
È uscito il 31 gennaio con Iperborea Autunno tedesco di Stig Dagerman, la raccolta dei reportage che lo scrittore svedese scrisse dalla Germania del 1946 (Amburgo, Berlino, Hannover, Duesseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco, Norimberga e Darmstadt) per raccontare che cosa ne era odi milioni di tedeschi – “persone che ringraziano Dio di essere vive all’inferno” – dopo la disfatta del nazismo. Un freddo e piovoso inverno di rovine. Questo era il 1946 tedesco.
Quest’opera di giornalismo letterario non è un libro che parla solo dei mesi spaventosi del 1946 in cui era chiaro – e Dagerman ebbe il coraggio di scriverlo – che la liberazione per mano degli Alleati non segnava una nuova primavera spirituale per la Germania annientata “dall’apatia e dal cinismo”. Questo è un libro che parla della nostra Europa di oggi e lo fa attraverso un viaggio senza speranza, ma di pura constatazione, tra le macerie delle città tedesche.
Le rovine tedesche definiscono il post nazismo, e oggi l’eco di quelle rovine definisce il nostro presente europeo. Le rovine parlano della nostra relazione con la memoria, il tempo e il futuro. Parlano della guerra civile europea, dei crimini che siamo stati capaci di commettere e della strada che abbiamo scelto di intraprendere (dal Piano Marshall in avanti) per lenire i sensi di colpa, dimenticare le responsabilità e disegnare un futuro che non fosse più europeo. La domanda che in questo principio di 2018 Autunno tedesco pone è questa: esiste ancora una Europa con cui identificarsi in quanto Europei?
Bunker bui e maleodoranti
Nell’ottobre del 1946, scopre Dagerman, milioni di tedeschi sono costretti a mettersi su treni semi distrutti per lasciare il sud del Paese dove avevano trovato rifugio dai bombardamenti e tornare nelle città del nord; ma l’unica unità abitativa disponibile, poiché tutto è stato distrutto, sono le cantine.
Dagerman vive in una di queste fogne di cemento, con l’acqua alle caviglie, stufe che bruciano legna bagnata, e ne fa un mitologhema della fame, del freddo, del nulla che avvolge i tedeschi all’indomani della scoperta che tutto, dal 1933, era stato immondo e sbagliato. I colleghi della stampa accusavano lo svedese di “andare ad annusare nelle pentole” e di prestare scarsa attenzione ai proclami dei nuovi partiti socialdemocratico e cristiano democratico (CDU) sul valore della democrazia. Ma Dagerman aveva compreso che “è un ricatto analizzare l’atteggiamento politico dell’affamato senza contemporaneamente analizzare la fame”.
I tedeschi crepavano di freddo, i bambini tossivano con i buchi nei polmoni e nessuno, veramente nessuno, macilento e ossessionato dallo stomaco vuoto, aveva davvero pensieri utili a superare lo sguardo spaccato sulle rovine dei bombardamenti, sempre, ogni minuto e ogni giorno del post Reich, perché “la fame è una forma di deficienza”.
Eppure, come nella Jungle alle porte di Calais, dove finiscono i sogni coloniali e post coloniali del capitalismo avanzato che se ne è fregato del cambiamento climatico per decenni, Berlino e Amburgo si sentono dire che “la gente nelle cantine ha il dovere di ricavare insegnamenti politici dall’umidità, dalla tubercolosi, dalla mancanza di cibo, vestiti e riscaldamento”. E questo Dagerman lo scrive senza negare una virgola di quanto sostenuto da Karl Jaspers: “tutti noi siamo complici del fatto che, tra le premesse spirituali su cui poggiava la vita tedesca, era data la possibilità di un tale regime”.
Non siamo stati migliori dei tedeschi, infliggendo fame e malattie ai bambini tedeschi dopo la disfatta di Hitler. Pretendevamo di essere migliori solo perché questa presunzione ci faceva star bene. Ci dava l’illusione di essere nati con i geni giusti della bontà genetica. E invece, l’ingiusta è così umana. Non ha passaporto.
Amburgo: l’odore acre e amaro di incendi estinti
“Ma se si è alla ricerca di primati, se si vuole diventare esperti in rovine, se si desidera un campionario di ciò che una città rasa al suolo può offrire in quanto a rovine, se si vuole vedere non una città in rovina ma un paesaggio di rovine, più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso, allora c’è forse una sola città tedesca da visitare: Amburgo”.
Negli ex quartieri di Hasselbrook e Landwehr ci sono “mucchi bianchi di vasche da bagno in frantumi” e una “enorme discarica di frontoni in pezzi”. La polverizzazione della civiltà urbana è una coltre di nebbia ideologica e sentimentale che raggiunge, dentro le menti e i cuori dei tedeschi sopravvissuti, un senso di impotenza, di nullificazione, di stordimento. E’ il vuoto della responsabilità morale che urla il suo vero fondamento, Dagerman lo capisce. Fondamento primo che non sta certo nel didattico richiamo agli errori commessi, ma in un movimento ben più vasto di consapevolezza che scava fino alla complicità di ogni singolo individuo in quanto essere umano figlio della modernità.
Perché la gente delle cantine, non tutta certo, ma moltissima, era gente come noi. E allora la penosa sensazione che queste pagine strepitose danno oggi è questa: ciò che ci sfugge di quelle persone, perché non la accettiamo, è la loro totale somiglianza con noi. E in questa somiglianza sta il cuore dell’Europa che solo raramente abbiamo imparato a guardare in faccia da quel 1946.
Ad Amburgo infatti “è inutile perfino cercare i ricordi di vita umana. Solo i termosifoni si aggrappano ancora ai muri come grandi animali impauriti; per il resto tutto ciò che poteva prendere fuoco è sparito. Oggi c’è quiete, ma quando il vento soffia produce rumore nei caloriferi e tutto questo ex quartiere mortalmente silenzioso si riempie di uno strano suono martellante. Allora capita, a volte, che un calorifero si stacchi d’improvviso e cada, uccidendo qualcuno intento nella ricerca del carbone tra le viscere delle rovine. Cercare carbone, ecco una delle ragioni per cui la gente scende a Landwehr (…) i tedeschi parlano sarcasticamente delle rovine come delle uniche miniere di carbone che restano alla Germania”.
Da secoli in Europa le rovine sono testimonianza viva dei tempi antichi, capaci di trasmettere al corso del tempo le creazioni del genio umano e il suo tentativo di scalare l’infinito. Le rovine di Roma e della Grecia sono un patrimonio europeo, una carta di identità collettiva, ma oggi il vento che passa sui resti gloriosi del passato è bellicoso. Non ci riappacifica con il nostro umanismo ereditato, no. Racconta piuttosto dello scontro fratricida tra il capitale globale e una dimensione altra dell’esistenza che in molti chiamano ecologismo o ambientalismo.
Il sentimento che l’Europa ha di se stessa coincide con il lungo viaggio di Hoelderlin/Iperione sulle tracce della Grecia classica. Preservare una continuità, fare delle rovine una ricchezza eterna. Eppure, l’Europa oggi assomiglia molto di più che alla Atene di Hoelderlin, alla torta fittizia che venne offerta a Dagerman in una villa borghese, in un parco abbandonato di Amburgo: “quella torta di cattivo pane tedesco offerta dall’avvocato e dallo scrittore è in realtà una torta simbolica, una torta liberale in cui la panna finta ha lo scopo di camuffare verità troppo amare. È indubbiamente una torta per i meno poveri. I più poveri non mangiano il pane in questo modo”. Una torta che di certo non avrebbe mai potuto mangiare l’ingegnere con un phd a Cambridge di 51 anni che lo scorso autunno è morto di povertà nel Wales, Regno Unito.
Gli indesiderati
Nella Berlino “assiderata e affamata” già sono visibili gli schemi sociali ed economici della vita moderna, che prevedono scarti umani a milioni. Il silenzio dei vecchi che nei tribunali per la denazificazione non sanno giustificarsi della propria ignavia rimbomba nelle domande dei giovani: “avevamo 14 anni”, e poi “signor avvocato, permettetemi di dire che voi anziani che avete taciuto siete responsabili del nostro destino come una madre che lascia morire di fame suo figlio”.
E le ex SS che ammettono “eravamo idealisti”. Le domande di questi giovani sono identiche a quelle poste dagli attivisti che dal 1992 tentano di porre i cambiamenti climatici nell’agenda politica della megaciviltà globale. Verso contrade lontane dalla giustizia si muove l’animo umano, quando gli interessi personali, la timidezza all’azione morale e l’espansione di desideri e ambizioni diventa biopolitica. Tutto può aspettare, compresa l’atmosfera, così come allora ci si poté rifiutare di aver paura di Hitler e di Heydrich. Tanto, se stiamo sbagliando, ci penserà qualcun altro. Sarà affar suo. Noi non ci saremo più.
E mentre i genitori cercano i figli dispersi al fronte appendendo cartelli nelle stazioni sfondate dalle bombe, tutto quello che rimane della Germania è la lotta per le patate, per portarne il più possibile sul treno e poi alla famiglia, ma solo un sacco, perché se anche ne hai trovati tre sacchi, non c’è posto per tutte quelle patate nello scompartimento strapieno di profughi.
Per Dagerman tutti i poteri erano il Potere. Perciò intuii in anticipo di 60 anni il prezzo che l’Europa, attraverso la Germania, avrebbe pagato in nome della ricostruzione. Non abbiamo abbandonato affatto gli schemi biopolitici che portano alla catastrofe, al contrario. Il prezzo della ricostruzione non è stata una consapevolezza responsabile delle conseguenze delle azioni umane, ma una abiura della sondere Weg europea a totale favore del consumismo di importazione.
I tedeschi più coraggiosi provarono a dire ad alta voce come si stavano mettendo le cose, ad esempio il giurista Frizt Bauer, che fu il vero artefice della cattura di Adolf Eichman . Proprio per questo un perfetto sconosciuto nei programmi politicamente corretti di Rai Storia sulla Giornata della Memoria. Pur di non affrontare le vere dimensioni della colpa tedesca – una colpa umana e non dotata di passaporto tedesco, già commessa in Africa, Asia e America – s’è accettata l’idea che basti un frigorifero per fare una civiltà, e un giorno del ricordo collettivo per instaurare comode definizioni del bene e del male.
E così può accadere che il Goethe Institut di Milano metta in cantina i volumi delle poesie di Hoelderlin, come se l’Europa non potesse più dire nulla di se stessa se non in anglo-americano. Dagerman comprese ciò che anche Karl Jaspers comprese: “se noi ci mettiamo a indagare la nostra colpa fino alla sua fonte originaria, veniamo a trovarci di fronte all’umanità che nella forma tedesca ha assunto un modo caratteristico e terribile di diventare colpevole, ma che è una possibilità dell’uomo in quanto uomo”.
Grazie !
https://www.berlinale.de/en/programm/berlinale_programm/datenblatt.php?film_id=201819516#tab=video25