Categoria: Zoonosi Emergenti

SarsCov2 un anno dopo. Cosa è bene ricordare

SarsCov2 inaugura una nuova epoca biologia

SarsCov2 inaugura una nuova epoca biologica. A un anno esatto dall’inizio della pandemia lo scenario sul futuro spalancato dal SarsCov2 è estremamente nitido. Non certo incoraggiante, ma quanto meno ben delineato. Sono proprio le notizie delle ultime settimane sull’affermazione di mutazioni molto efficienti nella struttura proteica del virus a far intendere i contorni del contesto ecologico globale ormai consolidato.

La nostra dipendenza coatta dalle misure di contenimento dell’infezione non è quindi una stagione transitoria e passeggera, che svanirà grazie alla vaccinazione di massa. Facciamo invece i conti con l’instaurarsi di una nuova realtà condivisa e globale: l’interferenza ecologica permanente, che è poi il succo dell’Antropocene, genera questo tipo di problemi.

Una volta scoperchiato il vaso di Pandora di una zoonosi altamente aggressiva gli effetti sistemici del disturbo ecologico diventano dominanti, pervasivi e definitivi. Ci dicono che lo shock economico indotto dal virus sarà ancora lungo. Ma questa è solo una valutazione approssimativa. Abbiamo varcato la soglia di sicurezza. Nessuno, dopo il 2020, potrà più affermare di non sapere che cosa succede in Antropocene quando la ferocia dei commerci, dell’uso delle risorse naturali organiche, dell’allevamento in batteria di migliaia di individui di centinaia di specie diverse raggiungono il loro acme. 

Quindi il bilancio del primo anniversario della pandemia impone alcune riflessioni di ordine biologico prima ancora che economico. 

Una zoonosi come il SarsCov2 non completa il suo “ciclo vitale” quando viene sconfitta dal vaccino, o dai vaccini, all’interno delle comunità umane che contano miliardi di individui. Il virus, ormai acclimatato fuori del suo ospite originario, ha trovato un enorme ambiente-mondo in cui continuare, silenzioso e indisturbato, la sua normale amministrazione.

Lo ha scritto NATURE lo scorso 2 marzo: “sin da quando il coronavirus ha cominciato a diffondersi nel mondo, gli scienziati hanno espresso la loro preoccupazione sul fatto che il virus avrebbe potuto passare dagli esseri umani agli animali selvatici. Se ciò avvenisse, il virus potrebbe annidarsi in diverse specie, avere la possibilità di mutare e quindi risorgere fra gli umani anche dopo che la pandemia sia stata domata.

Questo condurrebbe il SarsCov2 a completare il cerchio, perché gli animali selvatici probabilmente lo riporterebbero indietro negli umani. Forti evidenze suggeriscono che il virus ha avuto origine nei pipistrelli Rhinolophus, forse passando per altri animali prima di infettare le persone.

Nella fase attuale della pandemia, con centinaia di migliaia di infezioni confermate di COVID-19 ogni giorno, le persone sono ancora il vettore principale di trasmissione del SarsCov2. Ma negli anni a venire a partire da adesso, quando la diffusione all’interno delle comunità sarà stata soppressa, una riserva di SarsCov2 negli animali che si muovono liberamente potrebbe diventare una fonte recalcitrante di nuove fiammate di infezione”.

Che cosa questo potrebbe significare per specie selvatiche minacciate o già a rischio di estinzione è molto presto per dirlo. Ma sappiamo che tra i mammiferi, ad esempio, specie iconiche non sono immuni al virus: tigri, puma, leoni e leopardi delle nevi contano almeno un caso già accertato ciascuno di infezione, solo per rimanere nel campo d’azione dei big cat.

Tuttavia, l’allarme è già acceso anche per gli animali domestici: “gli animali selvaggi non sono gli unici ad essere finiti sotto osservazione. Alcuni studi hanno mostrato che il SarsCov2 può infettare molte creature domestiche e tenute in cattività, dai gatti ai cani (…) i focolai negli allevamenti di visoni indicano che gli animali infetti possono passare il virus agli esseri umani”. 

Bisogna essere molto chiari sulle implicazioni di meccanismi di interazione ecologica di questo genere. Intanto, essi dimostrano il livello e il tipo di coinvolgimento che ci lega ormai non solo alle faune rimaste selvagge sul Pianeta (il 4% del totale), ma anche ai nuovi assemblage artificiali di animali creati appositamente da noi: le popolazioni degli zoo (ad aprile 2020 furono testati e trovati positivi al virus 4 tigri e 3 leoni al Bronx Zoo di New York.

Lo scorso dicembre 4 leoni erano positivi allo zoo di Barcellona ), le specie addomesticate (i gatti, che vengono monitorati in uno screening in corso nel dipartimento di veterinaria della Texas Team A&M University, negli Stati Uniti), le specie in via di estinzione inserite in ambiziosi e controversi programmi di captive breeding (i gorilla di montagna al San Diego Zoo della California, di cui almeno un individuo era positivo un mese fa) e le specie di valore commerciale (legale e illegale) allevate in strutture specifiche e destinate alla caccia, ai macelli e al traffico di organi, pelle, ossa (i forse 10mila leoni del Sudafrica, le tigri delle tiger farms nel Sud Est Asiatico e in Cina), gli animali da pelliccia. 

La questione non è più quindi solo come trovare un modo per tenere sotto stretto monitoraggio possibili hot spot di nuove patologie ancora sconosciute; la questione riguarda anche come amministrare, dal punto di vista etico e sanitario, le popolazioni animali volute da noi esseri umani, che stanno accanto a quelle selvatiche ed amplificano i rischi globali di trasmissione zoonotica.

Ad essere entrata in crisi non è dunque soltanto la regolamentazione internazionale (che va riscritta, secondo molti osservatori) che definisce limiti e paletti del commercio di prodotti animali (a scopo alimentare e ornamentale), come CITES; in fibrillazione è l’intera convivenza con le faune, domestiche o meno, del nostro Pianeta, che abbiamo manipolato fino al punto da mettere in piedi convivenze spericolate sui cui effetti non sappiamo nulla. “La storia dei visoni e del COVID-19 ha confermato nei ricercatori i timori della prima ora – rimarca NATURE – e cioè che il virus può rifugiarsi negli animali in modi che sono difficili da prendere e da controllare e che da lì possono saltare e tornare indietro sulle persone”. 

E proprio questo fatto – il comportamento fluido e dinamico del virus – è della massima importanza per capire cosa accade, cosa è accaduto e cosa accadrà. Già un anno fa Telmo Pievani avvertiva che, da un punto di vista strettamente evolutivo, il virus risponde a se stesso in modo impeccabile. È quindi sbagliato, ancorché inutile, vedere nel SarCov2 un nemico orientato alla distruzione insensata della popolazione umana. Assistiamo, invece, ad un copione coerente con l’assetto generale della biosfera. L’enorme danno subito da noi Sapiens non è una spia della spietatezza dell’aggressore, quanto piuttosto della nostra miopia che tende a sopprimere i dati di realtà, analizzati dal discorso scientifico, a vantaggio della propaganda che ha come unico obiettivo la sottovalutazione, dinanzi all’opinione pubblica, della gravità della crisi ecologica. 

Ora una review sulla natura dei virus uscita su FRONTIERSIN propone un ulteriore allargamento del ragionamento: A place for virus on the tree of life. Per meglio intendere la minaccia che grava su di noi, e il nuovo contesto ecologico globale inaugurato nel 2020, bisogna prima capire come si collocano i virus nell’organigramma complessivo della vita, ossia lo schema fondamentale che rappresenta le ramificazioni, le interrelazioni evolutive e le parentele di tutti gli organismi del Pianeta.

Il dibattito è ancora apertissimo sulla domanda se i virus siano o meno esseri viventi, ma è certo che i virus sono in una relazione evolutiva con una molteplicità di organismi, uomini compresi, da milioni di anni: “i virus esercitano una pressione selettiva sulle cellule (ndr, dell’organismo aggredito) per evolvere contro-misure adeguate ad evitare l’infezione. Questo, a sua volta, forza il virus ad evolversi per evitare le strategie difensive dell’ospite”. Si tratta quindi di “una co-evoluzione dinamica e di lungo periodo, che nasce dalle interazioni ecologiche dei virus con le cellule ospite”. Di conseguenza “i virus sono entità biologiche che condividono una lunga storia evolutiva con gli organismi cellulari”. 

Il dibattito sulla natura dei virus serve a ridimensionare il nostro sentimento di strapotere sui meccanismi intrinseci alla proliferazione delle forme di vita, dalle più semplici alle più complesse. Nonostante l’enormità delle nostre conoscenze genetiche, moltissimo rimane da capire sul fenomeno biologico, nella sua essenza e origine: “è importante ricordare che le forme di vita macroscopiche (ndr, come i grandi mammiferi e i Sapiens) sono l’eccezione piuttosto che la regola quando consideriamo il numero di specie su questo Pianeta (…) non sappiamo ancora se la vita sia una categoria naturale definita dall’universo o se sia piuttosto una categoria artificiale creata dall’uomo”. 

Gli autori parlano dunque della “inseparabile natura delle cellule e dei virus”. I virus hanno bisogno della cellula ospite (e in particolare dei suoi ribosomi) per produrre proteine e attraverso questa forma di “parassitismo cellulare” immettono il loro materiale genetico in organismi multicellulari complessi. “I geni saltano attorno. Non soltanto passano da una generazione all’altra, ma possono anche muoversi all’interno delle generazioni, e qualche volta essere trasferiti da una specie ad un’altra. É un processo che chiamiamo trasferimento orizzontale dei geni, o HGT, che probabilmente è antico tanto quanto la vita stessa”, spiegano gli autori su FRONTIERSIN.

“Il trasferimento orizzontale dei geni è molto più massiccio nei batteri. Le specie di batteri acquisiscono e perdono geni rapidamente nel tempo evolutivo, portando a quella che possiamo definire una visione caotica dell’albero della vita. Osserviamo infatti che una specie non è una entità fissa, ma una collezione di geni che si scambiamo con altre specie come giocatori in una partita di calcio”. Anche i virus sono impegnati in una sorta di trasferimento orizzontale di geni, grazie alla loro tendenza a distruggere le cellule degli ospiti “adottando uno stile di vita più dormiente, la lisogenia, quando inseriscono il loro DNA dentro il genoma di una cellula infetta, riuscendo così a replicarsi insieme all’ospite attraverso la divisione cellulare”.

C’è dunque una solida possibilità che “i virus esistano almeno da quando esistette LUCA, il last universal common ancestor (il primissimo organismo primordiale che è l’antenato universale di tutte le forme di vita della Terra)”. L’albero della vita è quindi “infettato dai virus dalla radice alle foglie”. E per quanto riguarda noi Sapiens: “la storia non finisce qui. Almeno l’8% del genoma umana è composto da DNA virale. Veniamo infettati da quando siamo diventati umani. Alcune di queste infezioni hanno lasciato il segno. Ci sono prove che suggeriscono che la placenta dei mammiferi si evolse da una antica infezione virale! I virus sono molto più di nostri cugini. Sono una parte integrale della nostra identità, interconnessi con il nostro stesso DNA. Difficile pensare in un modo più inclusivo di questo alla vita sulla Terra”. 

Perché tutto questo è importante? Perché  la storia evolutiva del Pianeta dice che la nostra avventura con il Covid-19 non è una sventura estemporanea, invece, fin nei microscopici passaggi del metabolismo cellulare, risponde a logiche strutturali e antichissime. Le interferenze ecologiche profonde risvegliano, potenziano (con feedback imprevedibili) e riportano alla luce ciò che già c’era. La reazione adeguata agli eventi dell’ultimo anno non è dunque il rifiuto della realtà, che corrisponde al negare la catastrofe ecologica concentrando il focus sulla crisi sanitaria; è, invece, allargare l’intero spettro di analisi dell’epidemia e collocare la zoonosi nel giusto posto della nicchia ecologica globale. In cui convivono, a questo punto, il passato remoto della vita convive con il presente appena nato dell’Antropocene. 

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L’approccio alla pandemia è riduttivo

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 
(Photo Credit: IPBES Press Kit)

Lo scorso 29 ottobre l’IPBES ha reso pubblico per la stampa (che in Italia lo ha ignorato) un report molto dettagliato sulle pandemie da zoonosi, come il SarsCov2, e la loro correlazione con il collasso ecologico globale. La conclusione di IPBES – Workshop on biodiversity and pandemics  (un documento in peer review) è chiara: l’approccio alla pandemia è riduttivo.

Il documento è il risultato di un lavoro gigantesco messo insieme da 22 esperti di tutto il mondo a luglio di quest’anno, che hanno fatto il punto sulle cause di questa epidemia e sul perché i governi nazionali e la governance internazionale non possono più rimandare la questione dei driver ecologici che sono alla fonte di malattie come il Covid19.

Gli scienziati coinvolti hanno discusso i dati attualmente disponibili su 500 malattie zoonotiche di impatto globale e hanno ribadito che la comunità internazionale deve spostarsi su una visione politica “one health”, che miri, allo stesso tempo, alla salvaguardia della salute e integrità di uomini, animali ed ecosistemi. 

L’IPBES denuncia infatti che siamo intrappolati in un “approccio riduzionista”, lo stesso ampiamente impiegato dai media italiani per raccontare l’emergenza nazionale: “il nostro approccio business-as-usual alle pandemie è basato sul contenimento e sul controllo, una volta che la malattia è emersa, e si basa quindi primariamente su un modello di intervento riduzionista, che contempla il vaccino e lo sviluppo di terapie, piuttosto che sul ridurre le cause del rischio di pandemia e quindi sul prevenirle prima che esplodano”. 

Viviamo nella “era delle pandemie” e “venirne fuori richiede opzioni politiche che sostengano un cambiamento trasformativo orientato alla prevenzione”.

L’ordine di grandezza qualitativo e quantitativo di questo cambiamento è già stato illustrato dall’IPBES l’anno scorso a maggio, con il mega report che ha spiegato come 1 milione di specie sia ormai in via di estinzione e come la civiltà umana debba svoltare rispetto ad un modello economico fondato sull’espansione illimitata dei profitti e del prelievo di risorse naturali.

Nell’era delle pandemie deve essere chiaro che “le cause sottostanti le pandemie sono le stesse dei cambiamenti ambientali globali che sono alla base della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico. Includono il cambio di uso del suolo, l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura, il commercio e il consumo di specie selvatiche (…)”.

Infatti, “la recente crescita esponenziale proprio nel consumo e nel commercio, sotto la spinta della domanda dei Paesi sviluppati e delle economie emergenti, tanto quanto la pressione demografica umana, ha condotto ad una serie di malattie nuove, che originano principalmente nei Paesi in via di sviluppo ad alto tasso di biodiversità, e poi finiscono con il rientrare negli schemi di consumo globale”.

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

In questi modelli culturali ad enorme tasso di prelievo di risorse naturali ci sono la carne, le pellicce, rettili da compagnia, pelli esotiche, olio di palma per detergenti, cosmetici e alimenti, mammiferi usati come pet. 

Il rapporto IPBES, però, insiste anche sui costi di una zoonosi, di solito taciuti. Come per qualunque altro disastro ecologico, il prezzo da pagare è spalmato su più indici economici e finisce con il refluire nella categoria dell’offsetting, ossia nelle esternalizzazioni che i nostri modelli economici non tengono in considerazione, quando si decide come pianificare politiche produttive e consensi elettorali. 

Eppure, benché ignorate dai giornali e dalle televisioni mainstream, le cifre sui costi della pandemia indicano chiaramente che continuare ad ignorare la correlazione tra collasso ecologico, crisi di estinzione e rischio sanitario costa molto di più che invertire la rotta.

Stiamo quindi pagando il dazio di una miopia politica straordinaria e protratta nel tempo, non di misure estemporanee necessarie per evitare migliaia di morti: “è probabile che il Covid19 provochi danni economici di trilioni di dollari, con una stima globale di 8-16 trilioni di dollari a luglio 2020 e di 16 trilioni negli Stati Uniti, se presumiamo un contenimento dell’infezione dovuta al vaccino entro  i primi 4 mesi del 2021.

Se ipotizziamo costi simili per le altre pandemie già verificatesi negli ultimi 102 anni (l’influenza del 1918, l’HIV/AIDS e altre ancora) e vi aggiungiamo il peso su base annua di malattie emergenti su scala molto vasta (ad esempio, la SARS, Ebola e altre ancora), e inseriamo nel calcolo anche i 570 miliardi di dollari che ogni anno spendiamo per la influenza stagionale di forte intensità su scala pandemica, il costo dell’emergere di una zoonosi supera 1 trilione di dollari all’anno.

L’OCSE ha estimato che in media, nel periodo 2015-2017, ogni anno sono state allocate per la conservazione della biodiversità tra 78 e 91 miliardi di dollari, un investimento che rappresenta una frazione dell’impatto provocato da malattie zoonotiche emergenti.

Stime del costo globale di una strategia di prevenzione delle pandemie basate sulle cause che vi stanno dietro, e cioè il commercio di specie selvatiche, il cambio di uso del suolo e una migliore sorveglianza secondo l’approccio One Health, si aggirano tra i 22 e i 31.2 miliardi di dollari, che possono essere ridotti ancora (scendendo tra 17.7 e 26.9 miliardi di dollari), se si calcolano anche i benefici derivanti dalla riforestazione e quindi dal sequestro di carbonio – 2 ordini di grandezza in meno rispetto ai danni economici da pandemia”. 

Il vaccino per il SarsCov2 non chiuderà la partita, ma sarò solo il primo tempo di qualcosa di molto più grande, avverte l’IPBES: “senza strategie preventive, le pandemie emergeranno più spesso, si diffonderanno più rapidamente, uccideranno più persone e si ripercuoteranno sull’economia globale con un impatto ancora più devastante del precedente”. 

Infatti, “sin dal 1918, almeno 6 altre pandemie si sono abbattute sulla salute pubblica, 2 causate da virus influenzati, la HIV/AIDS, la SARS e adesso il Covid19.

Queste 6 sono la punta dell’iceberg delle potenziali pandemie. Oggi, una popolazione di 7.8 miliardi di persone è protagonista di progressi nel campo della medicina, dell’industria e dell’agricoltura, che, assommati ad una demografia molto rapida, alla conversione dei terreni agricoli, al cambiamento climatico e alla sostituzione della wildlife con animali da allevamento e al degrado ambientale, definisce l’Antropocene.

Il risultato è un incremento nella frequenza di interazioni tra specie selvatiche, specie allevate ed esseri umani, soprattutto nelle regioni tropicali e sub-tropicali (a basse latitudini) ricche di biodiversità selvatica con i suoi microbi. Il rischio di spillover è inoltre più alto anche in conseguenza del cambiamento climatico, che introduce perturbazioni nelle dinamiche di popolazione e nella distribuzione delle specie selvatiche”. 

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

Vediamo i numeri.   

Il 70% delle malattie emergenti (Ebola, Zika, l’encefalite da Nipah) sono zoonosi, malattie cioè causate da microbi di origine animale. Più di 400 microbi (virus, batteri, protozoi, funghi e altri microrganismi) sono passati sull’uomo negli ultimi 50 anni e la maggior parte aveva un ospite naturale in un animale selvatico. 

Ogni anno emergono oltre 5 nuove malattie che colpiscono l’uomo, e ognuna di queste ha le potenzialità per diventare una pandemia. 

Si stima che ci siano 1.7 milioni di virus ancora sconosciuti in mammiferi e uccelli che fungono da specie ospite. Di questi, 540mila-850mila potrebbero infettare gli esseri umani. 

I serbatoi più importanti dei patogeni con un potenziale sono i mammiferi (in particolare i pipistrelli, i topi e i primati) e alcuni uccelli (soprattutto gli uccelli d’acqua), e i mammiferi da allevamento (ad esempio, maiali, cammelli e polli).  

Il commercio internazionale legale di specie selvatiche è cresciuto in valore del 500% dal 2005 e del 2000% dagli anni Ottanta. Rientrano in queste percentuali il captive breeding, le wild farm e l’allevamento in ranch.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti sono i principali consumatori mondiali, perché importano animali selvatici come animali da compagnia. I soli Stati Uniti ne fanno entrare 10-20 milioni all’anno. Il numero delle spedizioni è cresciuto da 7.000 a 13.000 al mese nel periodo dal 2000 al 2015.

Per chi voglia farsi una idea di ciò di cui stiamo parlando quando parliamo di “wildlife trade”, ecco una raccolta di foto shock scattate da grandi fotografi naturalistici.

Anche il cambiamento climatico è un fattore di amplificazione del rischio di nuove pandemie come quella che stiamo vivendo da marzo: “un esempio è l’encefalite trasmessa dalle pulci diffusasi in Scandinavia e la febbre emorragica del virus Crimea-Congo, portata dagli uccelli migratori dell’Africa e delle regioni mediterranee fin nell’Europa temperata e nordica a causa di inverni più miti”.

“Il cambiamento climatico sarà una causa sostanziale del rischio di pandemie nel futuro, perché induce grandi movimenti di genti, specie selvatiche, specie ospite e vettori, e con loro la diffusione dei patogeni (…) portando ad una alterazione delle dinamiche naturali ospite/patogeno”. 

Le specie, infatti, si spostano per rispondere alle sollecitazioni climatiche: “il cambiamento nelle temperature terrestri causerà l’avanzamento geografico (shift) sia nelle zone geografiche degli ospiti che in quelle dei vettori; e anche alterazioni nei cicli vitali dei vettori e degli ospiti, perché saranno in migrazione anche gli esseri umani con i loro animali domestici”. 

Anche le alterazioni nei regimi normali delle piogge stagionali, dal momento che “alterano l’abbondanza di piante da raccolto e influiscono sui cicli biologici delle popolazioni di erbivori, come i roditori” contribuiranno “ ad ulteriori alterazioni nella distribuzione degli animali-serbatoio, alla loro densità di popolazione e al rischio patogeno complessivo”. 

Secondo i dati analizzati dall’IPBES, che, ricordiamolo, pubblica una sintesi di lavori indipendenti provenienti dai migliori centri di ricerca del mondo, “simulazioni sulla perdita di range geografico nello scenario di riscaldamento globale per più di 100mila specie di piante animali indicano, con un aumento di + 2 °C entro il 2100, una perdita di range bioclimatico di più del 50% nel 18% delle specie di insetti (oscillazione 6-35%), 8% delle specie di vertebrati (oscillazione 4-16%) e del 16% delle piante (oscillazione 9-28%)”.

Da un punto di vista biologico ed ecologico globale, dunque, si formeranno “nuove comunità di specie selvatiche e quindi nuove relazioni tra queste specie”. Sono scenari ignoti alla scienza, del tutto inesplorati. 

A cambiare è, in poche parole, l’assetto generale nella composizione di specie all’interno delle regioni ancora abbastanza wild da sostenere popolazioni animali diversificate. 

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

Uno degli aspetti più preoccupanti di questo rapporto è che neppure le strategie di conservazione della biodiversità possono più esimersi dal tenere in considerazione il rischio epidemiologico da zoonosi.

La gravità della situazione è evidente, ad esempio, nel rischio potenziale dei corridoi ecologici, considerati indispensabili per ampliare lo spazio disponibile per gli animali, soprattutto i grandi mammiferi.

“I programmi elaborati per facilitare i movimenti della wildlife tra porzioni isolate di paesaggio, ad esempio i cosiddetti corridoi, o per creare paesaggi a mosaico che ospitino wildlife, mandrie e comunità umane, potrebbero creare più occasioni per il contatto e quindi la trasmissione microbica”. 

Una altra questione enorme, ancora una volta, è “la perdita dei predatori e quindi la conseguenze supremazia di specie sinantropiche (che vivono a stretto contatto con l’uomo), che sono anche serbatoio di specifiche malattie”. 

Allevamenti intensivi da carne, rotte commerciali che prevedono il trasporto e l’accatastamento di animali vivi a centinaia se non migliaia di capi, allevamenti di animali da pelliccia: sono tutte condizioni pericolose che aumentano il rischio di “ricombinazione virale”, ossia di mutazioni all’interno di un virus che si adatta rapidamente per colonizzare specie viventi nuove. 

Un esempio di questi giorni è la decisione del governo danese di abbattere 17 milioni di visioni da allevamento perché potrebbero essere già stati infettati da una variante del SarsCov2, che è già passata anche su alcune persone. Secondo il Primo Ministro danese, Mette Frederiksen, sussiste il rischio che “il virus mutato nel visone metta a rischio l’efficacia del vaccino”. 

Allevamenti intensivi da carne, rotte commerciali che prevedono il trasporto e l’accatastamento di animali vivi a centinaia se non migliaia di capi, allevamenti di animali da pelliccia: sono tutte condizioni pericolose che aumentano il rischio di “ricombinazione virale”, ossia di mutazioni all’interno di un virus che si adatta rapidamente per colonizzare specie viventi nuove. Per questo la Danimarca ha deciso di abbattere 17 milioni di visoni, che sono già infettati da una variante del SarsCov2

Esempi analoghi, che possono contare su dati già elaborati, vengono naturalmente anche dall’Asia, ad esempio per il pangolino (Manis javanica), che potrebbe essere stato l’animale di amplificazione per il SarsCov2, cioè la specie che ha fatto da ponte per lo spillover sull’essere umano: “uno studio lungo 10 anni condotto nel Paese di origine ha rivelato che i pangolini catturati non avevano nessun virus, mentre altri 2 gruppi, controllati alla fine della rotta commerciale, portavano tracce di materiale genetico strettamente imparentato con il SarsCov2”.  

Il ratto del bamboo, mangiato in Cina e nel sud est asiatico, secondo una ricerca condotta in Vietnam, è infetto da coronavirus nel 6% degli esemplari ancora all’interno degli allevamenti, nel 21% degli individui nei mercati di animali vivi e nel 56% degli animali ormai arrivati al ristorante.

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 
Oil palm plantation at edge of rainforest where trees are logged to clear land for agriculture in Southeast Asia

Come già accaduto per il Rapporto del maggio 2019, anche stavolta l’IPBES non si limita a puntare il dito contro la civiltà umana del XXI secolo, ma suggerisce alcuni passaggi, stavolta politici, che segnerebbero una rottura, ma anche un avanzamento storico rispetto all’attuale assetto della governance globale sulla protezione della biodiversità. 

Bisogna “lanciare un consiglio intergovernativo di altro livello per la prevenzione delle pandemie, che fornisca cooperazione tra i governi e lavori sui punti di intersezione delle 3 Convenzioni di Rio (Convenzione sulla Biodiversità, accordo CITES per il commercio di specie selvatiche e Convenzione sul Clima).

Questo coordinamento internazionale dovrebbe anche creare le condizioni negoziali per arrivare ad un accordo in cui tutti i Paesi aderenti si impegnino sull’approccio ONE HEALTH. 

ONE HEALTH deve diventare parte integrante dei governi di ogni nazione.

In aggiunta, è necessario mettere in piedi anche una partnership permanente tra la World Organisation for Animal Health (OIE), la Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora (CITES), la Convention on Biological Diversity (CBD), la World Health Organization (WHO), la Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) e infine la International Union for Conservation of Nature (IUCN).

Ci sono poi misure che riguardano la vita della società civile e delle democrazie rappresentative. 

I costi delle pandemie devono essere conteggiati nei rapporti costi/benefici dei consumi di beni, della produzione, dei progetti di espansione agricola e anche dei budget e della politica in generale.

Bisogna disegnare meccanismi finanziari come i bond, sia a livello di nuove imprese a vocazione ambientalista che come titoli sovrani, per mettere in movimento e generare risorse economiche da destinare alla conservazione della natura e degli ecosistemi. In questa nuova visione potrebbero rientrare anche delle compensazioni per i Paesi con la maggior biodiversità. 

Fare di tutto per promuovere, come linea politica, la transizione a stili alimentari meno dipendenti dal consumo di carne. E quindi spingere per la riduzione dei consumi, anche di quei prodotti che hanno un impatto ambientale abnorme, correlato con le zoonosi, senza escludere, anzi, strumenti di pressione come una maggiore tassazione: olio di palma, legni esotici, pellicce. 

Non c’è dubbio che siamo entrati in una fase della civiltà umana dalle implicazioni biologiche sconvolgenti. Eppure, cercando di orientarci fra sentimenti a cui non sappiamo ancora dare neppure un nome, non è inutile rivolgersi al pensiero di coloro che, con decenni di anticipo, intuirono su quale autostrada senza vie di ritorno si fosse incamminata la modernità.

Uno di loro è un cinese, Zhang Shizao, che morì nel 1973 e fu Ministro dell’Istruzione nel governo del suo Paese: “Mentre ogni cosa sotto il cielo è caratterizzata dalla finitezza, solo gli appetiti non conoscono limiti. Quando la quantità di risorse finite viene valutata sulla base di appetiti illimitati, c’è da aspettarsi che tale disponibilità venga meno nel giro di poco. Così come l’esaurimento delle cose finite non tarderà a giungere, se esse saranno usate per soddisfare appetiti insaziabili”.

Photo Credits: IPBES Press Kit

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Il virus rivela la disfunzione ecologica permanente

SarsCov2 inaugura una nuova epoca biologia

La sorpresa e il terrore dinanzi al propagarsi dell’epidemia da SarsCov2 è piuttosto ridicola. Siamo primati relativamente da poco sulla scena ecologica mondiale. Non c’è stato ancora il tempo per venire a contatto con tutti i virus sconosciuti che albergano nelle ultime foreste primarie del mondo o in alcune specie animali. Il discorso è semmai un altro. Il virus rivela la disfunzione ecologica permanente. Una caratteristica portante della nostra epoca.

Le zoonosi sono una sorta di specchio anche di noi stessi: testimoniano l’antica, ancestrale connessione tra la nostra specie e i virus, oppure i batteri, per il semplice fatto che ci siamo co-evoluti con il Pianeta e le altre specie. Tutte. Anche quelle microbiche. Siamo stati a contatto per un tempo lunghissimo, magari a distanza, ma i nemici sconosciuti sono sempre stati lì, nell’ombra, pronti a farci visita, con le giuste opportunità. 

Insomma, come in un film di fantascienza dove gli astronauti atterrano su un Pianeta apparentemente disabitato, non siamo soli. La nostra non è mai stata una navigazione in solitaria, e non lo è neppure adesso, nonostante la potenza dispiegata sul Pianeta. Il nostro destino è quello dei virus, e viceversa.

Il danno recato alla nostra specie da una qualunque zoonosi non è dunque un evento straordinario o fuori scala. È invece un indizio storico dell’epoca ecologica in cui ci troviamo, un’epoca in cui la nostra specie si è sviluppata sino a raggiungere una soglia-limite. Oltre questa soglia ci sono incroci pericolosi con altre specie, lo scontro contro l’equilibrio climatico terrestre e la distruzione dell’integrità ecologica e genetica degli ecosistemi.

Quello che noi chiamiamo “successo di un patogeno” e quindi “patogenicità” risponde soltanto a logiche evolutive. È una logica evolutiva, del tutto consequenziale e razionale, che una specie (noi) che ha raggiunto i 7 miliardi e 800 milioni di individui sconfini in foreste un tempo intatte e inaccessibili in cerca di minerali preziosi, legname e carne.

È logico anche che questa specie, classificata come super-predatore, pianifichi di servirsi a scopo alimentare di specie non addomesticate, ma costrette a riprodursi in cattività. Ed è perfettamente logico che un patogeno abituato al suo ospite sfrutti le occasioni che ha a disposizione, interagendo con il super predatore e giocando alle sue stesse regole. E cioè: mutazione, adattabilità, selezione naturale, proliferazione.

Perché, allora, siamo così sconvolti dal comportamento del virus?

L’aspetto più inquietante del superamento della soglia-limite è la defaunazione. Se ancora poco sappiamo del SarsCov2 e di come cambierà la sua interazione con noi, il suo nuovo ospite, ancora meno ci è noto che cosa sta accadendo agli habitat considerati più pericolosi per i futuri spillover.

Un articolo uscito su NATURE Communications nel 2019 e discusso da CARBON BRIEF avverte che, all’aumentare delle temperature medie globali, è concretoil rischio di allargamento dell’area di contagio di ebola, che potrebbe raggiungere il Kenya e la Tanzania.

“Con temperature più calde, i pipistrelli e altri animali che si suppone trasmettano il virus agli esseri umani, si prevede si sposteranno verso nuove aree, portandosi appresso la malattia. Il nuovo modello suggerisce che entro il 2070 le epidemie scoppieranno, in media, ogni 10 anni, se la rapida crescita demografica e il lento sviluppo saranno accompagnate da una sostanziale inazione sul fronte del cambiamento climatico.

Nelle attuali condizioni, la media di esplosione delle epidemie è di una 1 volta ogni 17 anni (…) lo studio conclude che con gli attuali tassi di crescita economica e di alte emissioni l’area totale suscettibile alla epidemia potrebbe espandersi di 1/5”, riporta CARBON BRIEF. 

Il comportamento dei pipistrelli rientra in uno schema molto più vasto, e cioè la defaunazione: la diminuzione lenta ma progressiva del numero di individui che compongono le popolazioni di una specie distribuite in un certo habitat. Era il 25 luglio del 2014 quando usciva su SCIENCE uno studio sulla defaunazione firmato da Rodolfo Dirzo della Stanford University che ha fatto scuola: la defaunazione è la condizione ecologica ormai predominante del nostro Pianeta, anche là dove resistono aree protette di enorme valore biologico.

Da allora, la consapevolezza che gli ecosistemi impoveriti di specie animali sono una bomba ad orologeria è cresciuta considerevolmente. Ciò che più conta nei processi di defaunazione, come disse John Epstein della ECOHEALTH ALLIANCE a David Quammen al tempo della stesura di Spillover è questo: “la chiave di tutto è l’interconnessione. Si tratta di capire in che modo uomini e animali sono interconnessi”.

Questa rete di rapporti reciproci tra specie funziona su più livelli: noi e gli animali, gli animali tra loro e noi e gli animali rimasti dopo che alcune specie si sono estinte o sono diminuite tanto da non interagire più, in un ecosistema, come facevano in passato.

Questo è il livello basico della defaunazione: che cosa succede agli equilibri interni di un ecosistema, quando uno dei suoi abitanti scompare ? Se le colonie di pipistrelli del Sierra Leone, del Gabon, del Ghana o della Repubblica Democratica del Congo si sposteranno, e se nel frattempo altre comunità di specie di quelle foreste tropicali, soprattutto i mammiferi, decimati dalla caccia a scopo alimentare, collasseranno al punto da compromettere la dispersione dei semi di alcune piante, la capacità di stoccaggio dell’anidride carbonica della foresta e il numero di predatori di media taglia, se tutto questo si verificherà quali saranno le conseguenze complessive?

Non lo sappiamo.

Ma sappiamo che la defaunazione erode la tenuta biologica ed ecologica di questi ecosistemi, fino al punto di non ritorno. Potremmo quindi fronteggiare, già in questo secolo, le conseguenze combinate, sistemiche e interdipendenti, di diversi fattori: la defaunazione e le conseguenti estinzioni, il cambiamento di schemi climatici consolidati e quindi un rischio maggiore di imbattersi in zoonosi.

La storia delle epidemie zoonotiche più note degli ultimi 20 anni conferma questa diagnosi: i virus sono integrati negli ecosistemi e se togli qualcosa (specie animali, lembi di foresta abbattuti per piantagioni di cash crop come soia, olio di palma, caffè, cacao), o aumenti qualcosa (il numero esponenziale di umani in circolazione), anche i virus rispondono. 

Anche se noi Sapiens tendiamo a correre ai ripari solo a disastro avvenuto, la prevenzione delle future pandemie è diventato un discorso comune, avvertito come una priorità. Qualcuno ha proposto di spendere milioni di dollari per catalogare tutti i virus potenzialmente letali presenti in specie selvatiche (si calcola ce ne sia 1 milione e 600mila ancora ignoti alla scienza), come ha documentato Yale360, il blog della Università di Yale.

Ma non tutti sono d’accordo. Uno studio di grande interesse (cioè ricco di interrogativi ad ampio potenziale) uscito su OPEN BIOLOGY nel settembre 2017, sostiene che “gli sforzi per predire l’emergenza di malattie combinano scale evolutive ed epidemiologiche fondamentalmente differenti”.

Infatti “sappiamo molto sugli schemi e i processi di evoluzione dei virus su scale temporali evolutive così come sono descritte negli alberi filogenetici che descrivono le famiglie di virus, ma questi dati hanno poco potere predittivo per rivelarci i processi micro-evolutivi a breve termine che sono alla base della trasmissione tra specie e della emergenza della malattia”.

In parole più semplici, bisogna capire che cosa succede ad un virus nel breve spazio temporale in cui entra in contatto con un possibile nuovo ospite, giocandosi la sua chance di trovare una nuova casa (come accaduto ad ebola), e quali fattori, nelle caratteristiche di questo ospite e del suo ambiente, possono spianargli la strada permettendogli di stabilirsi con successo (come non è avvenuto con l’influenza aviaria H5N1).

Quello che in definitiva c’è da capire bene per avanzare previsioni sensate, più che avere una lista dei nomi e dei cognomi dei nostri nemici, è, secondo gli autori, la dinamica di interazione tra specie diverse, nel momento fatale in cui si incontrano per la prima volta. Conoscere il livello di biodiversità dei virus ci aiuta poco, mentre sarebbe molto utile approfondire la “fittness evolutiva” dei migliori di loro a contatto con l’uomo. 

In un altro intervento su NATURE alcuni degli autori hanno ribadito la loro posizione, che contiene un consapevolmente alto margine di incertezza per il semplice motivo che non sappiamo ancora un mucchio di cose sui virus: “determinare chi tra più di 1 milione e 600mila virus animali è capace di replicarsi dentro gli esseri umani e di trasmettersi tra loro richiederebbe decenni di lavoro di laboratorio, per coltivare le cellule in vitro e poi negli animali.

Anche nel caso che i ricercatori riuscissero a collegare ogni sequenza di genoma virale a dati sperimentali concreti, ci sono poi ogni sorta di altri fattori che decidono se un virus fa il salto di specie emergendo in una popolazione umana, come ad esempio la distribuzione e la densità degli ospiti. I virus dell’influenza sono circolati nei cavalli sin dagli Cinquanta e nei cani dai primi anni Duemila.

Non sono mai comparsi nelle popolazioni umane, e forse non lo faranno mai, per ragioni sconosciute”. Il fattore-chiave della densità di popolazione dei possibili ospiti riporta il ragionamento sul fronte ecologico: “Allo stato delle cose, il modo più efficace e realistico per combattere l’esplosione di epidemie è monitorare le popolazioni umane nei paesi e nelle località più vulnerabili alle infezioni”. 

Questo ci riporta alla domanda iniziale. Che cosa ci sconvolge tanto nel comportamento del SarsCov2, che non sapevamo in anticipo? Che non avremmo potuto accettare come probabile un bel po’ di tempo fa?

La risposta sta probabilmente nella facilità con cui abbiamo scelto di ignorare chi siamo. La nostra espansione sul Pianeta ci ha posti in una condizione ecologica inedita: con il nostro successo evolutivo siamo entrati in conflitto con i meccanismi ecologici, genetici e biologici fondamentali del Pianeta.

Questo significa trovarsi ormai in una condizione di “disfunzione ecologica permanente”, che espone a rischi originali e sensazionali, ma non imprevedibili. I patogeni emergenti hanno convissuto per migliaia di anni con i loro ospiti abituali, e sono vivi e vegeti da milioni di anni. Pericolosi per noi, ma solo in relazione al tipo di civiltà che abbiamo edificato con convinzione ed orgoglio.

Il modo disfunzionale con cui ci serviamo delle risorse naturali è permanente, non occasionale o temporaneo. É un punto di rottura storico, che ha ormai definito condizioni ecologiche tossiche o alterate destinate a rafforzarsi se non ad ampliarsi nei prossimi decenni. Per questo è molto azzardato sostenere che usciremo dalla crisi innescata dal SarsCov2, mentre in realtà potremo soltanto attraversare differenti fasi di difficoltà di gestione di una ben più generale crisi biologica, globale e pervasiva. 

Photo Credit: foto di CDC da Pexels

La pandemia è l’ora del bilancio con noi stessi

La prima è questa. Esistono in natura, quindi per precise ragioni ecologiche, dei “luoghi caldi”, di solito corrispondenti alle regioni a più alto tasso di biodiversità, che sono, proprio perché ricche di specie animali, serbatoi di virus forse fatali per noi. La nostra specie assomiglia a una macchia che si espande senza sosta sul Pianeta, in tutte le direzioni, raggiungendo sempre più velocemente questi posti e di conseguenza aumentando con sempre maggiore frequenza la possibilità di incontri pericolosi.

C’è un indice epidemiologico che tutti conosciamo. Presto o tardi nella vita chiunque di noi lo incontra. Il bisogno di venire a patti con le nostre azioni, il nostro passato, la nostra impotenza. Constatare, punto e chiuso, che non siamo in grado di risolvere le nostre contraddizioni con la perfezione di una equazione matematica. Ecco che cosa sta accadendo, con il Covid. La pandemia è l’ora del bilancio con noi stessi.

Il fallimento di un training psicologico ispirato al più rigoroso positivismo è uno degli aspetti più ingombranti dell’immagine che Homo sapiens ha di se stesso. Di solito se ne occupano gli scrittori. Ormai è materiale buono anche per gli ecologi. Da due mesi questo sgradevole sentimento di impotenza è diventato una carie che corrode lo smalto nel dente compromesso delle nostre certezze, giorno dopo giorno. 

Dinanzi a fatti come quelli di cui facciamo esperienza da fine febbraio, e su scala globale, si danno solo due alternative: o ti concentri esclusivamente sui tuoi affari, i tuoi affetti, insomma i due chilometri quadrati secchi e striminziti della tua esistenza piccolo-borghese, e allora ti basta la speranza, l’illusione del ritorno del sorriso, dello smorzamento delle misure di quarantena collettiva, il culto amorfo e inconcludente della presunta normalità (415 ppm di CO2 in atmosfera contro le 290 ppm di inizio Ottocento).

O ti guardi dentro, scavi nelle cause neanche troppo remote, ahimè, del disastro e allora sprofondi nella depressione, perché il Pianeta e la sua specie dominante, noi, non siamo sotto nessun rispetto ciò che ti sei sempre augurato, oppure, invece, trovi la forza morale per riflettere su quale etica della scelta è utile al principio del terzo decennio del XXI secolo. 

Qualche giorno fa Jaqueline Rose ha scritto sulla LONDON REVIEW OF BOOKS un vasto essay (Pointing the finger, puntare il dito) su La Peste, il celebre romanzo di Albert Camus. Lo ha fatto perché da quando, alla fine di gennaio, il virus è piombato sull’Europa occidentale le vendite di questo libro pubblicato nel 1947 sono cresciute in modo esponenziale.

Rose ricorda che Camus stesso, in un taccuino di appunti preparatori del 1938, scrisse che la gente protagonista della sua storia “mancava di immaginazione. Non pensavano affatto alla scala reale della epidemia. E i rimedi che progettavano erano scarsamente adeguati anche ad un semplice raffreddore”. 

Niente di più attuale (il che, forse, spiega le statistiche di vendita del libro in formato tascabile). Qui in Italia, una marea sterminata di talk show televisivi a commento e analisi della epidemia ha omesso sistematicamente di allertare l’opinione pubblica sulla gravità di questa condizione.

Eppure, non ci lasceremo il peggio alle spalle quando sarà pronto un vaccino.

Il virus di Wuhan è solo il primo segnale di un collasso sistemico i cui sintomi, forse per la prima volta negli ultimi 30 anni, considerato il gradiente di dolore della parte ricca del Pianeta (noi), sono finalmente visibili anche là dove c’è stato fino ad ora solo ignoranza, ignavia e shopping. Nel romanzo di Camus la gente comincia a capire che qualcosa non funziona solo quando i morti si contano anche tra gli esseri umani. Fin tanto che a morire erano i topi, calma piatta.

Nascosti dietro le tende dei loro ordinati appartamenti, gli umani non riuscivano a riconoscere se stessi nei cadaveri dei topi. Per questo erano paralizzati nel diagnosticare la malattia. Infliggersi un blackout di coscienza (scegliere di non capirci nulla e rifiutare di capirci qualcosa) non è utile solo ad evitare di trovare il propio nome e cognome là dove sarebbe spiacevole vederlo scritto nero su bianco.

E’ molto utile anche a scansare quella forma di impotente depressione che sale dallo stomaco, fino a serrare la gola, quando realizzi che le tue aspettative sul mondo sono utopiche, irreali e forse oniriche. Quindi solo tue, narcisistiche e fonte di un disagio sconfinato. 

Anche sul sito dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, l’istituto di ricerca indipendente che nel maggio 2019 ha pubblicato il Global Assessment sulla biodiversità del Pianeta) è apparso qualche giorno fa un garbato invito a riconoscere noi stessi in questo presente: “c’è una singola specie che è responsabile per la pandemia da Covid-19: NOI.

Come per il clima e la crisi di biodiversità, la recente pandemia è una conseguenza diretta dell’attività umana, soprattutto del nostro sistema economico-finanziario globale, fondato su un paradigma riduzionista che premia la crescita economica a qualunque costo. Abbiamo ormai un ristretto ventaglio di opportunità per superare le sfide poste da questa crisi e per evitare di seminarne in futuro i semi”.

“La deforestazione rampante, l’espansione incontrollata dell’agricoltura, l’allevamento intensivo, le miniere e lo sviluppo delle infrastrutture, così come lo sfruttamento delle specie selvatiche hanno creato una tempesta perfetta per il passaggio di malattie dagli animali selvatici alle persone (…) E a questo va aggiunto il commercio non regolato di animali selvatici e la crescita esplosiva dei viaggi aerei su scala globale.

È chiaro, allora, come un virus che un tempo circolava senza danni tra una specie di pipistrelli del sud est dell’Asia abbia ora infettato quasi 3 milioni di persone. Eppure, questo potrebbe essere solo l’inizio. Benché le malattie da animale a uomo causino già una stima di 700mila morti all’anno, il potenziale per le future pandemie è vasto.

Si ritiene infatti che esistano ancora nei mammiferi e negli uccelli acquatici 1.7 milioni di virus non identificati del tipo conosciuto per poter poter infettare gli esseri umani. Uno qualunque di questi potrebbe essere la prossima ‘malattia X’, potenzialmente ancora più distruttiva e letale del Covid-19”. 

Firmano questa nota Josef Settele, Sandra Diaz e Eduardo Brondizio, tutti Co-chairs del Global Assessment del 2019, e Peter Daszak, Presidente  della EcoHealth Alliance ed esperto di settore per il nuovo studio IPBES ( il Nexus Assessment) sul legame tra biodiversità, salute e cibo.  

Due considerazioni sono, allora, fondamentali.

La prima è questa. Esistono in natura, quindi per precise ragioni ecologiche, dei “luoghi caldi”, di solito corrispondenti alle regioni a più alto tasso di biodiversità, che sono, proprio perché ricche di specie animali, serbatoi di virus forse fatali per noi. La nostra specie assomiglia a una macchia che si espande senza sosta sul Pianeta, in tutte le direzioni, raggiungendo sempre più velocemente questi posti e di conseguenza aumentando con sempre maggiore frequenza la possibilità di incontri pericolosi.

Anche questa condizione appartiene allo stato naturale delle cose, da un duplice punto di vista. Prima di tutto perché anche noi siamo parte della biodiversità della Terra. Ma, come ogni altra specie, anche noi siamo un “laboratorio permanente” dal punto di vista evolutivo e questo significa che la nostra specie risponde ancora oggi alle sollecitazioni ambientali (una risposta fisiologica e immunitaria, cioè sviluppando la malattia) venendo a contatto con specie (virus e batteri) che non avevamo mai incontrato prima.

Il cantiere ecologico ed evolutivo che è la biosfera ci riserva delle sorprese, che entrano in conflitto con i nostri tratti culturali più spinti (costruire economie articolate, rapaci e globali). Da un punto di vista strettamente biologico, lo spillover fa parte del gioco. 

La seconda considerazione è questa.

La popolazione mondiale cresce di più di 80 milioni di persone ogni anno. Dal 1945 si sono aggiunti al totale un miliardo di persone ogni 12- 15 anni. Siamo più che raddoppiati dal 1970. La macchia si estende ad una velocità contraria ad ogni principio di precauzione, ma soprattutto a discapito di se stessa.

La psicologia ci insegna che, purtroppo, il suicidio è un atto perfettamente programmato e cosciente, consapevole, che non esclude affatto la più crudele razionalità. Conoscere se stessi può non essere la terapia risolutiva, ma sapersi capaci di cose anche molto brutte aiuta a ritrovare la strada del principio di realtà. 

SE SEI ARRIVATO FIN QUI – Se vuoi approfondire il tema della pandemia, del commercio legale e illegale di specie selvatiche è uscito su Amazon il mio ebook WILDLIFE ECONOMY – Africa, Asia e Sud America: dove e perché mangiamo specie in via di estinzione. 

La pandemia peggiorerà l’insicurezza alimentare

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La pandemia peggiorerà l’insicurezza alimentare. Su tutto il Pianeta, ma soprattuto là dove le diseguaglianze sono già enormi. Il Global Report on Food Crisis 2020 della FAO fornisce dati preoccupanti in tal senso, proprio perché raccolti prima del Covid-19: 135 milioni di persone in 55 Paesi si trovano in condizioni di grave insicurezza alimentare e di queste 73 vivono in Africa.

Proprio nel continente africano il Covid potrebbe dimostrarsi la peggiore delle tempeste perfette.

Va peggio del 2018 a causa di crisi concomitanti, non solo militari ( DRC e Sud Sudan), ma anche climatiche: ad esempio le siccità in Pakistan, Zimbabwe e Haiti. Altri 183 milioni in 47 Paesi sono ad un passo dallo scivolare anch’essi nella miseria alimentare. Tra i peggio messi ci sono anche il Venezuela e il nord della Nigeria: è un disastro globale. 

È importante sottolineare che lo stress alimentare calcolato da questo Rapporto FAO prende in considerazione due parametri:  l’apporto calorico e la varietà della dieta. In altre parole: non si può vivere sani o crescere mangiando solo miglio, riso e manioca. 

Più della metà dei 77 milioni di persone che patiscono la peggiore insicurezza alimentare in Medio Oriente e in Asia vive in Paesi in cui ci sono conflitti armati di vario genere; poi ci sono le crisi regionali, anche queste militari, del bacino del Lago Chad e delle nazioni del Sahel.

L’intera fascia centrale sub-sahariana del continente, dal Cameroon al Burkina fino alla Repubblica Centro Africana (CAR) vive in uno stato cronico di stress alimentare. Anche in America Latina e nei Caraibi l’instabilità civile e politica, unita ai cambiamenti nei pattern climatici, sta creando le peggiori condizioni per l’instaurarsi di una fragilità alimentare conclamata. 

È  molto probabile nei prossimi mesi un peggioramento della insicurezza alimentare e della carestia per decine di milioni di persone: “se è vero che il Covid-19 non fa discriminazioni, i 55 Paesi e i loro territori che ospitano questi 135 milioni di persone in acuta insicurezza alimentare con urgente bisogno di aiuto umanitario, cibo e assistenza alla nutrizione sono i più vulnerabili alle conseguenze di questa pandemia, perché hanno una limitata o inesistente capacità di fronteggiare gli aspetti sanitari, di salute e socio-economici dello shock. Queste nazioni potrebbero trovarsi di fronte al dilemma di decidere se salvare vite o mezzi di sostentamento o, nel peggiore degli scenari, se salvare persone dal virus o farle morire di fame”. 

Come ha detto al magazine americano VOX Sean Granville-Ross, economista keniota esperto in agricoltura e organizzazioni umanitarie, “una crisi massiccia legata al corona virus potrebbe diventare rapidamente, in egual misura, una crisi di sicurezza alimentare. Sappiamo infatti che milioni di persone in Africa vivono già sul filo di lana della povertà o appena sotto. Basta un piccolo shock o una crisi a spingerli ben sotto quella linea”.

Un possibile collasso potrebbe subirlo naturalmente anche l’economia informale delle metropoli urbane e cioè tutte quelle attività di vendita al dettaglio, in strada, di servizi a richiesta che non sono inquadrati nell’economia ufficiale, ma che sostengono il reddito di decine di milioni di persone indigenti. Altre incognite riguardano i prezzi dei generi alimentari in importazione ed esportazione. La Repubblica Democratica del Congo, il Sudan, la Siria e lo Yemen, ad esempio, dipendono fortemente dalle importazioni, ma hanno una moneta debole ed enormi problemi interni di instabilità sociale, guerriglia e campi profughi. I prezzi del cibo sui mercati internazionali potrebbero salire a totale detrimento dei milioni di poveri già in estrema difficoltà. 

C’è poi il cambiamento climatico. Lo Zimbabwe è un caso emblematico.

Secondo la FAO, qui solo in 2 stagioni di semina e raccolta sulle ultime 5 le piogge sono state normali. Nel 2019 il Paese ha attraversato la peggiore siccità degli ultimi decenni, con temperature che in alcune regioni sono arrivate a 50 gradi Celsius.

Il ciclone Idai del marzo 2019 ha coinvolto 270mila persone nei distretti orientali e meridionali, aggiungendo devastazione ad un Paese con una inflazione devastante e una crisi politica mai risolta neppure con la morte del suo storico dittatore, Robert Mugabe. La produzione di mais del 2018/2019 è stata del 40% più bassa della media degli ultimi cinque anni. Queste condizioni si traducono nella percentuale di bambini tra i 6 e i 23 mesi che sono adeguatamente nutriti: solo l’11%. 

La conclusione del Rapporto FAO è questa: “la pandemia può rivelarsi devastante per la vita e sicurezza alimentare, specialmente in contesti di fragilità e in modo particolare per la maggior parte delle persone vulnerabili che lavorano nella agricoltura informale e dei settori agricoli. Una recessione globale, poi, distruggerà le reti di rifornimento del cibo”.

E infine ci sono le locuste.

In Africa orientale, anche dove le piogge sono state abbondanti per i campi, lontano quindi da terrificanti siccità, le alluvioni anomale, hanno generato una invasione di locuste di proporzioni bibliche. 

“Benché operazioni di controllo terrestre ed aereo siano in progress, le piogge diffuse che sono cadute alla fine di Marzo permetteranno a nuovi sciami di persistere in condizioni di umidità, di maturare e di deporre le uova, mentre nuovi sciami potrebbero quindi muovere dal Kenya all’Uganda, al Sud Sudan e in Etiopia. Durante maggio le uova si schiuderanno in nuovi sciami, pronti entro la fine di giugno e luglio, in concomitanza con l’inizio dei raccolti”, avverte il LOCUST WATCH della FAO. 

In Kenya, da qui a luglio si teme che siano colpite almeno 985mila persone. In Etiopia, stormi di locuste si stanno disperdendo verso nord, nelle regioni di Oromio e in direzione della Somalia. Il 17 aprile uno stormo è stato avvistato a Katakwi, in Uganda. Possibili sciami potrebbero abbattersi nei prossimi due mesi anche sulla Penisola Arabica e sull’Oman. 

Come ha scritto David Quammen nel suo best seller Spillover, se c’è una lezione che le zoonosi impartiscono con chirurgica precisione è che tutto ha una origine. Direi che ce ne è anche un’altra, forse ancora più misconosciuta: nulla avviene a bocce ferme. Vale a dire che nessuna crisi esplode nel migliore dei mondi possibili e che noi abbiamo fatto di tutto per far accadere questa nel peggiore dei contesti sociali ed ecologici.

Con un cambiamento climatico sostanzialmente fuori controllo e una inerzia politica totale nei confronti della catastrofe ecologica, era scontato che un evento stocastico con una potenzialità di amplificazione planetaria ci avrebbe trovati del tutto impreparati ed esposti. Ed è questo che si presenta davanti a noi negli scenari alimentari globali: un inasprimento di condizioni insostenibili da decenni. 

La normalità pre Covid non era normale

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La normalità pre Covid non era normale. Capirlo non è solo un buon principio contro il conformismo patologico. L’Italia prima dell’8 marzo (data del primo Decreto di chiusura del Paese) non era un Paese normale, perché le nostre vite non erano normali, e normale non era neppure lo stato della civiltà umana in questo XXI secolo. Ecco, un mese fa la nostra vita normale era inceppata in una disfunzione letale.

Non c’è nessuna normalità in un Pianeta in cui oggi, 10 aprile, 3 miliardi di persone non hanno l’acqua per lavarsi le mani e proteggersi dall’infezione; e di queste, 1 miliardo vive in slum e baraccopoli. 

Non c’è nessuna normalità rassicurante, salutista e benefica in una condizione economica che sopravvive distruggendo il sistema climatico terrestre a forza di bruciare combustibili fossili, e disegnando così il collasso improvviso della biodiversità marina e tropicale entro il 2030, come ha rivelato uno studio appena pubblicato su NATURE.

“Man mano che il cambiamento climatico antropogenico continuerà, il rischio per la biodiversità aumenterà nel tempo: le proiezioni sul futuro indicano che una perdita catastrofica di specie è all’orizzonte. Noi abbiamo usato le proiezioni annuali delle temperature e delle precipitazioni ( dal 1850 al 2100) sullo home range di 30mila specie marine e terrestri per stimare la durata della loro esposizione a condizioni climatiche potenzialmente pericolose”.

Secondo gli autori, il collasso delle specie sarà visibile soltanto quando sarà anche irreversibile: “la futura distruzione degli assemblage ecologici come risultato del cambiamento climatico avverrà improvvisamente, perché all’interno di ogni singolo assemblage l’esposizione di moltissime specie a condizioni climatiche che oltrepassano i limiti specifichi del loro adattamento consolidato di nicchia avverrà quasi simultaneamente.

In uno scenario di alte emissioni, eventi di esposizione così improvvisa (abrupt exposure events) si verificheranno prima del 2030 negli oceani tropicali per poi espandersi nelle foreste tropicali e alle altitudini più elevate entro il 2050”.

Gli eventi improvvisi di esposizione a temperature troppo elevate per adattamenti che hanno richiesto migliaia di anni di evoluzione per stabilizzarsi sono la risposta scientifica al negazionismo biologico di quanti sostengono che la sesta estinzione sia una fola, soltanto perché moltissime specie in declino sono ancora tra noi. Non tutto ciò che è visibile oggi segue un andamento normale.

Per Platone, ciò che i sensi catturavano direttamente era ingannevole. Platone definiva doxa, opinione comune, la convinzione degli ignoranti e degli sprovveduti che riversavano massima fiducia nei dati percettivi, concreti.

Nel XVIII secolo, Emmanuel Kant, prendendo posizione sulla scia dell’Illuminismo, invocò il risveglio della ragione comprendendo che i pregiudizi intellettuali falsificano la realtà soprattutto quando suppongono di riuscire a cogliere lo stato delle cose, senza però tenere in considerazione le categorie astratte con cui il pensiero interpreta il dato sensibile. 

In una condizione psichica “normale”, ci si accorge per tempo del disastro incombente e si cerca di porvi rimedio. Le menti sveglie al reale sono pronte ad accettare la sfida del cambiamento, rapide nell’intuizione, abili nel cogliere i dettagli indicativi di un sistema entrato in crisi.

Ma la tanto acclamata normalità pre Covid poggiava piuttosto su ciò che io chiamo un “bipolarismo post biologico”, e cioè la tendenza, tipica della società di massa delle nazioni più ricche, a dividere l’esperienza delle cose in due categorie polarizzate: piacere e fastidio.

Tutto è misurato, e cioè normalizzato e normato, sulla scarica immediata di piacere o di fastidio che induce. Qualunque cenno di coinvolgimento oltre la soglia critica della gratificazione viene immediatamente derubricato come scocciatura, residuo medievale pre elettricità e motore a scoppio, sfiga terzomondista.

É questo meccanismo reattivo di tipo infantile che sta dietro comportamenti di consumo come l’acquisto compulsivo di cibo spazzatura, di creme spalmabili all’olio di palma, di food delivery, di uso spasmodico e compulsivo del volo aereo.

Ed è per questo che siamo arrivati al confine storico dell’8 marzo senza sapere che avremmo dovuto sapere che avrebbe potuto succedere. Anche a noi. In qualunque momento. 

Ci eravamo già fatti tutto il male possibile prima dell’8 marzo.

Lo ha spiegato benissimo Frank Snowden, storico delle epidemia alla Università di Yale, negli Stati Uniti, al MANIFESTO:“questa è la prima grande epidemia della globalizzazione. E credo che tutte le società creino le proprie vulnerabilità (…) Il tifo, e il colera asiatico, direi, sono malattie sintonizzate sulle condizioni di industrializzazione e rappresentano, in questo senso, uno degli specchi della globalizzazione.

Con il coronavirus, ci sono almeno tre dimensioni che mostrano come il Covid-19 sia lo specchio di ciò che siamo come civiltà. La prima è che stiamo diventando quasi 8 miliardi di persone in tutto il mondo. Poi abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica e uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca.

Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare. Quindi c’è un problema. Inoltre, questo trasforma il nostro rapporto con l’ambiente e in particolare con il mondo animale. Abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e distruggiamo l’habitat degli animali – questa è l’era dello sradicamento e dell’estinzione delle specie”.

Se intendi far fuori la biodiversità del Pianeta supponendo di salvarti la pelle, non sei normale. Sei un cretino che, pensando di esercitare il suo sacrosanto diritto alla libertà, perché nessuno oserebbe pensarsi moderno senza definirsi orgogliosamente libero, anni luce dal modello esistenziale della piantagione di cotone in Virginia, nega la sua origine paleo-evolutiva.

Siamo una specie e subiamo il destino di tutte le altre specie. Ma siamo anche una specie dotata di pensiero simbolico. Il che significa, anche, saper costruire scenari possibili, disegnati sulla consequenzialità causa-effetto. Annientare la biodiversità del Pianeta equivale quindi ad un debacle del pensiero.

La normalità, allora, non è aderire in modo asintomatico, senza critiche, alle istruzioni d’uso fornite dal sistema economico dominante,. Chi è normale sa prendersi le sue responsabilità: “se accettiamo il fatto che siamo noi stessi i responsabili, ci guardiamo allo specchio e riconosciamo che siamo stati noi stessi a creare quei percorsi, quelle vulnerabilità, e a costruirle nelle nostre società, significa anche che sempre noi stessi possiamo cambiarle e possiamo alterare quel rapporto con il regno animale. Possiamo fare qualcosa al riguardo e questo proteggerà il pianeta e anche la nostra salute”, conclude Snowden. 

Quella che continuiamo a definire “normalità” è una clamorosa dismissione di responsabilità.

In questa norma normativa dello scarica responsabilità dovremmo non solo dirci colpevoli del nostro shopping su Amazon, ma anche riconoscere che il nostro stile di vita tranquillo, quotidiano, non regge dal punto di vista biologico. È artificiale, oltre che iniquo.

“Ad ogni corpo che tocca e fa ammalare, il virus reclama che tracciamo la linea di continuità tra la sua origine e la qualità di un modo di vita incompatibile con la vita stessa. In questo senso, per paradossale che sembri, affrontiamo un patogeno dolorosamente virtuoso”ha scritto lo sceneggiatore e intellettuale Angel Luis Lara.

“La sua mobilità aerea sta mettendo allo scoperto tutte le violenze strutturali e le catastrofi quotidiane là dove si producono, ossia ovunque. Nell’immaginario collettivo comincia a diffondersi una razionalità di ordine bellico: siamo in guerra contro un coronavirus.

Eppure, sarebbe forse più esatto pensare che è una formazione sociale catastrofica quella che è in guerra contro di noi già da molto tempo. (…) Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo (…) Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me. Chissà che il desiderio di vivere non ci renda capaci della creatività e della determinazione per costruire collettivamente l’esorcismo di cui abbiamo bisogno. Questo, inevitabilmente, tocca a noi persone comuni”

Eh già. Ragionamento e responsabilità sono due qualità umane che, nella società di massa, sembrano essersi volatilizzate così come è andata estinta la povertà. Quella vera. In questi giorni è di nuovo circolato in rete un saggio magnifico e illuminante scritto da Goffredo Parise nel 1974 (appunto). Titolo: Il rimedio è la povertà.

L’intelligenza viene dalla capacità di giudizio, come gli avrebbe ricordato Kant, ma saper capire cosa hai davanti vuol dire, molto semplicemente, saper distinguere tra ciò che ha un valore e la paccottiglia fotti-Pianeta che prolifera ovunque, nel regno delle cose e dello spirito: “Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua.

Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione”.

Questa è la patologia pregressa che ha reso milioni di persone vulnerabili ad una zoonosi sconosciuta: “Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del linguaggio televisivi”. 

Ed è per questo, come ha detto giustamente Massimo Cacciari a Otto&Mezzo, che l’uscita dall’abisso dell’infezione sarà durissima per gli italiani. Perché non siamo più avvezzi ai sacrifici, a tenere duro in vista di obiettivi vitali e non per soddisfare capricci. Soltanto qui si incista la causa della assenza disarmante e ormai ridicola di ogni politica ambientale seria: nessuno ha mai voluto parlar di sacrifici all’opinione pubblica. E adesso siamo qui.

Ma qui, silenziosi, ci sono anche tutti coloro che le conseguenze economiche, sociali, emotive del sistema normale normalizzante le pativano già da anni. Simone Perotti ha dichiarato qualche giorno fa su Facebook: “Occorre avere il coraggio di dire una cosa, senza ipocrisie o false pose: stiamo bene. In queste settimane mi ha scritto una marea di gente dicendomi: Sto bene. Gente che non conosco, lettori.

Dunque non parenti per rassicurarmi, ma sconosciuti, dichiarandosi. E al tempo stesso, tutti aggiungono: speriamo che non tornino tutti a fare la vita di prima (…)  Non c’è niente da fare, siamo stati educati tutti alla Comunità (cattolicesimo), alla Classe (marxismo). L’individuo è relegato in uno spazio che non conta niente.

Un individuo vale niente, per tutti noi, e se qualcosa cambierà sarà solo perché la classe di appartenenza, o la comunità tutta, la politica… cambieranno. In questi giorni io rispondo a tutti: Pensa a cambiare tu. Tu sei la particella del mondo. Un individuo fa la comunità, incide su di essa. Non il contrario. Ma se per una vita ti hanno detto che non conti niente, è difficile alzarsi e pensare di essere Spartacus”. 

È normale trovare la propria norma, e starci dentro senza doversi sentire dei falliti sociali, dei reietti, degli eccentrici additati come anarchici ed ecologisti violenti.

È normale adattarsi a se stessi, ai propri bisogni, a ciò che Marina Cvetaeva chiamava “il mio non voglio che è il mio non posso”, e cioè la più autentica voce interiore, il coro di qualità e virtù che non sempre, non necessariamente è in accordo con le pretese della società dei consumi e della produzione votata all’estinzione di milioni di specie. 

Per questo la normalità che dovremmo rimpiangere è la vita biologica. La vita di cellule, tessuti organici, geni, ciclo di Krebs, ossigeno scambiato nei polmoni, cibo sano digerito nello stomaco, melanina prodotta nell’epidermide perché è primavera e il sole è forte, caldo, giallo e limpido. 

Il dolore della biosfera è ora anche il nostro

Il discorso del Papa del 28 novembre, in una San Pietro deserta e silenziosa, sembra evocare lo spettro del collasso ecologico. La sera citata dal passaggio del Vangelo di Marco è la tenebra che avvolge il nostro Occidente, incapace di pensarsi al di là dei limiti della sua metafisica essenziale.

Lo scorso 28 marzo, in una San Pietro deserta e scurita dalla pioggia, Papa Francesco ha cominciato la sua omelia a conforto dei fedeli con una citazione dal Vangelo di Marco: “venuta la sera”. Il discorso del Papa assomigliava ad una impressionante metafora non solo di queste settimane, ma dell’intera condizione del Pianeta.  Potremmo anche dirla così: il dolore della biosfera è ora anche il nostro.

“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi.

Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa”, ha detto Francesco.

Eppure, ascoltando e osservando la sua preghiera da un punto di vista laico ed ateo, non poteva sfuggire che il Papa era uscito a pregare quando già le tenebre erano già alle porte, di Roma e del Pianeta. Era già buio, al momento della invocazione dell’aiuto celeste.

La tempesta non era affatto inaspettata. E benché le parole successive di Francesco (un Papa che poco di dirompente ha detto sul Pianeta, ma che molto di sensato e di giusto ha invece denunciato sulla miseria e la povertà) siano una analisi adeguata alla crisi di pensiero che sta dietro la pandemia, non è in questa indignazione che bisogna trovare una interpretazione adeguata del 28 marzo in Roma.

“Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta (…) non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.

È un discorso che risuona di un disagio medievale, cioè dell’angosciosa domanda rivolta a un Dio creatore da parte di uomini inermi, impotenti, innocenti dinanzi alla propria mortalità, al flagello delle epidemie, dei raccolti andati perduti, degli espropri di tiranni e potentati.

Molta dell’opinione pubblica italiana si aggrappa a questo sentimento di sconcertata incomprensione, di sbigottimento amaro, per non accettare, invece, una esperienza della malattia più matura, ma ben più complessa. Piazza San Pietro spogliata di uomini e donne, enorme e scura, come forse il Bernini la vide nella sua immaginazione autarchica e geniale, opera d’ingegno assoluta, astratta dalla Storia e dal dolore dei tempi, si è infatti presentata a noi come una landa desertificata. 

Da qui la percezione di un silenzio fuori posto, maligno, metafisico. Non siamo abituati a valutare il silenzio, a misurarlo, tanto meno ad ascoltarlo. A fuggirlo, sì. Anche a maledirlo, come fosse un sintomo, appunto, di patologia.

Le città svuotate ci incutono un terrore medievale ( proliferano in rete i riferimenti alla crisi del Trecento). Ma c’è anche di più di una imprecisata superstizione.

Come scrisse Jacques Le Goff a proposito del passaggio dal X all’XI secolo, e quindi alle spinte sociali ed economiche che condussero alla Crociata, gli Occidentali  erano “incapaci di trovare nel proprio paese il senso di un destino collettivo e individuale”.

Siamo nelle stesse condizioni.

Il calare della sera sulle nostre vite è una immagine ricorrente nel pensiero filosofico italiano ed occidentale. Siamo alla fine di un mondo, e non certo per via dei flussi migratori, o dell’Islam.

Siamo al capolinea della concezione del mondo che è a fondamento della nostra cultura economica e sociale, una idea degli uomini e della loro missione le cui origini sprofondano nel passato remoto ellenico, ma che comincia a prendere forme davvero moderne 500 anni fa con l’impresa atlantica di Colombo. 

Heidegger e il nostro Gianni Vattimo chiamavano tutto questo “metafisica”. La metafisica è un modo di concepire l’ente, e quindi il Pianeta attorno a noi. Nei secoli di formazione del capitalismo moderno (dal Cinquecento al Novecento) la metafisica ci ha spinti a interpretare il mondo come oggetto disponibile alla trasformazione economica ed industriale.

“Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale”, scrisse Emanuele Severino.

“Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?”. 

La sera è scesa perché era inevitabile, giunti a questo punto. San Pietro era vuota perché per noi è l’ora del tramonto.

Il nostro Occidente è la “terra della sera”, come ha ricordato Umberto Galimberti nel 2005: “Che cosa propriamente finisce? Finisce lo sfondo umanistico che ha costituito il tratto specifico della cultura occidentale e, nonostante i progressi della scienza, finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.

E sulle ceneri della categoria del senso, che dell’Occidente è sempre stata l’idea guida, si affacciano le figure del nichilismo, le quali, nel proiettare le loro ombre sulla terra della sera, indicano, a ben guardare, la direzione del tramonto. Un tramonto già inscritto nell’alba di quel giorno in cui l’Occidente ha preso a interpretare se stesso come cultura del dominio dell’uomo sulle cose”. 

Ecco, allora, che la principale piazza della Cristianità messa a nudo acquista tutto un altro significato. Qui non ci sono invocazioni salvifiche, preghiere e teodicee cui fare appello: qui c’è l’effetto, finalmente visibile, dell’annichilamento biologico che abbiamo imposto al Pianeta.

Questo silenzio lo portiamo dentro di noi. Lo abbiamo scelto e voluto, depredando le foreste e macellandone gli abitanti, e adesso che ci fa male, adesso che fa rumore, ce ne accorgiamo come degli ipocriti troppo presi da sé stessi che continuano a non riconoscere la propria meschinità.

Questo silenzio è il nostro deserto. Il dolore della biosfera è ora anche il nostro.

Questa non è una pandemia, è una crisi biologica

Questa non è una pandemia. E' una crisi biologica. Abbiamo solo cominciato a sperimentare cos significa il dissesto ecologico del Pianeta.

Questa non è una emergenza sanitaria. Questa non è una pandemia. Questa è una crisi biologica. Ci siamo dentro da parecchio tempo, ma c’è voluto un filamento di RNA perché fosse alla luce del sole. Biologico va inteso qui nel suo senso più ampio: un punto di rottura che riguarda per intero la vita organica su questo Pianeta e quindi, forse per la prima volta in questa dimensione, uomini e faune insieme.

L’epidemia potrebbe rivelarsi fatale per alcune specie che sono già ad un passo dall’estinzione. Ma potrebbe anche innescare effetti domino nella protezione delle faune e delle aree protette, interrompendo i finanziamenti e tagliando i proventi dell’eco-turismo.  

Soltanto due giorni fa il Sudafrica ha chiuso tutti i parchi nazionali, procedendo alla evacuazione di tutti gli stranieri in safari. La decisione ha un doppio scopo profilattico, di protezione, in altri termini, di persone e animali, visto che, ad oggi, nessuno sa se il SARS- CoV-2 potrebbe essere una minaccia grave anche per altre specie selvatiche. Il Gabon, che ha un patrimonio biologico inestimabile in Africa tropicale, aveva preso una decisione analoga il 14 marzo.

C’è una grande preoccupazione soprattutto per i primati: “il comune virus dell’influenza può infettare i gorilla e gli scimpanzé. Il COVID-19 potrebbe quindi rivelarsi pericoloso per le grandi scimmie come il gorilla di montagna e il Cross River gorilla”,puntualizza la Ngo AFRICAN CONSERVATION.

Il Cross River gorilla (Gorilla gorilla diehli) è una sottospecie dell’Africa Occidentale, presente ormai soltanto in un range di 12mila Kmq sul confine tra la Nigeria e il Cameroon; è classificato come “criticamente minacciato” in Red List e ne rimangono solo 300. 

Ma il 24 marzo è uscito infatti un articolo in peer review su NATURE che ha chiesto la sospensione di ogni attività di eco-turismo in Uganda, Rwanda, DRC e tutte le nazioni che hanno le grandi scimmie per ridurre allo zero la possibilità di contatto tra esseri umani infetti e ciò che rimane dei nostri parenti più stretti, lungo linee di derivazione genetica ed evolutiva antiche di qualcosa come 10 milioni di anni. 

La crisi di estinzione è dunque al principio della pandemia, per via del traffico di animali selvatici e del loro consumo a scopo alimentare o come pet da compagnia, e alla fine di questa storia. Perché siamo solo all’inizio di conseguenze sistemiche anche sulla struttura portante della conservazione e fronteggiamo un rischio biologico che non riguarda solo noi umani, ma anche le specie che abbiamo condotto sul limite dell’abisso. 

Siamo cioè ormai dentro fino al collo in un circolo vizioso interamente costellato di rischi biologici multipli, imprevedibili, definiti da una incosciente compromissione del selvatico con il domestico, e dalle conseguenze di queste scelte di gestione delle risorse biologiche sui processi di estinzione. 

Una crisi biologica è anche difficile da affrontare. Quel che sta emergendo è che la “wildlife economy” è ormai parte integrante dell’economia correntemente intesa di interi Paesi, in modo tale che pensare di sradicarla dal giorno alla notte appare quanto meno inverosimile.

La Cina ha messo teoricamente al bando il consumo di carne selvatica nei mercati come quello di Wuhan, ma la storia non finisce certo qui. In una Lettera uscita su SCIENCE il 27 marzo un team di ricercatori cinesi avverte che “un bando totale sul consumo di specie selvatiche terrestri, da solo, non è abbastanza per proteggere efficacemente la salute pubblica dalla malattie associate alla wildlife.

La wildlife farming cinese include 6.3 milioni di soggetti coinvolti direttamente (practitioners) e un valore di fatturato di 18 miliardi di dollari. Tagliare questa attività in tempi brevi sarà difficile”. E le motivazioni sono presto dette: “conflitti tra gli interessi privati degli allevatori e la salute pubblica”.

Ma c’è anche un dilemma etico, dove mettere gli animali in gabbia esclusi dal commercio? Una eutanasia di massa? Con tutti i rischi di contagio per gli operatori addetti alle uccisioni? Rilasciarli nei loro habitat originari sarebbe una ulteriore puntata alla roulette, perché il pericolo di trasmissione di zoonosi alle popolazioni selvatiche sarebbe altissimo e incontrollabile.

Rimane anche da dire, ammettono con coraggio gli autori, che il bando cinese di febbraio non include affatto la medicina tradizionale, che continua a importare illegalmente scaglie di pangolino, ossa di tigre, bile di serpente e addirittura feci di pipistrello.  

Questa, infine, è una crisi biologica perché denuda la fragilità terrificante di un sistema economico che è fondato sul negazionismo climatico, sulle diseguaglianze sociali, sulla povertà da lavoro salariato i cui miserrimi guadagni finiscono di botto all’arrivo della pandemia.

È l’iper-capitalismo, come lo definisce l’economista Thomas Piketty, che ha finalmente mostrato il suo tallone d’Achille. Un sistema basato sulla produzione di beni di consumo, in espansione perenne, non è tarato per reggere la tensione di un fermo produttivo massiccio allo scopo di contenere il numero dei morti.

In questa crisi biologica è evidente ciò su cui concordava il panel di esperti che nel pomeriggio di ieri hanno partecipato ad un seminario di due ore e mezza su ZOOM, in diretta da Londra, organizzato da PLAN B ed Extinction Rebellion, a cui io stessa sono stata invitata come giornalista ambientale.

Dobbiamo passare da una “economia di crescita” ad una “economia del benessere”. Ossia, una economia che produca il necessario in una ottica esistenziale: beni indispensabili ad una vita ricca di significato, di progetti compatibili con il Pianeta, con i diritti umani e animali, insomma, di nuovo, con il fenomeno biologico nella sua interezza. 

Nelle parole di Thomas Piketty: “non è possibile avere flussi liberi di capitale e libero scambio di beni e di servizi se non si possiede anche un sistema comune, verificabile, di obiettivi sociali ( un salario minimo, diritti del lavoro), una giustizia fiscale (una tassazione minima comune dei principali attori economici globali) e una protezione ambientale (ad esempio, dei target di emissioni verificabili)”. 

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SarsCov2: sotto accusa anche i pet market

Steve Galster, fondatore di FREELAND, una Ngo con sede a Bangkok che si batte da anni contro il traffico di specie selvatiche, è stato chiarissimo nel definire il nostro presente: “Questa è una vendetta di Madre Natura”. Ci troviamo in una situazione che la maggior parte di noi considerava una esagerazione degli ambientalisti con i capelli lunghi, le ciabatte birkenstok e le magliette Patagonia. E invece ci siamo bruscamente risvegliati alla realtà.

Non puoi progettare di fare quello che vuoi del Pianeta per secoli e poi non aspettarti un big ben. Ecco, adesso ci siamo dentro e qualche parola più corposa del solito va detta. 

In questa pandemia non sono all’opera soltanto i classici schemi di sfruttamento delle faune: la gabbia, l’allevamento intensivo, il prelievo a mano armata di specie di ogni tipo, grazie a gang di contrabbandieri e bracconieri, direttamente dalle foreste, lo stoccaggio degli animali in mercati e macelli pubblici.

Qui c’è qualcosa di più, che, purtroppo, ha fatto la storia della nostra espansione sul Pianeta ed è inscritto nei geni della nostra specie. Mi riferisco alla capacità di Homo sapiens di manipolare le altre specie fino ad alterare la composizione stessa delle popolazioni animali degli ecosistemi, costruendo, nello stesso tempo, nuovi habitat artificiali dalle implicazioni ecologiche sconosciute. 

Era il 2006 quando uscì negli Stati Uniti “Il pianeta degli slum”, del sociologo ambientalista americano Mike Davis. Una indagine impressionante, schietta, che racconta le baraccopoli del Pianeta e l’esito finale della diseguaglianza economica in un capitalismo di rapina.

Ecco, in questo libro Mike Davis si chiede, verso la fine, che cosa accadrà nel nostro futuro quando immense megalopoli in Africa Occidentale, Sud est Asiatico e America del Sud diventeranno anche dei bacini di raccolta per decine di milioni di persone.

Nessuno, scrive Davis, sa che cosa succede in una concentrazione tale di esseri viventi. E si riferisce alle malattie.

Un proxy di analisi ce lo danno, però, proprio gli “wet market” e i “pet market” asiatici.

I wet market sono gli spacci all’ingrosso del tipo di quelli di Wuhan, e invece i pet market sono i mercati di specie esotiche acquistate per la loro bellezza, come animali da compagnia. I pet market sono pericolosi tanto quanto i mercati di carne fresca, macellata sul posto.

Ne ha parlato il TIME in una inchiesta molto dettagliata firmata da Charlie Campbell, che ha scritto da Bangkok, Tailandia.  

Campbell ha visitato il Chatuchak Market, uno dei mercati di specie esotiche più famoso dell’Asia, e del mondo: un posto visitato da 22,5 milioni di persone ogni anno, un posto dove puoi mettere le mani, soldi permettendo, su qualunque cosa sia abbastanza graziosa o morbida o sgargiante, quanto a colori di piume o pelle, da attirare l’interesse dei trafficanti.

Steven Galster ha accompagnato Campbell al Chatuchak e spiega un aspetto della faccenda che va ben oltre la crudeltà inflitta agli animali: “gli allevatori spesso aggiungono al loro breeding stock ( il gruppo di individui usati per la riproduzione in cattività, NDR) creature selvatiche, per ampliare il pool genetico”.

È pratica comune, infatti, vendere non solo animali trafugati dai loro habitat, ma anche animali allevati che però appartengono a specie non domestiche. Questo significa che, senza nessun controllo, gli allevatori manipolano il patrimonio genetico di popolazioni di specie tenute in cattività, creando in laboratorio gruppi geneticamente modificati che non esistono in natura.

“Le stesse catene commerciali di rifornimento (supply chain) che rifornivano Wuhan procurano animali anche ad alti mercati, che sono bombe a orologeria sparse per tutta la regione”. 

Non soltanto in Cina le wild farm sono luoghi dove si prova a potenziare, migliorare e quindi rendere più appetibile per il mercato specie animali selvatiche. Il Sudafrica è saldamente aggrappato a questa concezione di “sviluppo sostenibile”, come viene definito dal Governo, da una ventina d’anni, ma la situazione sta peggiorando.

Il Ministero dell’Agricoltura e il Ministero dell’Ambiente lavorano di comune accordo per implementare le fattorie e i ranch e fornire il nulla osta per la messa in batteria di altre 33 specie. Il mondo scientifico del Paese è insorto, ma la direzione è purtroppo chiara.

“Lo scorso 20 gennaio, un gruppo di ecologi, biologi e addirittura la South African Hunters and Game Association, hanno firmato e reso pubblico un documento inquietante: The implications of the reclassification of South African wildlife species as farm animals.

Nella seconda pagina del paper è scritto: “A causa della mancanza di trasparenza e di dettagli, non sappiamo effettivamente come queste specie saranno gestite e, perciò, quali saranno le implicazioni ecologiche. L’approdo finale e logico di questa legislazione è tuttavia che noi avremo 2 popolazioni per ciascuna specie: una selvatica e una addomesticata.

A nostro parere mantenere questa distinzione sarà molto costoso, ammesso che si riveli possibile. Quindi, le varietà addomesticate di animali selvatici rappresenteranno una nuova minaccia, di tipo genetico, per le faune selvatiche indigene del Sudafrica, minaccia che a quel punto sarà virtualmente impossibile prevenire o rendere reversibile”.

Nei pet market vengono ammassate, concentrate, specie che in natura non appartengono allo stesso assemblage, non sono cioè endemiche dello stesso habitat. Queste specie sono ammucchiate  chiuse in gabbie l’una accanto all’altra, in un contesto biologico del tutto artificiale senza nessuna precauzione sanitaria.

Un video girato da 60MinutesAustralia e riproposto sul sito di FREELAND ha filmato questo genere di posti a “biodiversità artificiale”: un piccolo di Serval rinchiuso in una gabbietta ha lo sguardo stravolto di un animale a cui abbiamo strappato tutto, a parte lo scambio gassoso nei polmoni che lo tiene ancora in vita.

Da questi lager artificiali che propongono una aberrante riscrittura della biodiversità possono emergere zoonosi a strettissimo legame di parentela con il Covid-19. Questo Serval è l’immagine simbolo, per quanto mi riguarda, della pandemia.

Ma c’è un altro aspetto dei pet market, più oscuro. 

Il modo in cui noi umani creiamo contesti biologici nuovi.

Per tutte queste ragioni,  Paul R. Ehrlich ha introdotto in questi giorni il concetto di “epidemiological environment: “l’ambiente epidemiologico consiste in una costellazione di circostanze che influenzano gli schemi di una malattia e i fattori che riguardano la salute. Tra queste circostanze ci sono la dimensione delle popolazioni e la loro densità, la dieta, la velocità e il tipo dei sistemi di trasporto, le sostanze tossiche, la distruzione del clima, la frequenza dei contatti uomo-animale, la disponibilità di strutture mediche con isolamento, le scorte di medicine, i vaccini, e le attrezzature mediche. L’ambiente epidemiologico include anche le norme culturali: i livelli di istruzione, l’equità economica nelle società, la competenza di chi governa”. 

La “growth mania”, l’ossessione per la crescita economica di economisti e politici, che ha ipnotizzato anche milioni di cittadini, non basta a spiegare la sottovalutazione collettiva dei rischi posti dalla distruzione della biodiversità per nutrire una demografia inarrestabile.

Secondo Ehrlich, noi viviamo “in un mondo che non ha ancora riconosciuto i suoi problemi di sovrappopolazione e consumismo o il loro impatto sulla salute e il benessere, connessi alla regressione socio-culturale: la crescente xenofobia, il razzismo, il pregiudizio religioso, il sessismo e, soprattutto, le iniquità economiche. Come spiegarlo?

Ci sono cause già note, come il potere del denaro, non soltanto in politica, ma anche nella cultura globale nel suo complesso. Ma un elemento fondamentale è la diffusa ignoranza, in parte dovuta alla rottura del sistema di istruzione, che permette, ad esempio, a un folto gruppo di svariati economisti, politici e decision-makers di credere alla crescita infinita della popolazione e del consumo.

La vasta incapacità delle ‘persone colte’ nell’elaborare un pensiero è di frequente espressa da frasi come questa, non abbiamo un problema con la popolazione, ma solo un problema con l’eccesso di consumismo”.

L’emergenza di questi giorni dimostra che i numeri non sono retorica a buon mercato, ma, in un sistema biologico, questione di vita o di morte. Ed è proprio la radice biologica di questa catastrofe collettiva a dover essere posta sotto i riflettori dei media, se mai fosse possibile. Perché per quanto mostruoso possa sembrarci questo dolore, esso ha una sua logica biologica. Siamo solo noi ad averlo dimenticato. 

Gli allevatori che vendono i propri animali nei pet market non di rado introducono animali selvatici per gli accoppiamenti in cattività, in modo da potenziare il pool genetico.  Il risultato: la creazione di gruppi geneticamente modificati che non esistono in natura.

SarsCov2: serve una catarsi collettiva

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Nel suo libro più anticonvenzionale, “Massa e Potere”, Elias Canetti racconta una storia che suona familiare agli amanti della crime fiction. Un crudele imperatore indiano, scrive Canetti, sterminò tutto il suo popolo, solo per avere la soddisfazione di contemplare, dalla terrazza del palazzo imperiale, la capitale del suo regno deserta e silenziosa. E’ la gratificazione che proviene dal sentirsi l’unico sopravvissuto, l’unico che ce l’ha fatta, il solo ad aver attraversato indenne la tempesta. Guardare la disgrazia della massa, secondo Canetti, fa sentire al sicuro. La psicologia sperimentale ritiene che anche la passione per il crime derivi da un meccanismo emotivi analogo. Ecco, noi occidentali abbiamo vissuto per decenni in un atteggiamento del genere.

Per un tempo infinitamente lungo abbiamo goduto del nostro benessere economico osservando a distanza di sicurezza la miseria, la fame, le guerre civili di quello che ci piace chiamare “il terzo mondo”.

Una prospettiva riduzionista, ma costituiva delle società a capitalismo avanzato, denunciata negli ultimi 30 anni con grande acume dall’artista cileno Alfredo Jaar.

Ma dall’inizio dell’epidemia da SarsCov2 questa prospettiva antropologica è ribaltata. Noi Europei, figli privilegiati dell’Occidente ricco, ci siamo improvvisamente accorti che l’orrore non è esterno, lontano, esotico, terzomondista. L’orrore è la nostra quotidianità. 

Un orrore da tragedia greca. Un dolore ateniese, per così dire, che riscrive il vocabolario della realtà di questa primavera del terzo decennio del ventunesimo secolo. Già, ma in questa tragedia siamo ancora al primo episodio. Non sappiamo se, quando e come avremo l’opportunità di attraversare il momento più costruttivo del dramma, che Aristotele, nel sesto libro della Poetica, identificava con un mutamento di stato d’animo: “la tragedia, mediante una serie di casi che “suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”.

Pietà e terrore: è l’eziologia di questi sentimenti che dovremmo ricostruire per comprendere come sia possibile lo sgomento orrendo che chiunque di noi ha provato dinanzi alle immagini dei camion dell’Esercito che, di notte, scortavano fuori Bergamo le salme di centinaia di persone che non era semplicemente possibile seppellire, o bruciare. 

Davanti a certe scene il buonismo non serve a nulla. Occorre invece, con urgenza, chiedersi qual’è l’origine di questo dolore. Perché delle due una: o siamo di fronte ad un evento stocastico, ad una sventura imprevedibile, fatale, o siamo invece dinanzi ad una eruzione sintomatica che ha delle cause precise.

Che sarebbe auspicabile circoscrivere, e quindi affrontare con la dovuta serietà. 

Da decenni sappiamo che la deforestazione rampante frammenta gli habitat e aumenta la possibilità di contatto con specie animali vettori di zoonosi sconosciute. Questo scenario ecologico causa-effetto è noto e costituisce quindi, almeno negli ambienti scientifici, un rischio concreto e già dimostratosi possibile. Basta un nome su tutto per capire di cosa stiamo parlando: ebola.

Era il lontano 2001 quando un articolo uscito sulla Royal Society analizzava la “frequenza delle epidemie di malattie infettive su scala mondiale” nell’arco di tempo 1980-2013, arrivando alla conclusione che “le malattie di origine batterica, vitale e zoonotica e quelle causate da patogeni trasmessi tramite vettori-ospiti sono la maggior parte di quelle verificatesi”.

Uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista medica Lancet nel 2012 identificava 400 nuove malattie comparse a partire dal 1940, precisando che “6 su 10 sono zoonosi”.

Su ENSIA, Kate Jones, una ecologa della UCL di Londra,intervistata su questa pandemia da John Vidal, ha detto che l’emergere di questo tipo di infezioni costituisce una “crescente e molto significativa minaccia alla salute globale, alla sicurezza e all’economia”. Nel 2008, la Jones e il suo team avevano scoperto 335 malattie “emerse tra il 1960 e il 2004, il 60% delle quali veniva da animali non umani”. 

Deforestando il Pianeta (ad esempio per mangiare barrette di cioccolato Kinder con olio di palma o per coltivare soia destinata agli allevamenti intensivi di bovini da carne) apriamo le porte all’ignoto. 

Un secondo punto importante per ragionare a freddo è il peso dell’estinzione negli equilibri biologici del Pianeta. 

La deforestazione, infatti, non è l’unico fattore che influisce sul rischio epidemico. I cambiamenti negli ecosistemi, come, ad esempio, le siccità prolungate indotte dall’aumento delle temperature globali, hanno infatti conseguenze sulle popolazioni animali, che a loro volta possono accelerare e favorire la diffusione di virus letali per l’uomo.

Un esempio noto riguarda gli uccelli nel continente nordamericano: “il rischio del virus del Nilo Occidentale, a cui sono esposti gli Stati Uniti, cresce quando crolla la diversità delle specie avicole, e, in modo analogo, la sindrome di Lyme aumenta con il precipitare del numero di specie di mammiferi”.

E questo avviene, secondo uno studio pubblicato nel 2013 dalla PNAS, perché “gli ospiti dei virus che sono più efficaci nel trasmettere i patogeni (ospiti competenti) tendono a resistere e quelli meno competenti, invece, a sparire, quando declina la biodiversità”.

Le specie che rispondono meglio alle alterazioni ambientali sono quelle generaliste: quelle con adattamenti più particolari, minuti, sono più suscettibili rispetto alle alterazioni del loro habitat. Decimando la biodiversità, favoriamo i generalisti, che, però, sono anche i più bravi nel trasportare patogeni sconosciuti. Questo significa che più accresciamo il rischio di estinzione complessivo degli ecosistemi, più ci esponiamo, su numerosi fronti, ad un rischio epidemiologico inedito. 

E questo ci riporta dunque, senza pietà direi, alla questione della verità propinata all’opinione pubblica. Durante tutto l’anno scorso il movimento dissidente inglese Extinction Rebellion ha posto la verità in cima alle proprie priorità politiche, con un gesto che è stato finora molto poco capito dalla stampa, sempre compiacente con il tentativo di minimizzare categorie di pensiero considerate non alla moda.

Lungi dal possedere unicamente una sfumatura religiosa o, peggio ancora, filosofica, la verità dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni deontologiche dei media. Perché è evidente che ci troviamo nel pieno di una conflagrazione: stiamo pagando il prezzo di un uso folle delle risorse naturali del Pianeta e ormai la cronaca non può pretendersi immune dal discorso ambientale.

Nella puntata del 20 marzo scorso, la verità è stata evocata dalla nota psicologa Maria Rita Parsi nel corso della trasmissione di La7 “L’Aria che tira” condotta da Myrta Merlino. La Parsi ha sostenuto che è importante dire la verità ai cittadini, che questa crisi tremenda non sarà di breve durata e che servirà molta forza d’animo.

C’è da chiedersi donde possa trarre ispirazione questa magnanimità, se non viene dato avvertimento alle gente comune della causa di questa malattia e, quindi, del fatto che se non ci muoviamo ad affrontare le ragioni del disastro non saremo pronti a ciò che verrà.

Perché altre, di epidemie del genere, ne potrebbero venire. Perché su un Pianeta sempre più caldo l’esperimento avviato in ogni ecosistema disponibile ci espone ad un futuro che potrebbe farci guardare ai venti anni che abbiamo alle spalle come all’ultima età dell’oro della Terra. È il caso dunque di aggiungere un terzo punto a questa riflessione.

E cioè la demografia umana. La deforestazione e la defaunazione hanno come motore interno una demografia inarrestabile, e presuntuosa. David Quammen, leggendario giornalista ambientale americano, è stato chiarissimo sul New York Times, in un pezzo con un titolo programmatico: We made the coronavirus epidemic. Siamo stati noi a farlo, il coronavirus. 

Quammen: “l’emergenza di Wuhan non è un evento nuovo. È parte di una sequenza di contingenze connesse tra loro che affonda lontano nel passato e si spinge avanti, nel futuro, fintanto che persisteranno le circostanze attuali. Perciò, quando ci facciamo prendere dalla preoccupazione per questa epidemia, cominciamo ad avere timore della prossima. Oppure facciamo qualcosa per affrontare le circostanze attuali.

Queste circostanze includono 7.6 miliardi di esseri umani affamati: alcuni di loro impoveriti e disperati di proteine; altri benestanti e spreconi, con il potere di viaggiare dappertutto con un aeroplano. Questi fattori non hanno precedenti sul pianeta Terra: sappiamo dai reperti fossili, per assenza di evidenze diverse, che nessun animale di grossa taglia è mai stato tanto abbondante quanto gli umani sono ora, anche mettendo da parte la loro efficace arroganza verso le risorse.

E una conseguenza di questa abbondanza, di quel potere, e del disturbo ecologico conseguente, sono gli scambi di virus, prima da animale ad essere umano e poi da umano ad umano, qualche volta su scala pandemica (…). Il nCoV-2019 non è stato un evento nuovo o una sventura che si è abbattuta su di noi. È stata ed è la parte di di un pacchetto delle nostre che compiamo noi umani”. 

Purtroppo non sono pochi gli editoriali che, in mezzo a questo disastro, inneggiano alla de-responsabilizzazione dell’individuo, chiamato, guarda un po’, ad assumersi l’onere delle misure restrittive necessarie, almeno in parte, a salvare una generazione di anziani che è la memoria storica di questo Paese. Il nemico di uno di questi interventi ( errori di forma in lingua italiana a parte) sarebbe “l’ordine costituito”.

Si incolperebbe l’individuo disinvolto, concentrato sulla sua oretta di jogging, per non attaccare invece la “narrazione dominante”. Purtroppo, simili baggianate sono state apprezzate su Facebook anche da qualche direttore di testata “green”. Persiste, infatti, la tendenza suicida dell’ambientalismo italiano a non coinvolgere la coscienza di ciascuno di noi nella direzione presa dalla nostra civiltà.

Ma quel che è più grave in questo momento è proprio lo scarico di responsabilità storica rispetto alle origini della tragedia, alle sue radici profonde. Di questo ambientalismo salottiero facciamo ormai anche a meno. È fasullo, non serve a niente e a nessuno e, anzi, confonde.

In una nota vocale registrata sul sito web della ECOHEALTH ALLIANCE, un gruppo di ricerca impegnato a documentare e studiare la relazione tra la distruzione degli ecosistemi e le ripercussioni sulla salute umana, il direttore del team, Peter Daszak, ha invece centrato la questione: gestire il rischio di una pandemia del tipo di questa richiede di rivedere la nostra relazione con il Pianeta.

Nella tragedia greca la via di uscita dal conflitto non era mai un negoziato, una trattativa e tanto meno un compromesso. L’uomo, imprigionato dalle conseguenze delle sue stesse azioni, poteva scegliere di assumersi tutta la responsabilità delle sue omissioni e dei suoi delitti. Era la strada dell’eroismo.

Una strada di una moralità assoluta, che a noi è sempre più sconosciuta, impegnati come siamo a dare per scontata la prosperità e i capricci di società obese di roba, e avare di pensiero. Per i Greci, l’orrore aveva almeno una utilità, riconoscersi immensamente deboli di fronte alla enormità delle leggi del cosmo, ma pur sempre capaci di ammetterlo. Solo compreso questo, c’era spazio per la giustizia. E la rinascita.