
Lo scorso 28 marzo, in una San Pietro deserta e scurita dalla pioggia, Papa Francesco ha cominciato la sua omelia a conforto dei fedeli con una citazione dal Vangelo di Marco: “venuta la sera”. Il discorso del Papa assomigliava ad una impressionante metafora non solo di queste settimane, ma dell’intera condizione del Pianeta. Potremmo anche dirla così: il dolore della biosfera è ora anche il nostro.
“Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi.
Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa”, ha detto Francesco.
Eppure, ascoltando e osservando la sua preghiera da un punto di vista laico ed ateo, non poteva sfuggire che il Papa era uscito a pregare quando già le tenebre erano già alle porte, di Roma e del Pianeta. Era già buio, al momento della invocazione dell’aiuto celeste.
La tempesta non era affatto inaspettata. E benché le parole successive di Francesco (un Papa che poco di dirompente ha detto sul Pianeta, ma che molto di sensato e di giusto ha invece denunciato sulla miseria e la povertà) siano una analisi adeguata alla crisi di pensiero che sta dietro la pandemia, non è in questa indignazione che bisogna trovare una interpretazione adeguata del 28 marzo in Roma.
“Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta (…) non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
È un discorso che risuona di un disagio medievale, cioè dell’angosciosa domanda rivolta a un Dio creatore da parte di uomini inermi, impotenti, innocenti dinanzi alla propria mortalità, al flagello delle epidemie, dei raccolti andati perduti, degli espropri di tiranni e potentati.
Molta dell’opinione pubblica italiana si aggrappa a questo sentimento di sconcertata incomprensione, di sbigottimento amaro, per non accettare, invece, una esperienza della malattia più matura, ma ben più complessa. Piazza San Pietro spogliata di uomini e donne, enorme e scura, come forse il Bernini la vide nella sua immaginazione autarchica e geniale, opera d’ingegno assoluta, astratta dalla Storia e dal dolore dei tempi, si è infatti presentata a noi come una landa desertificata.
Da qui la percezione di un silenzio fuori posto, maligno, metafisico. Non siamo abituati a valutare il silenzio, a misurarlo, tanto meno ad ascoltarlo. A fuggirlo, sì. Anche a maledirlo, come fosse un sintomo, appunto, di patologia.
Le città svuotate ci incutono un terrore medievale ( proliferano in rete i riferimenti alla crisi del Trecento). Ma c’è anche di più di una imprecisata superstizione.
Come scrisse Jacques Le Goff a proposito del passaggio dal X all’XI secolo, e quindi alle spinte sociali ed economiche che condussero alla Crociata, gli Occidentali erano “incapaci di trovare nel proprio paese il senso di un destino collettivo e individuale”.
Siamo nelle stesse condizioni.
Il calare della sera sulle nostre vite è una immagine ricorrente nel pensiero filosofico italiano ed occidentale. Siamo alla fine di un mondo, e non certo per via dei flussi migratori, o dell’Islam.
Siamo al capolinea della concezione del mondo che è a fondamento della nostra cultura economica e sociale, una idea degli uomini e della loro missione le cui origini sprofondano nel passato remoto ellenico, ma che comincia a prendere forme davvero moderne 500 anni fa con l’impresa atlantica di Colombo.
Heidegger e il nostro Gianni Vattimo chiamavano tutto questo “metafisica”. La metafisica è un modo di concepire l’ente, e quindi il Pianeta attorno a noi. Nei secoli di formazione del capitalismo moderno (dal Cinquecento al Novecento) la metafisica ci ha spinti a interpretare il mondo come oggetto disponibile alla trasformazione economica ed industriale.
“Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale”, scrisse Emanuele Severino.
“Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?”.
La sera è scesa perché era inevitabile, giunti a questo punto. San Pietro era vuota perché per noi è l’ora del tramonto.
Il nostro Occidente è la “terra della sera”, come ha ricordato Umberto Galimberti nel 2005: “Che cosa propriamente finisce? Finisce lo sfondo umanistico che ha costituito il tratto specifico della cultura occidentale e, nonostante i progressi della scienza, finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.
E sulle ceneri della categoria del senso, che dell’Occidente è sempre stata l’idea guida, si affacciano le figure del nichilismo, le quali, nel proiettare le loro ombre sulla terra della sera, indicano, a ben guardare, la direzione del tramonto. Un tramonto già inscritto nell’alba di quel giorno in cui l’Occidente ha preso a interpretare se stesso come cultura del dominio dell’uomo sulle cose”.
Ecco, allora, che la principale piazza della Cristianità messa a nudo acquista tutto un altro significato. Qui non ci sono invocazioni salvifiche, preghiere e teodicee cui fare appello: qui c’è l’effetto, finalmente visibile, dell’annichilamento biologico che abbiamo imposto al Pianeta.
Questo silenzio lo portiamo dentro di noi. Lo abbiamo scelto e voluto, depredando le foreste e macellandone gli abitanti, e adesso che ci fa male, adesso che fa rumore, ce ne accorgiamo come degli ipocriti troppo presi da sé stessi che continuano a non riconoscere la propria meschinità.
Questo silenzio è il nostro deserto. Il dolore della biosfera è ora anche il nostro.