapiens) sono l’eccezione piuttosto che la regola quando consideriamo il numero di specie su questo Pianeta (…) non sappiamo ancora se la vita sia una categoria naturale definita dall’universo o se sia piuttosto una categoria artificiale creata dall’uomo”.
“Il trasferimento orizzontale dei geni è molto più massiccio nei batteri. Le specie di batteri acquisiscono e perdono geni rapidamente nel tempo evolutivo, portando a quella che possiamo definire una visione caotica dell’albero della vita. Osserviamo infatti che una specie non è una entità fissa, ma una collezione di geni che si scambiamo con altre specie come giocatori in una partita di calcio”. Anche i virus sono impegnati in una sorta di trasferimento orizzontale di geni, grazie alla loro tendenza a distruggere le cellule degli ospiti “adottando uno stile di vita più dormiente, la lisogenia, quando inseriscono il loro DNA dentro il genoma di una cellula infetta, riuscendo così a replicarsi insieme all’ospite attraverso la divisione cellulare”.
C’è dunque una solida possibilità che “i virus esistano almeno da quando esistette LUCA, il last universal common ancestor (il primissimo organismo primordiale che è l’antenato universale di tutte le forme di vita della Terra)”. L’albero della vita è quindi “infettato dai virus dalla radice alle foglie”. E per quanto riguarda noi Sapiens: “la storia non finisce qui. Almeno l’8% del genoma umana è composto da DNA virale. Veniamo infettati da quando siamo diventati umani. Alcune di queste infezioni hanno lasciato il segno. Ci sono prove che suggeriscono che la placenta dei mammiferi si evolse da una antica infezione virale! I virus sono molto più di nostri cugini. Sono una parte integrale della nostra identità, interconnessi con il nostro stesso DNA. Difficile pensare in un modo più inclusivo di questo alla vita sulla Terra”.
Perché tutto questo è importante? Perché la storia evolutiva del Pianeta dice che la nostra avventura con il Covid-19 non è una sventura estemporanea, invece, fin nei microscopici passaggi del metabolismo cellulare, risponde a logiche strutturali e antichissime. Le interferenze ecologiche profonde risvegliano, potenziano (con feedback imprevedibili) e riportano alla luce ciò che già c’era. La reazione adeguata agli eventi dell’ultimo anno non è dunque il rifiuto della realtà, che corrisponde al negare la catastrofe ecologica concentrando il focus sulla crisi sanitaria; è, invece, allargare l’intero spettro di analisi dell’epidemia e collocare la zoonosi nel giusto posto della nicchia ecologica globale. In cui convivono, a questo punto, il passato remoto della vita convive con il presente appena nato dell’Antropocene.
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Respiriamo un aerosol di particolati e plastiche. Perché viviamo ormai immersi in un nuovo landscape fatto di nanoparticelle. Un aerosol di particolati costruiti dall’uomo nei processi industriali che hanno reso il nostro ambiente, non importa se rurale o urbano, un contesto di “esposizione totale” a micro-materiali i cui effetti sugli organismi viventi sono in larga misura sconosciuti.
Questo particolato non è composto, infatti, solo dagli scarti di combustione dei combustibili fossili (i cosiddetti Pm), ma ormai anche da microplastiche.
“La natura ubiqua delle microplastiche – le particelle plastiche con un diametro inferiore a 5 micron, che includono anche le nanoplastiche con diametro inferiore a 1 micron – nella biosfera globale rende sempre più consistenti le preoccupazioni per le loro implicazioni sulla salute umana”, avverte uno studio di sintesi appena uscito su SCIENCE (Toxicology: Microplastics and Human Health).
Le microplastiche sono infatti parte della nostra vita quotidiana, per il semplice motivo che “un crescente numero di evidenze suggerisce che l’esposizione diffusa alle microplastiche provenga dal cibo, dall’acqua potabile e dall’aria”. L’acqua contenuta nelle bottiglie di plastica di uso comune ne contiene concentrazioni “tra 0 e 104 particelle/litro”. Una evidenza che era già stata annunciata e denunciata dalla WHO nel 2019.
Quantità ancora maggiori ci sono nel cibo che è stato a contatto con contenitori di plastica (il propilene è uno dei componenti plastici maggiormente sotto accusa).
A causa dei processi infiammatori innescati dalle particelle plastiche all’interno delle cellule dei tessuti umani, è stata individuata una correlazione con patologie ai polmoni, come fribosi e stati allergici, nei lavoratori del settore tessile, che toccano e lavorano grandi quantità di fibre sintetiche. Queste persone sono “esposte ad una polvere di fibre di plastica”.
Ma la nube tossica è moto più insidiosa e, invisibile, non coinvolge soltanto categorie di operai a bassa paga nelle industrie del fast fashion, il cui compito è vestire una popolazione umana in continua espansione demografica. “Le particelle di plastica sono una componente rilevante della polvere sottile che, ad esempio, ha un tasso di deposizione nel centro di Londra che si assesta tra 575 e 1008 microplastiche per metro quadrato al giorno”, riferisce questo report di SCIENCE.
“Fino a un quarto dei micro pezzi di plastica – che provengono da tappeti, abbigliamento e anche vernice in spray – può finire nelle tempeste che passano sopra le città, mentre il resto viene probabilmente da località ancora più lontane. I risultati, che per per la prima volta considerano separatamente l’origine geografica, si aggiungono alla montante evidenza che questo tipo di inquinamento da microplastica è ormai globale e comune”.
“Abbiamo creato qualcosa che non se ne andrà, sostiene Janice Brahaney, la bio-geo-chimica della Utah State University che ha condotto lo studio. Adesso sta circolando attorno al mondo”. Ogni giorno arrivano su ogni metro quadrato di terre selvagge 132 pezzi di microplastica. A fine anno si arriva alla cifra simbolo equivalente di 300 milioni di bottigliette di acqua in plastica. Si ritiene che una situazione analoga affligga i Pirenei e l’Artico.
Essendo le plastiche materiali relativamente recenti non esistono ancora studi abbastanza approfonditi, e cioè fissati su serie abbastanza lunghe di dati, da fornirci un quadro epidemiologico preciso e nitido sui loro effetti bio-tossici. Per ora sappiamo che le microplastiche possono oltrepassare la barriera placentare ed essere metabolizzate fino a finire nelle feci di animali ed esseri umani.
Secondo gli autori, è molto utile un confronto con i particolati da combustione perché queste due tipologie di nano-materiali presentano “somiglianze fisico-chimiche, come ad esempio una bassa solubilità, una alta persistenza, un ampio spettro di misure e una natura chimica complessa”.
“Le particelle piccole (meno di 2.5 micron), come quelle da combustione di benzina diesel, sono capaci di superare la membrana cellulare e di innescare stress ossidativo e infiammazione e sono state associate a un rischio maggiore di morte per malattie cardiovascolari e patologie respiratorie, come il cancro del polmone”.
È indispensabile potenziale dunque al massimo la ricerca scientifica orientata a capire “l’abilità delle microplastiche di varcare la barriera epiteliale delle vie aeree, il tratto gastrointestinale, e anche la pelle”.
I rischi globali coinvolgono anche le acque oceaniche. Le microplastiche, infatti, possono agire come “vettori di tossicità micro-biologica”, ossia come trasportatori di batteri opportunistici e potenzialmente patogeni che si attaccano sulla superficie plastica in galleggiamento formando un film (il cosiddetto “biocorona”) e viaggiando così ovunque.
Tra un paio di settimane discuteremo del primo anniversario della prima pandemia globale del XXI secolo. Mai come ora l’informazione scientifica, pulita da conflitti di interesse, è indispensabile per orientarci nel futuro e nelle nostre scelte. Sostieni Tracking Extinction dando il tuo contributo ad un giornalismo di qualità.
L’impronta ecologica umana sulle specie animali ha raggiunto una intensità senza precedenti. Ma questo non significa che attorno alla crisi di estinzione ci sia un consenso storico unanime. Secondo il Gruppo di Stanford (i più autorevoli ecologi del mondo che lavorano con Rodolfo Dirzo della Stanford), il collasso della biosfera è sottovalutato. Anche dagli esperti.
La scienza dell’estinzione si è finalmente rivolta, faccia a faccia, al grande pubblico. È questo il senso dell’appello firmato la scorsa settimana dai migliori ecologi del mondo su FRONTIERS (“Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future”) e di cui abbiamo già parlato. Post verità ed estinzione delle specie non sono più concetti separati.
Basta trasformismi psicologici, autoinganni romantici, devolution e deregulation di responsabilità. E soprattutto basta con la post-verità applicata alla contemporanea condizione del nostro Pianeta nel secondo anno della pandemia.
Demografia fuori controllo, consumismo spietato, stili alimentari gourmet sempre e comunque sono tutti vizi di cui soffriamo indistintamente, e che di fatto non ci siamo mai potuti permettere.
Purtroppo, l’indifferenza e l’ignavia di massa di fronte a questo disastro, che continuiamo a non voler vedere, ha le medesime radici della nostra affiliazione intima con la post-verità, quel costrutto di invenzioni manipolatorie auto-assolutorie che negli ultimi 5 anni ha funzionato a pieno regime nell’arena politica.
Le vicende politiche degli ultimi anni indicano fin troppo bene che la post verità è ormai un atteggiamento psicologico di massa, molto più pervasivo di quanto prima supposto. Il collasso della biosfera è sottovalutato, e ciò non sorprende, per gli stessi motivi.
Ma che lavora nel tessuto interstiziale stesso della nostra civiltà globale. Lo ha spiegato lo storico di Yale (e fellow del viennese Institut fuer die Wissenschaften von Menschen) Timothy Snyder in un saggio must-read sul trumpismo, pubblicato il 9 gennaio su NyTimes: “Quando noi cediamo sulla verità, concediamo potere a coloro che sono dotati di sufficiente ricchezza e carisma per creare, al suo posto, il puro spettacolo”.
“In assenza di un accordo condiviso su alcuni fatti fondamentali, i cittadini non riescono a formare una società civile, che consentirebbe loro di difendersi. Se poi perdiamo anche le istituzioni che producono fatti che hanno attinenza con le nostre vite, allora tendiamo ad indulgere in astrazioni astratte e nella finzione”.
È questa la situazione umana che il gruppo di Stanford, allargato stavolta a colleghi dal curriculum altrettanto brillante come William Ripple, un esperto di grandi carnivori e di meta-popolazioni, ha denunciato con l’appello pubblicato da FRONTIERS.
La nostra post-verità è insistere nel considerare i dati scientifici come esagerazioni degli ambientalisti, scenari di là da venire, astrazioni ipotetiche non del tutto credibili.
Atteggiamento mentale nutrito da una stampa compiacente, di destra e di sinistra, che inocula nell’opinione pubblica seducenti pillole zuccherate sui miracoli della transizione energetica, delle crocchette vegane e della circular economy. Dire una mezza verità serve a disinnescare la verità, a rafforzare il consenso nei confronti dei partiti conservatori e delle élite, a scoraggiare la nascita di un dissenso prima di tutto interiore e psicologico.
Ed è per questo che credo valga la pena riprendere l’argomento proposto dal Gruppo di Stanford.
Ecco alcune delle riflessioni di Blumstein, che, non fa male ripeterlo, hanno un valore politico, che si ripercuote sulla tenuta delle nostre democrazie e sul modo in cui le nostre società esauste e impoverite reggeranno l’urto nei prossimi decenni.
“La maggior parte di noi – gli autori del paper – sono scienziati della biodiversità. Ci siamo resi conto che ci sono parecchie cose che vanno nella direzione sbagliata. C’è un movimento consistente nel mondo della conservazione e della scienza sul campo, e anche nella sostenibilità, che incoraggia le persone a dire, le cose vanno male, ma possiamo fare qualcosa. Mi dispiace, ma diventare vegetariano non risolverà questo problema. Dovremmo tutti mangiare meno carne”.
“Volare di meno non risolverà il problema, dovremmo tutti volare di meno, fino a che non avremo a disposizione delle alternative. Le cose che ci fanno sentire bene, su cui abbiamo un controllo personale, non potranno risolvere l’enormità del problema. Dobbiamo ammettere che questa è una crisi esistenziale. Questo paper è partito come uno studio piuttosto diverso dal solito, perché ha enfatizzato la reticenza scientifica. Per dirla altrimenti, la casa sta bruciando. Possiamo anche stare a guardare, ma la casa brucia lo stesso”.
“Possono anche dirci che siamo degli spacciatori di paura, ma possiamo anche dirla in un altro modo: è questa o no, la realtà che abbiamo davanti? Abbiamo citato 150 studi che documentano in una varietà di ambiti le sfide che fronteggiamo. Questo è spacciare paura? Per come la vedo io questo paper dice come stanno le cose, i fatti. Fate ciò che volete con i fatti. Ma questi sono i fatti. Anche se incutono paura”.
“Mangiamo una infinità di specie selvatiche e il COVID è niente in confronto a ciò che è possibile. I film apocalittici in cui si vede la trasmissione aerea del virus – che il COVID possiede e in cui potrebbe anche migliorare, che per ora non è così buona. Ebbene, ci sono virus ancora più letali. Il COVID non è fatale tanto quanto potrebbero esserlo le pandemie del futuro”.
“Esaminiamo la storia. Le malattie sono state un vasto regolatore della popolazione. Non mi auguro certo che tutti muoiano sulla Terra per via di una malattia. Vorrei, però, che la popolazione umana diminuisse grazie ad una maggiore valorizzazione delle donne con l’educazione e il controllo delle nascite”.
“Humanity is running an ecological Ponzi scheme in which society robs nature and future generations to pay for boosting incomes in the short term,” say some leading ecologists. https://t.co/rrG16oybQm
Come avrai visto, Tracking Extinction è l’unico magazine che ha dedicato così tanto spazio e approfondimento all’appello di Stanford. Il lavoro giornalistico non è mai gratuito, anche quando risponde ad una forte motivazione etica. Tienine conto, considera la possibilità di sostenere questo magazine.
Il collasso ecologico è sottostimato. Le evidenze scientifiche sono chiarissime, la crisi di estinzione è decisamente più preoccupante di quanto società civile e politica suppongano. Ma anche parte del mondo scientifico stenta a comprendere quanto pericolosa sia la attuale condizione biologica del Pianeta. L’espansione umana è inarrestabile ed ormai erode le fondamenta della civiltà.
Così esordiscono in un paper uscito mercoledì scorso sulla piattaforma FRONTIERS ( “Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future”) un gruppo di 70 top-ecologist. Tra questi, ancora una volta, Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos e William Ripple. Sono loro i massimi esperti della crisi di estinzione nota al pubblico come “sesta estinzione di massa”.
Le pubblicazioni di questi autori – il Gruppo di Stanford – sono i contributi più lucidi sui numeri del destino della biosfera. E soprattutto sulle connessioni tra cultura, modernità ed estinzione. Il collasso ecologico è sottostimato perché non siamo in grado di comprendere fino in fondo come la nostra cultura produca l’estinzione.
Stavolta, il paper del Gruppo non si limita ad analizzare dati scioccanti sulla condizione complessiva della biosfera, ma, soprattutto, pone sul tavolo alcune riflessioni di peso culturale sulle ragioni della inerzia della mega-civiltà globale del XXI secolo.
“Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future” è quindi molto più dell’ennesima lettera aperta al mondo scientifico e all’opinione pubblica: è una presa di posizione, un appello civile e politico. Una denuncia che starebbe altrettanto bene nelle aule parlamentari delle nazioni dell’emisfero nord del Pianeta.
Inerzia collettiva
Il collasso biologico e l’estinzione delle specie animali, ancora oggi, è considerato e trattato come una notizia di contorno, un riempitivo da un paio di minuti, dagli esiti lontani e tutto sommato improbabili. La crisi di estinzione è percepita come uno scenario da science-fiction.
Nondimeno, “la scala delle minacce alla biosfera e ad ogni forma di vita, inclusa l’umanità, è nei fatti così grande che è difficile coglierne la misura anche per gli esperti molto bene informati (…). Abbiamo orientato la nostra attenzione in modo particolare sulla mancanza di percezione e di valutazione delle enormi sfide poste dalla creazione di un futuro sostenibile”.
“La scienza che sta a fondamento di queste questioni è solida, ma la consapevolezza debole. Eppure, senza una valutazione comprensiva e una informazione diffusa sulla scala dei problemi e della enormità delle soluzioni richieste, la società fallirà nel raggiungere anche i più modesti obiettivi di sostenibilità”.
Nonostante la nostra disponibilità psicologica a dimenticarci in dieci minuti del fatidico overshooting day, il giorno in cui le risorse naturali del Pianeta sono in passivo rispetto alla fame del nostro prelievo di materia organica (animali, combustibili fossili, minerali, cereali, acqua) “la scelta è tra uscire dall’overshoot in modo programmato o attraverso il disastro – scrivono gli autori – perché che si arrivi ad una risoluzione dell’overshooting è inevitabile, in un modo o nell’altro”.
Il collasso ecologico è sottostimato anche dal punto di vista politico. L’inevitabile confronto con la verità che ci attende è un detonatore di instabilità sociale su scale ancora sconosciute.
E dovremmo cominciare a riflettere, avvertono sugli autori, anche su questo fatto ormai incontestabile: “la severità degli impegni richiesti ad ogni Paese per raggiungere minime riduzioni nei consumi e nelle emissioni porterà inevitabilmente ad una condanna da parte del pubblico e ad ulteriori irrigidimenti ideologici, soprattutto perché la minaccia di sacrifici potenziali sul breve periodo è vista come politicamente inopportuna”.
Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future https://t.co/lshokH8znv Should be assigned to every high school biology student and every college freshman
Per sgombrare il campo da quello che i sociologi chiamano uno “vizio di ottimismo” (optmism bias), ossia un riflesso condizionato di ottimismo di fronte a notizie catastrofiche, spetta ora più che mai “agli esperti di ogni disciplina, che si occupano del futuro della biosfera e del benessere umano, mettere da parte la reticenza, evitare di indorare la pillola delle spaventose e disarmanti sfide che abbiamo di fronte a noi e dire le cose per quelle che sono”.
L’allarme è perentorio: “qualunque altro atteggiamento è fuorviante, nella migliore delle ipotesi, o addirittura, nella peggiore, negligente e potenzialmente letale per l’avventura umana”.
Lungi dall’essere conclusa, l’espansione umana sul Pianeta procede senza sosta e si è ormai trasformata in una imponente azione di “erosione della fabbrica stessa della civiltà”.
Il motore interno di questa condizione globale è la cultura, che funziona contemporaneamente come un aggregatore e un moltiplicatore di problemi, problemi che sono interrelati e che però continuano ad essere analizzati e studiati separatamente.
“Una diffusa ignoranza del comportamento umano e della natura incrementale dei processi socio-politici che dovrebbero pianificare le soluzioni aggiunge ritardo a ritardo nel procedere con azioni efficaci”.
L’emergere sulla scena politica, negli ultimi 5 anni, di movimenti di destra visceralmente avversi alla domanda ecologista dimostra che la certezza scientifica della intensità della crisi ecologica e della crisi di estinzione, sostengono gli autori, non porterà, in automatico, ad una risposta politica nuova e adeguata.
“Sin dall’inizio dell’agricoltura attorno agli 11mila anni fa, la biomassa delle vegetazione terrestre è stata dimezzata, con una corrispondente perdita di più del 20% della sua biodiversità originaria: di conseguenza, oltre il 70% della superficie terrestre della Terra è stata alterata da Homo sapiens. Delle stimate 0,17 gigatonellate di biomassa di vertebrati terrestri sulla Terra oggi, la maggior parte è rappresentata dagli animali da allevamento (59%) e dagli esseri umani (36%) e soltanto il 5% di questa biomassa totale è composta di animali selvatici: mammiferi, rettili, uccelli e anfibi”
Siamo oltre la bio-capacità del Pianeta
Ci troviamo piuttosto nel pieno di un ribaltamento di uno dei concetti centrali dell’ecologia, il density feedback: “quando una popolazione si avvicina alla sua massima capacità di carico ambientale, in media la fitness individuale comincia a declinare (la fitness è la performance ambientale di una specie, ossia il successo con cui un individuo accede alle risorse alimentari, prospera e si riproduce, NDR)”.
“Questo tende a spingere le popolazioni verso l’espressione istantanea di una capacità di carico, che mira a rallentare o invertire la crescita di popolazione. Ma per la maggior parte della sua storia, l’ingenuità umana ha gonfiato la naturale capacità di carico dell’ambiente a nostro vantaggio, sviluppando nuovi modi per accrescere la disponibilità di cibo”.
“Tramite l’accesso ai combustibili fossili, la nostra specie ha spinto il consumo di beni naturali essenziali e di servizi naturali molto oltre la capacità di carico di lungo periodo, o, più precisamente, della bio-capacità del Pianeta, rendendo così ancora più catastrofico quello che sarà così un inevitabile riaggiustamento dei nostri trend di ipersfruttamento (overshoot), se esso non sarà gestito con intelligenza”.
“Una popolazione umana in crescita non farà che esacerbare queste condizioni, portando ad una competizione ancora più accesa per un pool di risorse sempre più ristretto”.
Nessuno auspica politiche demografiche di tipo dittatoriale, ma è bene rendersi conto che i trend già avviati proseguiranno nel XXII secolo e che soltanto “istituire politiche fondate sui diritti umani per abbassare comunque la fertilità e smontare i meccanismi del consumo potrebbero attutire gli impatti di questi fenomeni”.
A dispetto di facili entusiasmi e di una ingenua propaganda ambientalista, dobbiamo essere consapevoli anche della insufficienza completa degli strumenti di governance internazionale già messi in atto sul fronte caldissimo della crisi di estinzione, del cambiamento climatico e di una relazione con i viventi di tipo non estrattivo.
Gli Obiettivi di Aichi al 2020, ad esempio, “anche se fossero stati raggiunti, sarebbero stati ben lungi dal realizzare ogni sostanziosa riduzione del tasso di estinzione”.
Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ( SDGs, United Nations Sustainable Development Goals) sono anche loro sulla strada per il fallimento “perché la maggior parte di essi non è stata adeguatamente integrata in una cornice in cui i fattori socio-economici sono interdipendenti gli uni dagli altri”.
E infine, per quanto riguarda il tanto sbandierato Accordo di Parigi per il Clima (2015), “anche ipotizzando che tutti i firmatari, di fatto, procedano a ratificare i loro impegni (prospettiva molto dubbia), il riscaldamento previsto raggiungerebbe comunque i 2.6-3.1 °C entro il 2100”.
Il collasso ecologico costringe a fare i conti anche con le nostre illusioni economiche. La gravità della situazione impone di “abolire il paradigma della crescita perpetua” e di imporre cambiamenti fondamentali al capitalismo globale. Ma questo “porterà per forza a conversazioni non facili sulla crescita demografica umana e sulla necessità di venire a patti con standard di vita più equi”.
Fonte: Bradshaw CJA, Ehrlich PR, Beattie A, Ceballos G, Crist E, Diamond J, Dirzo R, Ehrlich AH, Harte J, Harte ME, Pyke G, Raven PH, Ripple WJ, Saltré F, Turnbull C, Wackernagel M and Blumstein DT (2021) Underestimating the Challenges of Avoiding a Ghastly Future. Front. Conserv. Sci. 1:615419. doi: 10.3389/fcosc.2020.615419
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