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La giustizia tra specie è già scritta nel Mondo. Ed è perciò essenziale per la protezione dell’equilibrio climatico terrestre e per comprendere appieno il rischio di estinzione.  Ma che cosa è il rischio di estinzione? È la possibilità che la contrazione del numero di popolazioni animali su scale continentali raggiunga un punto tale da semplificare oltre modo il fenomeno biologico, ossia la ricchezza di organismi diversificati che abitano la Terra. Una biosfera ridimensionata. Una colonia.

Ora il gruppo di ricercatori che da oltre un decennio quantifica le soglie-limite di alcuni indicatori climatici ed ecologici del Sistema Terra (e che fa capo a Johan Rockström) ha inserito il concetto di giustizia tra generazioni e tra specie (“justice criteria”, criteri di giustizia) nel novero delle condizioni indispensabili per conservare la resilienza del nostro pianeta (“Safe and Just Earth System boundaries”). Una Terra vivibile è una Terra giusta sia per gli animali che per gli esseri umani: “la stabilità e la resilienza del Sistema Terra e del benessere umano sono inseparabilmente connessi”. Perché la biosfera, la interdipendenza tra animali e vegetazione, è un coefficiente dell’equilibrio climatico terrestre. La vita animale stabilizza il clima della Terra, perché ne è parte. 

È il “justice approach”, una novità importante nel dibattito sul futuro. La giustizia tra specie “mira a proteggere insieme gli esseri umani, le altre specie e gli ecosistemi, rigettando il principio dell’eccezionalismo umano”. “Giustizia” vuol dire quindi che nella trama del fenomeno biologico gli animali hanno un posto che non può essere consumato, distrutto o ridotto senza che l’intero (il cosmo) perda la sua coerenza e ragione. Dovremmo tenerne conto. Questa non è una giustizia morale o umanistica. È una giustizia biologica, così essenziale da stare dentro le cellule,  i geni, le molecole di ogni organismo. La giustizia che lega i viventi è già nella forma del mondo. Questo è il punto cruciale del “justice approach”. 

La giustizia tra specie è già scritta nel Mondo. Ed è perciò essenziale per la protezione dell’equilibrio climatico terrestre

L’integrità del Sistema Terra garantisce che le enormi comunità umane non siano esposte a condizioni ambientali insostenibili. Eppure, già nel 2020 uno studio uscito sulla PNAS aveva avvertito: siamo ormai fuori dalla “nicchia climatica umana”, cioè la fascia geografica del globo terrestre entro la quale le temperature medie stagionali hanno finora consentito la prosperità delle società umane. Ora NATURE SUSTAINABILITY pubblica una integrazione di quelle riflessioni, presentando un quadro generale già più che allarmante. “Spesso misuriamo i costi del cambiamento climatico in termini monetari, ma ci sono anche questioni etiche. Proviamo, allora, ad esprimere queste questioni contando il numero di persone tagliate fuori dalla nicchia climatica umana, definita come la densità demografica umana, storicamente costante, entro un certo intervallo di temperature medie. Ebbene, già oggi i cambiamenti climatici hanno spinto in media il 9% della umanità globale (600 milioni di persone) fuori di questa nicchia. 

Entro la fine del nostro secolo (2080-2100) le attuali politiche climatiche, che ci pongono sulla traiettoria di un aumento di 2.7 °C, potrebbero condurre un terzo delle popolazione del mondo (22-39%) fuori di questa nicchia”. Centinaia di milioni di persone saranno esposte ad un calore incompatibile con il funzionamento del nostro organismo, a causa del caldo umido estremo “la cui frequenza è più che raddoppiata dal 1979 ad oggi”. Soprattutto nelle regioni più povere del mondo, le frontiere dell’impresa coloniale e capitalista del Nord Globale.

E qui la dimensione del comune concetto europeo di giustizia, così saldamente vincolato alla nozione illuministica dei diritti civili ed umani, entra in fibrillazione. Perché le frontiere del caldo torrido oltre i quaranta gradi sono le periferie continentali della organizzazione-mondo uscita dalla rivoluzione geografica del 1492. La giustizia ambientale è quindi confluita nella questione della giustizia economica post-coloniale. Questo conflitto nella interpretazione storica degli esiti del pensiero liberale e democratico moderno è indubbiamente esploso nel 2020, con il movimento BLACK LIVES MATTER. Ma in tre soli anni si può dire che esso abbia raggiunto una certa maturità, dilagando a tutto campo nella storiografia contemporanea sui rapporti di forza tra il Nord Globale e il Sud Globale. La posta in gioco è ancora oggi la disponibilità e la mobilitazione delle risorse naturali, ma la compromissione dei diritti umani fondamentali conseguente all’espandersi incontrollato della crisi ecologica (alluvioni, siccità, incendi continentali) ha definitivamente cancellato l’illusione che la giustizia sia affare giuridico. La sete e la fame di giustizia, per centinaia di milioni di persone, ha la stessa pressante urgenza della giustizia ambientale multi-specie. Nel crollo dell’idea occidentale di giustizia viene alla luce la lampante verità della compenetrazione ancestrale e ontologica tra gli esseri umani e gli enti (i viventi). 

In questo scenario, particolarmente inaspettata è la presa di posizione di THE LANCET, la rivista di medicina più prestigiosa del mondo. Sul Pianeta di oggi, il diritto alla salute, ai vaccini, ad aria ed acqua pulita, alla chirurgia di emergenza dipende dall’eredità del passato coloniale. Non solo le frontiere del Sud Globale, che un tempo erano le colonie, soffrono di una carenza cronica di strutture sanitarie e di accesso alla medicina di base. Sono ora anche i distretti più flagellati dal riscaldamento della Terra. 

“Il discorso sul cambiamento climatico e la salute dell’umanità deve includere il principio di equità, perché non tutte le comunità umane verranno colpite nello stesso modo (…) le nazioni del Nord globale hanno colonizzato il bene comune, l’atmosfera, per il proprio arricchimento, attraverso forme di industrializzazione e di crescita le cui fondamenta sono gli schemi di appropriazione coloniale”, scrive THE LANCET (“Climate change, health, and discrimination: action towards racial justice”).  Infatti, “il cambiamento climatico e il razzismo interagiscono l’uno con l’altro e producono effetti sproporzionati tra il Nord globale e il Sud globale”, ma “la discriminazione strutturale e il razzismo risalgono al colonialismo”.

Eppure, soltanto nel 2022 IPCC ha ammesso che “gli schemi attuali, e storici, di diseguaglianza economica, come ad esempio il colonialismo, sono uno dei fattori che causano la vulnerabilità climatica”. Come ha scritto la geografa Farhana Sultana, citata sempre da THE LANCET, “il colonialismo è una maledizione che ha stregato il passato, il presente e il futuro usando il clima della Terra”.

Nei summit della UNFCCC (le cosiddette “cop”), di quale giustizia climatica o ambientale si discute davvero? Secondo THE LANCET (“Envisioning environmental equity: climate change, health, and racial justice”),  “non c’è una sola definizione per giustizia climatica”. “Le definizioni variano da concezioni occidentali (centrate sulla condivisione equa degli impatti) alla lettura del fenomeno fornita dal Sud Globale, che fa riferimento ad esempio ai Principi di Bali (Bali Principles of Climate Justice Network) del 2002, e che quindi chiede il riconoscimento della unità ecologica di tutte le specie. I Principi di Bali insistono sul fatto che ‘le comunità hanno il diritto di essere libere dai cambiamenti climatici, dai loro effetti e da ogni altra forma di distruzione ambientale’”. E dunque “la giustizia climatica deve impegnarsi a prevenire l’estinzione delle culture umane e della biodiversità a causa delle alterazioni del clima e di tutto ciò che ne deriva”.  

Anche gli autori di questo contributo su THE LANCET si schierano a favore delle riparazioni, tema tenuto sotto il controllo del silenzio da parte dei mass media europei, e tuttavia centrale nel dietro le quinte degli imponenti movimenti migratori che investono il nostro continente. 

“Ci sono indicazioni chiare dall’ambito sanitario per sostenere la richiesta di riparazioni climatiche. I Paesi, le grandi compagnie, e anche le classi dirigenti che sono maggiormente responsabili, oggi come nel passato, dovrebbero pagare le riparazioni alle nazioni più colpite e farlo in modo onnicomprensivo, dando corso ai fondamenti di una giustizia compensativa. Questo tipo di giustizia prende diverse forme: la cancellazione del debito, la restituzione della terra, finanziamenti senza condizioni”. I ricercatori che lavorano su questi temi “sono convinti che le riparazioni non riguardano soltanto il passato, ma la costruzione di un progetto capace di trasformare l’ecologia del futuro”.  

La giustizia tra specie è già scritta nel Mondo. Ed è perciò essenziale per la protezione dell’equilibrio climatico terrestre

Non possiamo sostenere l’opportunità di una giustizia condivisa post-coloniale senza rileggere sotto la stessa luce gli appelli per la protezione della natura. Perché le condizioni attuali del Pianeta sono l’esito di scelte storiche che hanno prodotto una compromissione del diritto alla vita. Se la giustizia climatica porta a riflettere sul peso della memoria collettiva (la nostra disponibilità o meno ad ammettere ciò che siamo stati per lunghi secoli e come siamo arrivati fin qui), la ricostruzione storica è la premessa di una valutazione attendibile del disastro. Il rischio di estinzione è definito non solo dal tracollo di migliaia di popolazioni di specie animali, ma anche dalla impermeabilità morale degli schemi storici di appropriazione degli ecosistemi. 

“Poiché le genti del Nord America e di molti Paesi europei diventeranno sempre più diversificate, e poiché osserviamo la continua espansione delle diseguaglianze di reddito e il peso sproporzionato del cambiamento climatico sui discendenti dei popoli colonizzati, dovremmo aspettarci che la voce che chiede le riparazioni diventi sempre più alta”. Ha scritto Olivette Otele, Distinguished professor of the legacies and memory of slavery al SOAS di Londra

“Ci saranno certo anche strenue opposizioni, da parte di coloro che beneficiano dello status quo e che, soprattutto, non riescono ad immaginare un mondo diverso. Ma è soltanto attraverso il confronto con il passato che possiamo fantasticare su un futuro, ed è soltanto attraverso le riparazioni che quel futuro prenderà un volto”. 

Non c’è giustizia multi-specie se non c’è il diritto a pensare una organizzazione-mondo alternativa a quella consolidatasi negli ultimi cinque secoli. Un pensiero incastonato nel presente assomiglia ad una predestinazione ontologica. Ma Homo sapiens non ha un destino, ha una storia. Perciò la possibilità di un pensiero sul mondo ha a che fare con la libertà. Non siamo presenti a noi stessi e al nostro Pianeta, quando non siamo liberi. E se queste costrizioni oggi, nel sud globale, significano soprattutto abnormi diseguaglianze economiche che intaccano la dignità fisica e materiale di uomini e donne, per noi del Nord globale l’opzione del pensiero sul mondo dovrebbe coinvolgere soprattutto le doti intellettuali e spirituali delle persone. 

“Ma dare nuovo vigore all’individuo in senso liberale richiede esattamente ciò che i liberali detestano: una rivoluzione”, sostiene con acume Yanis Varoufakis. Questa è, per il filosofo tedesco Felix Heidenreich, la vera “democrazia sostenibile”. Il richiamo ad una limitazione delle libertà personali non dovrebbe essere percepito come paternalismo, ma, sostiene Heidenreich, al contrario, come una nuova assunzione di responsabilità individuale che rimette le fondamenta della libertà nel bene comune. E tuttavia non c’è dubbio, anche per Heidenreich, che l’ideale di libertà debba essere rivisto.

È il luogo originario della libertà che va messo in discussione. Questo luogo un può prescindere dal Pianeta. La nostra presenza sulla Terra porta già inscritta nella sua condizione primaria l’accordo essenziale con il fenomeno biologico. E quindi con il tipo di libertà che ci appartiene. La giustizia multi-specie e post-coloniale è, allora, una comprensione totale dei vincoli evolutivi e delle opzioni storiche ancora aperte che tengono insieme comunità ed ecosistemi.

(Foto: Mémorial de chasse – Hunting Memorial, Population Yup’ik, États-Unis, Alaska, Vers 1900, Musée du Quai Branly)

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MONDO ED ESTINZIONE

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