Categoria: Kgalagadi

Ogni esplorazione nasconde una assenza

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Ogni chilometro di una spedizione è la spedizione. Il ritorno al Nossob North Gate fa la sintesi, è un assessment. Parte da zero, anche se il suo principio sta in tutto ciò che, ormai, è alle spalle. Lo scopo del viaggio, in un modo che ora mi appare imperfetto, era individuare il leone del Kalahari e osservarlo nel suo habitat così come, un secolo fa, Vaughan Kirby osservò i grandi leoni della Colonia del Capo. Ogni esplorazione nasconde una assenza.

Il leone non si è presentato, ed è così riuscito a sfidare lo stereotipo fissato, rigido dell’Africa, che è ovunque sui giornali occidentali. Questa assenza ha invece aperto sentieri inesplorati per la comprensione di che cosa è un leone, oggi. Il suo sottrarsi ha rinviato a qualcosa d’altro che non sia un volantino turistico o una foto insulsa, strappata alla estensione del tempo che questa specie ha già trascorso in Africa.

“Il rinvio non risale alla causa, ma colloca nel luogo (Ora) da cui ogni dire (Eroertung) si invia”, scrisse Heidegger in L’essenza del linguaggio. La sua insistenza sul “luogo” da cui provengono le manifestazioni tangibili, vive, della nostra vita, indica la concretezza della matrice ontologica da cui non solo si origina il pensiero, ma, con il pensiero, anche il nostro essere nel mondo.

Nel Kalahari, questa riflessione acquista una forza paurosa, perché si ha timore a inquinare le impressioni del deserto, che appartengono all’Africa, con le intuizioni occidentali. Eppure è l’Africa che rende comprensibile il pensiero occidentale. Il pensare il mondo viene dallo stesso posto da cui si manifesta l’esistenza del Pianeta. Il pensiero è geografia.

Da questi luoghi viene anche il leone del Kalahari. Li possediamo dentro di noi come ricordo e solitudine, ma senza attraversarli non potremo mai davvero proteggere le terre selvagge e i loro predatori di vertice. Forse, c’è in questa corruzione concettuale un ipotetico embrione di comprensione reciproca. 

Ogni animale è una apparizione da decifrare, un messaggero che ricorda come tutto ciò che è appartiene a tutto ciò che non può essere pre-stabilito. La vita è incertezza, è mutazione casuale, è imprecisione continua e disperata.

Per questo, stando a queste premesse, la spedizione può dirsi compiuta anche se il leone dalla criniera nera si è fatto i fatti suoi durante i giorni di Polentswa. Entro nel piccolo spaccio del Nossob North Gate.

Voglio prendere nota dei generi di prima necessità che i visitatori devono acquistare prima di addentrarsi nelle loro speranze escluse dal gioco infernale e fatato del capitalismo globale, e cioè le speranze di incontrare i leoni e i leopardi.

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Arance e mele, come per le esplorazioni di Jens Munk nelle acque gelide del Nord. Le patate, l’ortaggio globale e coloniale che ha lavorato insieme alla lingua inglese per diffondere ovunque un unico modello di umanità. Gli insetticidi, immancabili compagni di un fastidio da poltrone di velluto damascato che non riusciremo mai a levarci di dosso, nella nostra perenne crociata contro gli insetti. La legna da ardere nei falò da campo, questa sì amatissima e amica, attesa con trepidazione. 

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E poi un ritratto in bianco e nero del leone: il suo muso serio, lo sguardo tipico da gatto accigliato. La sua faccia regale serve per sponsorizzare una marca di vino. Cosa questo significhi per lui, è difficile dirlo. Ma i leoni sono ovunque ci sia qualcosa per cui valga la pena di respirare su questo Pianeta. La “differenziazione regionale” e gli “adattamenti locali” altamente specifici di cui i leoni del Kalahari danno prova non sono, in fondo, altro che questo, la constatazione che i tantissimi habitat del continente africano sono tutti egualmente unici e irripetibili. Chi li abita, si sente a casa: uomini e animali insieme.

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Il pensiero benpensante in Italia racconta da anni dei muri che sorgono in varie parti del mondo per tenere a freno, inutilmente, migranti, rifugiati, immigrati, poveri di ogni specie. L’umanità miserabile che ci è convenuto rendere miserabile per alimentare la termodinamica folle del Capitalismo.

Ma anche le barriere attorno agli animali prolificano. Attorno alle riserve, attorno ai parchi nazionali, e anche lungo le concessioni come lo !Xaus. Perché oltre la recinzione c’è un ranch che alleva specie selvatiche per usi commerciali.

Le fence adesso che siamo alla fine, non mi appaiono solo un sintomo inquietante nei lacunosi piani di conservazione fondati su una demografia umana inarrestabile. Mi appaiono anche come un insulto contro le ragioni evolutive e biologiche che ci hanno messi qui, sulla Terra.

Sono cicatrici che portiamo sulla nostra stessa faccia. Per chi ne volesse sapere di più rimando ad una inchiesta strepitosa firmata da Adam Welz per ENSIA: South Africa’s private wildlife ranching industry. 

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Usciamo dal gate di Twee Riverien alle sei di sera. I fuochi dei campeggiatori bruciano caldi e ospitali nei bracieri di ferro. La notte è vicina, lunga e oscura come il ritorno in Europa. 

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La mattina successiva, all’aeroporto di Upington, mi soffermo a guardare la collezione di manufatti Khomani San di una vetrina-museo. La bellezza del legno scolpito è stupefacente nella sua semplicità. Gli animali sono raffigurati con amore perché sono parte del mondo dei San in un modo pre-religioso, anti-cristiano, non monoteista.

“I dipinti del boscimane sulle sua amate rupi, per coloro che sanno vedere oltre con gli occhi. In esse, gli animali dell’Africa continuano a vivere come lui li conobbe e come nessun artista europeo o bantù è ancora stato in grado in raffigurarli.

Non si trovano lì come una preda per il suo arco in ozio – scrive Laurens Van Der Post – o come cibo per il suo stomaco, ma quali compagni del mistero, oltre che quali compagni di pellegrinaggio, intenti a percorrere la stessa pista perigliosa tra lontane acque, fonte di vita”. 

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Quanto questi animali siano lontani dagli animali come li pretendiamo noi me lo trovo davanti al Tambo di Johannesburg. Nei negozi lussuosi del duty-free sono in vendita pelli di springbok e zebra. Quel che resta degli erbivori allevati proprio nelle game farms. I leopardi sono diventati un disegno stilizzato su una insegna commerciale. L’Out of Africa è uno slogan buono per il peggior offerente, il turista da pacchetto a prezzo fisso che ignora la differenza tra leopardo e ghepardo. Ma ha i quattrini per volare qui da una nazione dal solido PIL.

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Anche Nelson Mandela, del resto, è diventato una marca di tè, come la wildlife. E’ il brand Sudafrica. Una tristezza infinita prende dinanzi a tutto ciò, perché vien da chiedersi se le motivazioni che spingono allevatori senza pietà ad allevare leoni in gabbia per poi scuoiarli e rivenderne le ossa non sia poi sorella di questo business, che ha ridotto la vita a gadget. 

Poco prima dell’imbarco del volo per Dubai, una inserviente della toilette, una donna nera di una trentina d’anni, canticchia una canzone in inglese. La sua voce è più dolce della melodia che ha imparato in una lingua che ormai, come sosteneva Achinua Achebe, non può che non essere anche sua.

Eppure, mi ricorda Mandela, Biko e tutti coloro che hanno combattuto perché il Sudafrica avesse una dignità. Che un giorno questa canzone possa essere cantata anche per le specie carismatiche di questo continente è ciò che, penso, debba augurarsi ogni discorso sulla protezione delle terre selvagge. 

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(il nuovo Sudafrica all’aeroporto di Upington)

Anche la notte teme per il futuro del Kgalagadi

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La notte a Polentswa è gonfia di preoccupazione per il futuro del Kgalagadi. Al tramonto del primo giorno, una luna, grossa e piena, era più simile al sole che ad un astro notturno. La notte successiva, invece, il vento ha raccolto ogni forza disponibile nella savana e ha urlato contro la nostra tenda.

Gli sciacalli, una coppia che caccia colombe del Capo attorno alla waterhole e alla grande acacia, si avvicinano e il maschio mi guarda con il suo muso da volpe e le piume della preda impigliate fra i denti.

Per la terza volta in questa spedizione, podo dopo le sei di mattina una iena arriva da lontano, beve, anche lei fra i corpi eterei e grigi delle colombe, che le volteggiano attorno come coriandoli viventi. La sua sicurezza è incontestabile.

Non dà nulla per scontato, ma anche i leoni temono gli attacchi di gruppo delle iene maculate. Sa della sua forza. Ma è come se sapesse anche che questo è il nostro ultimo appuntamento e quando il suo compito è concluso mi volta le spalle e trotterellando si incammina, di nuovo, lungo una pista di sabbia.

La seguo fino a quando riesco a individuare, sul giallo, la sua sagoma marrone. Eppure, questo non è un commiato. La iena, spietata, segue la direzione che deve seguire, torna nel luogo lontanissimo e inaccessibile da cui allo !Xaus aveva annunciato il suo messaggio. 

In ciò che se ne va, e se ne deve andare, risiede l’intera giustizia del nostro esistere. 

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Del resto, le piste di sabbia di questo lato del Botswana non hanno mai una meta predefinita. Sono possibilità del pensiero e dell’immaginazione.

Ormai, sarebbe quasi una stonatura se i leoni comparissero sotto questo cielo blu e granuloso di nuvole: hanno deciso di non presentarsi, per questo appuntamento i tempi non sono ancora maturi.

E se una pista di sabbia è pura possibilità che qualcosa, prima o poi, accada – l’Ereignis di Heidegger, quegli eventi che chiamano nel luogo che ci è più congeniale e attraverso la reciproca, nuova appartenenza, ci dicono chi siamo – non è poi tanto strano che la domenica della finale della Coppa del mondo di calcio noi si sia invece qui, ad agognare un incontro che non avverrà. 

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Che cosa è, allora, il problema della conservazione? Cosa vuol dire che vogliamo salvare gli ultimi habitat selvaggi del Pianeta?

La spedizione sta per terminare e provo a dare una risposta aggiornata a questa domanda. Sono le due del pomeriggio e siedo sulla terrazza davanti al pan di Polentswa, da sola.

Una coppia di gemsbok attraversa l’isola gialla del Polentswa Pan. Sono più reali di qualunque ricordo dell’Europa io abbia in questo momento.

Penso di nuovo ai grandi musei europei, al fatto che la cultura di massa contemporanea non sappia come integrarli in una visione del mondo e delle cose. Un tempo, almeno per le élites colte, i musei erano motivo di autocompiacimento per l’ingegno umano, ma oggi vivono una solitudine di significato collettivo che invano alcuni vorrebbero sostituire con voci di profitto chiamate intrattenimento e turismo.

I musei condividono, in qualche modo, il destino delle specie in via di estinzione, ridotte a teorie di foto spettacolari esposte nei distretti dell’architettura urbana di extra lusso, come Ark di Joel Sartore a City Life, a Milano. 

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Khali non sapeva ragionevolmente nulla del leone berbero a misura di pubblico, ma non certo perché è un giovane San del Sudafrica. Khali gli animali li incontra, non li guarda come simulacri sul National Geographic.

Per la sua gente, il mito della caverna sarebbe stato impossibile. La verità era ed è nel Kalahari, l’orizzonte del deserto, il ruggito beffardo del leone. Ecco cosa dà a Khali e alla sua gente la misura di ciò che è giusto e di ciò che è finito.

L’Antropocene non sa cosa farsene di Caravaggio, così come gli animali delle “riserve” non hanno più nessuno che li desideri.

Non voglio dire che non ci siano gruppi di pressione e di ricerca, come Panthera, che lottano eroicamente per salvare il salvabile. Ma su scala globale, dentro la testa delle persone comuni che la sera tornano a casa con la metropolitana e poi si guardano una serie su Netflix, la conservazione semplicemente non esiste.

Se le aree protette valgono solo in quanto producono utili nel turismo, allora non hanno realmente un valore proprio, ma solo un valore deciso da altri, a vantaggio di altri. 

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Secondo la Economic Analysis di Statistics South Africa 2018, nel Paese il turismo genera il 2,9% del PIL (dato calcolato sul 2016). Il numero di addetti, in una nazione dove la disoccupazione e la povertà sono rampanti, arriva ad essere il 4,4% del totale: sono 687.00 posti di lavoro, contro gli 874.000 dell’agricoltura.

Eppure, le aree protette sono “budgest-starved”, ossia sotto-finanziare rispetto a quanto occorrerebbe. Nelle riserve cintate con i grossi predatori ( i numeri provengono da Craig Packer), la conservazione costa 3000 dollari americani al kmq; nei parchi non cintati si scende a 2000 dollari americani al kmq.

Ogni anno vengono abbattuti come “trofei” 1500 leoni, con un introito di 1000 dollari americani a kmq. Soldi utilissimi, è innegabile. 

Tutto questo è “dare valore alla natura”?

Forse in parte sì, ma la questione non ha la stessa tonalità se guardata dall’Europa o dal Bostwana, o dal Kgalagadi.

Abbiamo disfatto l’Africa con il colonialismo e adesso proviamo a rimetterla insieme con il turismo-conservazione.

Abbiamo perso il 99% della megafauna europea e allora pretendiamo che i Paesi africani proteggano la loro. Per ammirarla pagando centinaia di dollari al giorno. Non c’è qualcosa che stona in tutto questo?

Non hanno ragione i colleghi di Stephen Kaneli che ascoltano i discorsi sul futuro del leone con la perplessità di chi ha visto accadere di tutto in nome di dinamiche economiche autoreferenziali?

Il dubbio è che queste domande nascondano un forte imbarazzo occidentale. L’ipotesi, in altre parole, piuttosto verosimile, che dietro le nostre certezze matematiche, algoritmiche, statistiche e finanziarie ci sia un resto che non torna.

Un altrove che non riusciamo a raggiungere.

Un residuo che si sottrae, lasciando un alone maledettamente disturbante sulle pagine on line dei nostri magazine. Heidegger chiamata questo altrove sempre presente Lichtung. La radura dell’essere.

Le terre selvagge di Polentswa sono la Lichtung. Ed è soltanto in una radura di questo tipo che un leone, per sempre, sarà un leone. 

“Eppure, l’uomo soltanto può l’impossibile”

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Salire là dove tutto è cominciato. Questo è il sentimento delle due ore di tragitto che conducono dal Nossob Gate a Polentswa. Sopra la sabbia la savana piatta e gialla torna a dar forma all’orizzonte. Nelle valli immense del corso del Nossob, superando Kwang, Bedinkt e Langklaas, lo spazio dei predatori di vertice acquista un significato. La poesia si trasforma nel paesaggio. E viceversa. “Eppure l’uomo soltanto può l’impossibile”, scriveva Goethe.

Nelle conservation area estese quanto il Kgalagadi i leoni sono costretti ad avere range molto più ampi (fino a 1000 Kmq) e pride più piccoli. Il Kalahari, in qualche modo, riesce a sottomettere anche il suo imperatore. I leoni criniera nera qui sono rarefatti e remoti, isolati e autosufficienti.

Puri combattenti contro le minacce che li estingueranno. I leoni svaniranno, come i cespugli dalla savana. Non c’è nulla che li possa descrivere se non loro stessi. Per questo se ne andranno con onore. La loro assenza comincia ad assomigliare ad una strana malinconia, che ha il profilo dell’orizzonte.

Qui il Botswana è sferzato dal gelo invernale. Le pozze artificiali sono scure e solitarie. Le ombre si allungano sulla savana come dita di spiriti antichi, e il giallo ambra dell’erba assorbe la luce fino ad una inconcepibile contrazione di pigmenti luminosi. 

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Una grande acacia, subito dopo Kousant, segna la svolta a destra per Polentswa. Qui la solitudine sembra assoluta. Folle di animali, di iene e di leoni, di leopardi e di ghepardi, affollano l’immaginazione, tanto il desiderio di vederli è deformato dalla nudità del presente.

Da qui in poi, in un tratto di savana a cespugli radi e bassi, il paesaggio sprigiona qualcosa di bellissimo e di spietato. Una famiglia di otocioni spunta dal nulla e corre via spaventata dal motore.

E’ cominciata la salita verso Polentswa Ta Shebube, una morbida collina sopra un pan piatto e monotono come un lago preistorico prosciugato.

Polentswa: il punto di avvistamento a cui l’impero, il Kgalagadi stesso, ha affidato il compito di accendere il fuoco del coraggio e della verità.

Come fu per i fuochi che annunciarono la resa di Troia, accesi in sequenza sulle colline della costa asiatica sino alla rocca di Micene.

Il fuoco di Polentwsa avrà cose spietate da dire.

Gli ultimi chilometri sono in pendenza, e procediamo a venti all’ora. La pista è segnata al centro da una dorsale di sabbia compatta che rischia di intrappolare il nostro suv.

Superiamo l’area per il camping dove le leonesse vanno e vengono, fotografate sulle mappe del Kgalagadi. L’erba è alta quasi quanto un uomo, gli steli sottili come graminacee giganti.

E poi, ecco, sulla sinistra, l’enorme pan di Polentswa. Una isola gialla su un lago più scuro, al centro di una pianura salata piatta e incontaminata.

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Guardo il pan e l’isola gialla dalla terrazza in legno del campo tendato. Presto accenderanno il fuoco, e avrò agio di scambiare racconti di animali con gli altri ospiti. Erik, un fotografo professionista di Pretoria, e un suo amico e collaboratore in questa spedizione, lo scrittore svedese, esperto di specie avicole e Canon ambassador nel 2014, Brutus Östling. La moglie di Brutus, e Mpho Steven Kaneli, il direttore di Polentswa. Siamo in pochi e a questa strana riunione sul futuro parteciperanno anche le tre persone dello staff di Kaneli. 

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E’ come se qui la distanza del tempo e dello spazio avesse licenza di manifestarsi e soprattutto di attraversarsi. Come se ci attraversasse tutto ciò che ci ha preceduti e ci ha resi possibili come esseri viventi qui ed ora.

Goethe lo descrisse così: “Anima del mondo, vieni, spingiti dentro di noi e attraversaci ! (Weltseele komm uns zu druchdringen !).

Molte persone accusano i conservazionisti più tenaci di ambire ad un ritorno impossibile ad una età wild ormai perduta. Queste persone si sbagliano. Una coscienza radicale del tempo ormai trascorso non ammette nessun primitivismo utopico.

Una coscienza vera del collasso biologico ammette solo il principio responsabilità. Non sa che farsene delle utopie. Le rifugge. Le deride.

La constatazione dello stato delle cose ci obbliga invece a considerare il tipo di pressioni evolutive che plasmarono la nostra immaginazione. Spingendoci infine dentro la nostra ultima collocazione tassonomica, Homo sapiens sapiens.

La nostra specie si è evoluta in sincrono con le altre specie e con lo spazio immenso e ostile che gli antenati hanno dovuto conoscere e interpretare per spingersi oltre, e per sopravvivere.

Come dice Andréas Lang “lo spazio non è una area attrezzata per lo sfruttamento o la ricreazione, per le vacanze o le attività all’aperto”. 

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La frugalità ontologica della wilderness ha reso possibile il pensare, l’imparare a pensare.

Le savane gialle e sabbiose di Polentswa non ispirano nessun primitivismo. Non fanno politica. Producono invece la vita. La pongono come problema di cui occuparsi. Dentro lo spirito, dentro la nostra vita.

La ricchissima desolazione del pan a forma di isola davanti a me, in una attesa ferma di qualcosa che pur dovrà accadere, per me come per gli animali. Il richiamo che proviene dal pan, ammorbidito dal vento, questo richiamo che è una invocazione bagnata di tenerezza e disperazione. Disperazione per questi ultimi 500 leoni del Kalahari che non possono contare su nessun benpensante innamorato della crescita economica.

Tutto questo, qui, mi dice: c’erano altre opzioni, ma noi Europei abbiamo scelto di arrivare qui in queste condizioni.

È stata una scelta e di questo dobbiamo prenderci sulle spalle tutto l’onere. 

(Nota: il titolo è un verso di Goethe dalla poesia Das Goettliche, Il Divino)

Qui si capisce il significato della vecchiaia

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(Lo spaccio di alimentari al Nossob North Gate del Kgalagadi Transfrontier Park)

Il Nossob North Gate è un avamposto di collegamento tra il sud del Kgalagadi e la porzione dell’estremo nord del parco. Punto di passaggio, di sosta, di rifornimento. Qui si capisce il significato della vecchiaia.

Il Nossob è anche l’unico accampamento fisso della conservation area in cui è possibile fare benzina e acquistare alimentari adatti alla cucina da campo: minestre liofilizzate, biscotti al burro, pesce in scatola.

La sede del SanParks tiene d’occhio chiunque entri qui. Per accedere al Gate bisogna scendere dalla jeep e aprire il cancello scorrevole che interrompe la fence, la recinzione, lungo l’intero perimetro dell’accampamento. 

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(L’avviso di massima allerta sul cancello di ingresso al Nossob North Gate al Kgalagadi Transfrontier Park)

Uomini e donne con i capelli bianchi, e il corpo ancora scattante di chi è abituato da sempre a dormire all’aria aperta e ai bivacchi improvvisati con cibo di fortuna, si scambiano informazioni davanti alla pompa di carburante Total.

Sono anche loro il popolo del Kgalagadi. Quasi tutti con passaporto sudafricano o tedesco. Gente minimalista, ancorata al proprio entusiasmo. Sessantenni che non danno l’impressione di rimpiangere la giovinezza. Anche loro, in un certo senso, fogli delle terre selvagge e libere.

Quanto è diversa questa senilità brillante e affidabile dalla apatia di moltissimi vecchi in Occidente, che non sanno più che farsene della vita se non masticare medicinali e raccontare tutto dei propri malanni al primo conoscente braccato per via. 

Appena fuori dal secondo cancello del Nossob Gate le forze dinamiche di questo posto allestiscono per noi una ennesima lezione.

In una waterhole artificiale, una aquila Bateleur contende ad uno sciacallo pochi sorsi di acqua. La Bateleur, grossa quanto l’astuto canile dal dorso argenteo, non teme di piegarsi o fratturarsi le ali.

La guardo, la ammiro. Mi viene in mente una pagina di Laurens Van der Post.

“E invero la vita non si limita ad esigere il perdono, ma ci dà l’esempio. La vendetta, la rivincita, la vendicatività, l’odio, sono tutte reazioni del retrogrado vecchio Còrso che è in noi: esse hanno una parte nella immutabile affermazione della vita.

La vita è troppo incalzante e per non immobilizzarsi nella mera azione e reazione, procede. Con la conseguenza che, liberamente, essa perdona”. 

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(Una scaramuccia tra una aquila Bateleur e uno sciacallo attorno a una pozza d’acqua appena fuori il Nosson North Gate)

A volte, il perdono è soprattutto accettazione di una assenza. Aspettiamo il leone a Cubitje, sotto il frullio di ali di decine di colombe del Capo.

Il leone, il protagonista di tutti i racconti antichi, ottocenteschi, sulla Provincia del Capo. Nel nostro secolo anche lui è un racconto, l’informazione di un avvistamento tra Toyota 4×4 e Land Rover su di un tratto di pista sabbiosa.

Ma nessun ingresso nelle terre selvagge ha il diritto di diventare solo una caccia al trofeo. Una ostinazione assoluta a fotografare un grande maschio criniera nera.

Paul Valery era convinto che “una difficoltà è una luce, una difficoltà insormontabile è un sole”. Il fatto che i leoni siano qui attorno, pur non facendosi vedere, permette all’attenzione di concentrarsi sul paesaggio. Sullo spazio. Di tradurlo in una idea concreta.

Questo è il vero privilegio di posti del Kgalagadi. Un privilegio che né il Kruger né il Mara possono più offrire.

Tutte le persone con cui qui ho parlato del Kruger mi hanno dati la stessa risposta: “ormai è sovraffollato”.

I vecchi rampanti che parlano inglese oxoniense e afrikaans del Nossob Gate non sono diventati ciò che sono, quella fibra resistente, intelligente e resiliente di cui sono fatti il loro animo e i loro muscoli, nello spreco di risorse e sentimenti che è oggi il turismo di massa da safari.

La loro lezione l’hanno imparata sotto le stelle. 

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(La pompa di benzina al Nosson North Gate del Kgalagadi Transfrontier Park)

Wittengstein e i biscotti rusks

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Si producono le riflessioni più strambe, la mattina, a zero gradi, bevendo caffè da un termos e mangiando i rusks, i biscotti secchi del Kalahari, con gli occhi bene aperti perché “there’re cats around”, ci sono i felini in giro. Wittengenstein spunta fuori dal nulla. Wittengstein e i biscotti rusks.

Abbiamo parole europee per descrivere i paesaggi del Bostwana? E quelle che abbiamo, sono adeguate?

Dopo lo !Xaus, penso sempre più spesso allo scarto tra gli elementi di cui è fatto il mondo attorno a noi, gli animali, le piante, e la terra di nessuno che gli ominidi hanno dovuto attraversare per sviluppare la capacità di parlare.

Forse osservavamo gli orizzonti africani in una sorta di frattura temporale.

Nel paleo-tempo in cui non eravamo ancora in grado di descrivere paesaggi e savane, e di dirli a modo nostro. Forse questa frattura ha lasciato un segno nello stupore afono con cui, ogni mattina, ci addentriamo in questi territori.

Non riusciamo a dire tutto ciò che vorremmo dire, benché all’alba il Kgalagadi sia ancora con noi, e noi nel Kgalagadi. La struttura logica del Pianeta Terra, cioè le catene di causa-effetto inscritte nei meccanismi chimici e fisici che rendono possibile la vita non possiamo descriverla con un linguaggio altrettanto logico.

Questo lo aveva capito Ludwig Wittgenstein: “Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non può rappresentarlo. Ciò che si esprime nel linguaggio, noi non possiamo esprimerlo per mezzo del linguaggio”. 

In un perenne stato di sospensione, sono gli animali, che compaiono all’improvviso, a ricordarci che non tutto è comprensibile, che, anzi, di ben poche cose possiamo essere certi, e che le ragioni più concrete di ogni nostro presente hanno le loro radici in un luogo lontanissimo.

Ancora una volta è una iena maculata ad annunciare questa legge insondabile, estranea agli assessment sulle specie del Kgalagadi, così sconfortante per noi occidentali che pretendiamo sempre di muoverci a misura chirurgica nelle cose delle vita.

La iena arriva trotterellando, si guarda attorno, perché deve bere. L’infanzia del mondo è il suo luogo lontanissimo, ma anche il mio. La iena viene a prendere la mia infanzia, la riporta a galla, la pone in una nuova narrativa, le cerca un posto migliore.

Anche questo è l’effetto di una mattina in Africa, una filogenesi al contrario, il nastro che si riavvolge.

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Fedele a questa legge, a Melkvlei compare un caracal femmina, la lince del deserto. Sono proprio queste le aspettative frustrate con cui i predatori si prendono gioco del turismo, dei fotografi professionisti, dei giornalisti, delle economia avanzate. Non esiste statistica che possa dare la certezza matematica di incontrare i leoni in un posto come il Kgalagadi.

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Il Kgalagadi è invece un luogo dell’ironia, della radura, dello schiaffo in faccia, un posto dove tutto quello che non puoi avere ti riempie il cervello e l’animo di autentica estasi. 

Non c’è spazio per il fuoco dove c’è il progresso

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“Non c’è posto per il fuoco dove c’è il progresso”. L’accusa più spietata e dolorosa che abbia sentito contro noi Europei al Kgalagadi. Ma il fuoco non era il dono di Prometeo all’umanità intera? Il fuoco non era l’origine della nostra civiltà millenaria?

L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina nel suo ritmo il materiale che va prendendo forma. Così Walter Benjamin intendeva il posto che il nuovo ha nello scorrere delle cose.

La potenzialità dirompente a scompigliare le carte in tavola è una caratteristica del mondo in quanto tale, che si reinventa originando nuovi inizi in stagioni inaspettate.

L’origine, il punto zero di un fenomeno naturale, o di una condizione esistenziale. Non sono mai perdute per sempre. Il loro ritorno è scritto nello sviluppo e nella fisiologia degli organismi viventi. Nei paesaggi scolpiti dal tempo geologico e dal clima.

Anche il principio di ciò che ci circonda lo possiamo incontrare di nuovo.

Questa epifania dell’origine accade a Kamqua, mentre ci apprestiamo a tornare a Gemsbokplein, puntando ad est, verso Kij, in Botswana.

Un ghepardo femmina esce dai cespugli, seguita da due piccoli di 5-6 mesi. Innervosita dalla presenza umana, si allontana sul contrafforte sabbioso, lasciando dietro di sé la sensazione evanescente di qualcosa che presto scomparirà per sempre.

In tutto il continente, i ghepardi in età adulta rimasti allo stato selvaggio sono circa 7000. Secondo le stime del SanParks, nel Kgalagadi ce ne sono 200. Silenziosi e accigliati, sono uno di quei miracoli in estinzione che l’Africa regala senza preavviso. Magnifici, eppure anche molto tristi.

Arriviamo a Rooiputs a metà pomeriggio, dopo ore di pista fatta solo di ghiaia grigia. Non vediamo animali da interminabili ore. Da qui si susseguono, in direzione nord est, i luoghi di avvistamento dei leoni criniera nera. Su questo lato del parco osano avvicinarsi ai campi tendati e annusare l’essere umano da vicino.

Se mai si era scherzato, non si scherza più. Rientro tassativo, di legge, alle 18 e allerta massima. Non si può lasciare il proprio veicolo neppure in caso di incidente. Bisogna chiamare i soccorsi al telefono, se prende, o aspettare che passi qualcuno. E non improvvisare nulla.

Lui ti vede, ma tu non lo vedi. Mai dare le spalle ad un ghepardo.

E a noi un incidente succede. Si buca una gomma. Nei cinque minuti di valutazione del danno, mentre calcoliamo la distanza che ci separa da Rooiputs, una tartaruga attraversa la pista di sabbia. 

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Siamo in Botswana. Nuovo palinsesto. Nuove aspettative. Adesso il paesaggio assomiglia a una boscaglia con intervalli di savana gialla. Le acacie erioloba e mellifera sono assiepate in gruppi rigogliosi. Il cielo, invece, è in balia di una termodinamica fuori controllo.

Verso le cinque, per un paio di minuti, la pioggia del deserto, a grosse gocce, batte sulle tende di Rooiputs. Poi le nuvole scompaiono e l’aria turchese assorbe la luce solare generando uno scintillio dorato. Stormi di canarini gialli volteggiano sui cespugli. Prendiamo una tazza di tè sulla terrazza centrale. Alle pareti, le foto dei leoni che frequentano Rooiputs da diverse stagioni.

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L’ambiente circostante è totalmente cambiato. E anche la lingua è cambiata (il sestwana al posto dell’afrikaans). Il Kgalagadi ha cambiato nome e faccia. Vuole di più.

La lunga mattinata senza avvistare animali mi ha fatto pensare ai musei europei.

Per la prima volta li ho ricordati non come degli scrigni dell’esperienza umana e del genio, ma come delle tombe, dei luoghi di tenebra, dove giacciono ormai spenti, in Antropocene, i tesori del tempo passato.

Sbagliato voler puntare tutto sui leoni. Forse, al punto in cui siamo con i predatori di vertice, sopravviveranno i generalisti opportunisti e versatili. Come lo sciacallo.

Insieme a noi a Rooiputs ci sono un paio di uomini d’affari con passaporto del Bostwana. Il più giovane è ben vestito, con jeans e giacca a vento, il suo collega ha un cappotto color cammello, decisamente troppo elegante e fuori posto.

Entrambi chattano senza sosta su costosi cellulari Huawei. Mi dicono di essere di etnia Katanga, un gruppo Bantu linguisticamente affine agli Shona dello Zimbabwe; lavorano nel commercio di pelli di pecora karakul di razza Swakara. Le comprano in Botswana, le fanno conciare in Namibia e le esportano in Danimarca. 

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Sembrano personaggi non troppo affidabili e può anche darsi che le foto di pellame pregiato che mi mostra il più giovane siano appena state scaricate da Google per mascherare chissà quale altro traffico. Sediamo sulla sabbia attorno al fuoco, nella notte gelida.

Il fumo del legno di acacia è denso e penetrante, gli occhi bruciano. Ma non si può fare altro che asciugarsi le lacrime, per non congelare. I due sono a loro agio, e sorseggiano birra. Poi quello col cappotto di cammello mi chiede: “da voi, lassù in Italia, si sta così davanti al fuoco?”.

Ha un tono ironico, investigativo. Sa già la risposta, probabilmente. E non è lì che vuole arrivare. Gli rispondo di no e allora lui, come se avesse sentito l’odore di una strana, ingrata malinconia, dichiara: “non c’è spazio per il fuoco dove c’è il progresso”.

Il fuoco è lontananza. Il fuoco porta lontano, perché è lontano. E’ sempre altrove, pur essendo sempre presente. E’ il nostro prodigio ancestrale.

La nostra prima malinconia. Il nostro ricordo perenne. La memoria di chi abbiamo perduto e di chi vorremmo poter amare. Il Kagalagadi è il fuoco. Colonna sonora: Always Gold dei Radical Face. 

(Nota: le foto dei ghepardi scattate da Davide Cisterna saranno pubblicate su La Stampa). 

La danza del silenzio del Kalahari

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Il tramonto è fratello della sincerità. Solo al declinare del sole i vecchi fantasmi, mai esausti, vengono a bussare alla porta e reclamano la nostra attenzione. Sarebbe impossibile aspettare il sorgere del nuovo giorno, domani, se non si desse loro udienza.

E così è anche nel Kalahari.

Sono le sei di sera. Siamo su una duna a qualche chilometro dallo !Xaus, di cui intravediamo le capanne, marrone mogano, sul bordo del pan. Con noi è Hendrik, un collega di Khali di poche parole. Si intuisce in lui un animo robusto, duro, piallato sulla pelle e nello sguardo da tutte le avversità che ha visto accadere senza poterci fare nulla.

Un uomo che avrebbe moltissimo da raccontare, ma che preferisce tenerselo per sé. Lo rispetto per questa ritrosia e per la sua coerenza. Ma stasera sento che il suo silenzio è una forma di linguaggio e che ne comprendo la traduzione.

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L’ultima radiazione solare disegna sul veld strisce di rosso corallo che incendiano corridoi di luce sui cespugli blu, spegnendo ogni esitazione, eccitando l’ardore del coraggio, rinnegando ogni dolore.

Non c’è posto per la vigliaccheria in questo momento e noi avremo pochi minuti per ascoltare i nostri fantasmi come un tempo i progenitori di Hendrik facevano con i loro antenati.

Achinua Achebe ne Il crollo così descrive quanto contasse per le genti Yoruba della Nigeria il sentimento di vicinanza con gli antenati: “Il mondo dei vivi non era del tutto staccato dal mondo degli antenati. C’erano spostamenti dall’uno all’altro, soprattutto in occasione delle feste, e anche quando  moriva un vecchio, perché un vecchio era molto vicino agli antenati.

La vita di un uomo, dalla nascita alla morte, era una successione di riti di transizione che lo avvicinavano sempre di più ai suoi antenati”.

Il paradosso di noi Europei, mi pare, è che pretendiamo di parlare di conservazione degli habitat e delle specie facendo finta che la filogenesi sia solo un aspetto della intelaiatura genetica della vita. E non, invece, l’unico modo con cui le forme viventi prosperano sul nostro Pianeta. Noi compresi.

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Nel 2001 uscì sulla PNAS un paper del biogeografo David S. Woodroof, che era stato un allievo di Stephen J. Gould (Declines of biomes and biotas and the future of Evolution).

All’inizio del millennio Woodroof provava a tracciare la mappa della crisi della biodiversità, insistendo sugli aspetti genetici della frammentazione degli habitat e della pressione demografica umana.

“La percentuale di processi evolutivi muterà nei diversi gruppi di specie e la speciazione nei grandi vertebrati può dirsi essenzialmente conclusa.

La densità demografica umana è ora più di 30 volte quella prevista per ogni animale onnivoro della nostra taglia e si stima che ci siamo impossessati di oltre il 40% della produzione netta primaria del Pianeta per i nostri soli scopi”.

La conservazione, a parere di Woodroof, dovrebbe salvare la diversità filogenetica,  in uno scenario a cento anni da oggi su un Pianeta decisamente più caldo e soprattutto con una drastica frammentazione degli ecosistemi ancora integri.

Il problema più grosso, dunque, è la salvaguardia della continuità evolutiva all’interno delle specie: “una delle lezioni della paleontologia è che il range geografico di una specie è un buon indicatore della sua probabilità di sopravvivere ad un evento di estinzione di massa, ad una era glaciale e in generale a massicci cambiamenti ambientali.

Di particolare interesse è la risposta di singole specie al cambiamento climatico e la probabilità che si formino nuovi gruppi di specie analoghi alle ‘comunità disarmoniche’ del tardo Pleistocene.

In passato, singole specie e specie che interagivano tra loro si sono spostate piuttosto che adattate, ma dispersioni di questo tipo non saranno più possibili in futuro”.

Il flusso dei geni (gene flow) diminuirà nelle popolazioni native di un certo habitat.

La “erosione genetica” diventerà una caratteristica inevitabile nelle popolazioni isolate. Proprio come nelle 45 piccole e cintate riserve sudafricane di meno di 1000 chilometri quadrati.

Qui, secondo il National Lion Biodiversity Management Plan del 2015, vivono circa 800 leoni. Il tempo dei grandi mammiferi volge al termine: gli antenati se ne stanno andando. Non c’è più posto neppure per loro. 

IMG_4809(mappa della concessione dello !Xaus nella terrazza centrale del lodge)

Parliamo, io e Hendrik. Parliamo dei Khomani San, disegnando sulla sabbia rossa gli alberi genealogici approssimativi sopravvissuti alla colonizzazione bianca.

A un certo punto cito gli Ottentotti del Capo di Buona Speranza.

Ottentotto è un nomignolo olandese, di tono non di rado dispregiativo, attribuito al gruppo etnico dei Khoin, che parlavano una lingua simile a quella dei San.

Il tratto distintivo della lingua dei Khoin erano i “clic”, tipici suoni avulsivi ignoti ai ceppi linguistici indoeuropei. Oggi gli antropologi usano anche per i Khoin il termine Khoi-San, ma i Khoin non erano i San del Kalahari.

Erano una altra nazione di pastori, che viveva nelle regioni interne tra il fiume Orange e il Gran Nama, o Gran Karoo, un altopiano a sud ovest che sfiora il Kalahari al confine occidentale con la Namibia.

Nei romanzi di Wilbur Smith gli Ottentotti compaiono come fedeli servitori dei bianchi, affidabili e astuti, ma progressivamente sottomessi al conquistatore.

Come fu per i San, le carestie, le necessità di una economia agricola e pastorale in espansione e le politiche razziali del governo coloniale causarono il loro annientamento.

Su di loro Hendrik pronuncia la parola fatale che ancora nessuno ha mai osato pronunciare qui allo !Xaus: “Gli Ottentotti sono estinti”. 

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(mappa della concessione dello !Xaus nella terrazza centrale del lodge)

Estinti. Scomparsi per sempre dalla faccia della Terra. Ridotti a nulla e dissolti in un ordine successivo a loro, che ha deciso di non volerli, di poter fare a meno di loro, che anzi era decisamente meglio rinunciare a loro, tanto ormai non contavano più nell’assetto chiamato Colonia del Capo.

Come il quagga, l’erbivoro simile alla zebra che avremmo potuto incontrare anche qui. Era considerato una peste dagli agricoltori e quindi cacciato per la carne e la pelle.

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(Foto scattata nell’Archivio del Museo di Storia Naturale di Milano durante le mie ricerche preparatorie per la spedizione al Kagalagadi)

L’ultimo quagga allo stato selvaggio morì nel 1870. L’ultimo in cattività allo zoo di Londra nel 1872. Si sono solo 5 foto al mondo di questa specie. Quando ero piccola, un esemplare impagliato dava il benvenuto ai visitatori del Museo di Storia Naturale di Milano.

Estinti come animali, come gli animali. 

Lo sguardo di Hendrik non è rancoroso, è solo colmo di solitudine. Io vedo la sua solitudine. La stessa del leone africano, quando, il giorno prima, avevo mostrato a Khali una fotografia di un leone berbero in cattività fotografato da Joel Sartore nel 2013 allo Pizen Zoo, nella repubblica Ceca.

Khali non sapeva che nei secoli scorsi una sottospecie di leone abitasse le montagne dell’Atlante, nel Maghreb. Storie di vecchi leoni, buone per i pignoli della tassonomia, vecchi leoni finiti nel ripostiglio dell’archeologia, estinti e dimenticati. 

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( una delle lanterne notturne ad energia solare lungo le passerelle in legno dello !Xaus Lodge)

Mostro ad Hendrik una collana che ho trovato nella sabbia, mentre ci arrampicavamo sulla duna da cui osserviamo il tramonto. È fatta di bozzoli di falena, mi spiega, in cui sono stati inseriti dei semi di tsamma, il melone del deserto.

Non è una collana, ma un sonaglio per le caviglie che indossano gli uomini San quando danzano la danza della pioggia.

E comincia a mimare questa danza. Allora, nei suoi passi ritmati, compare l’uomo che Hendrik è sempre dietro il suo silenzio coscienzioso. È ciò che è in una esistenza anni luce dalla mia che però non potrò più dimenticare. Il suo silenzio diventa la sua danza.

La sua danza si scioglie nel tramonto. La mattina successiva, al momento degli addii, gli dirò queste stesse parole, che considero la nostra conversazione un patrimonio per l’eternità. Lui ricambierà la mia stretta di mano, ma, ancora una volta, in silenzio. 

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(Il sonaglio San per la danza della pioggia)

E adesso scendere dalle colline dello !Xaus per tornare sull’Auob è un po’ come riprendere il cammino terrestre dopo aver sentito il sapore dell’eternità.

Sembrava che il lungo come-back in jeep potesse durare per sempre. I chilometri non avevano confini. Noi stessi non avevamo più confini.

Non c’era più dolore, né speranza, né perdita. C’era solo l’aria satura dell’ossigeno che, dopo due milioni e mezzo di anni di evoluzione, scambiava col sangue negli alveoli polmonari, pompando la vita avanti, ancora un po’.

Qui, su queste colline, canta Hoelderlin: “a questo uomo fatto a somiglianza degli Dei fu dato il più pericoloso dei beni, il linguaggio, perché – creando distruggendo cadendo ritornando alla Maestra, alla Madre eternamente viva – testimoniasse il suo essere, l’essere erede, l’avere imparato da lei, divina fra tutte le cose, l’Amore che tutto regge”.

(Dem Götterähnlichen, der Güter Gefährlichestes, die Sprache, dem Menschen gegeben damit er schaffend, zerst örend, und untergehend, und wiederkehrend zur ewiglebenden, zur Meisterin und Mutter, damit er zeugte, was er sei, geerbet zu haben, gelernt von ihr, ihr Göttlichstes, die allerhaltende Liebe). 

Colonna sonora: Ghost Town dei Radical Face.

La civiltà dell’angoscia in cerca dell’aurora

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Durante la notte il richiamo stridulo dello sciacallo sferzava la crosta salata del pan. Lo abbiamo udito distintamente, e poi anche una iena maculata deve aver raggiunto la terrazza della nostra capanna, perché il suo ringhio acuto era vicinissimo e circospetto. La civiltà dell’angoscia in cerca dell’aurora. Ecco chi siamo noi Europei.

Questa mattina esploreremo una regione più interna rispetto alle dune rosse che circondano lo !Xaus. Il paesaggio è avvolgente, sinuoso e forte.

Ci addentriamo in una valle segnata da macchie di cespugli ormai morti. La porzione più bassa del fusto è nera e quasi incenerita dalla siccità.

Intere vallate di erba alta piegata dal vento cambiano colore al solo trascorrere in cielo di una nube. Assomigliano a praterie aperte su cui rare acacie funzionano come bussole improvvisate, ma salde.

Un tasso del miele attraversa improvvisamente il veld. E’ veloce, infastidito e ben deciso a non farsi guardare più a lungo del necessario. La striscia argentea lungo i fianchi, sul manto folto e nero carbone, si staglia luminosa come un fulmine sul veld.

È un attimo, ed è già scomparso. Non tornerà sui suoi passi, è un animale aggressivo e però molto schivo, che riesce a scontrarsi anche con i leoni. In un clima desertico un tasso è pur sempre una preda.

Qui non lo vedevano da anni e la notizia del suo avvistamento è accolta con entusiasmo dallo staff di Anthony. 

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Questo paesaggio libera il pensiero, lo pulisce e inventa dentro le funzioni cognitive del cervello nuovi ordini di conseguenze e cause efficienti. Le valli scivolano via e riemergono come ondulati pendii; un pozzo, con pompa a energia solare e un grosso serbatoio verde smeraldo, è frequentato da uno sciacallo che perlustra il terreno in cerca di insetti.

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Ovunque si insinua il sentimento africano che ogni giorno accade, senza bisogno di essere misurato da un orologio. Più tardi, mentre prendo appunti sulla terrazza dello !Xaus, storici di decine di fringuelli testa rossa si posano sulle strutture in legno del lodge, a pochi metri da me.

Dopo pochi secondi, compatti, riprendono il volo tutti insieme e raggiungono il pan, per poi ricominciare ancora questo stesso movimento ciclico verso lo !Xaus. Per un singolo attimo si posano sulla acacia morta del lago salato, la stessa dove la iena maculata, al tramonto, ripete il suo urlo predatorio.

Sono ipnotizzanti, per via del loro canto incessante e il frullio massiccio di decine di piccole ali invisibili nella macchia rossa carminio delle teste rivolte verso l’aria fresca, in quota, e il sole brillante del mezzogiorno.

Non riesco a fotografarli, non posso fotografarli. Mi sfuggono, perché vengono per salutare e ad un saluto non si può rispondere con una Canon.

I fringuelli testa rossa sono una cosa sola con il vento che martella le orecchie e li sostiene in volo. 

Il vento stesso, in questa parte sud occidentale del Kalahari, ha una voce. 

Dietro le colline decade e poi fischia improvvisamente, come se tornasse finalmente a casa. Modellato dal vento, lo spazio si espande e si contrae e poi si distende di nuovo seguendo il profilo geografico del paesaggio.

Passiamo ore, nel primo pomeriggio, ad osservare gli alcelafi rossi (Harteebest) che seguono piste scavate dagli zoccoli giorno dopo giorno sul pan rosso.

Bevono tutti insieme, e poi, adempiuto al loro compito, si disperdono. Una coppia di struzzi li fissa dal bordo del pan. La tranquillità di questa ora meridiana è così immobile da sembrare, nell’udito e nella vista, una incarnazione della solitudine.

Ma è solo un miraggio, una ruggine europea, perché qui la solitudine non esiste, neppure quando la senti nel fondo del tuo animo perché si è infilata nella valigia. 

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Qualche giorno fa, abbiamo visitato un piccolo laboratorio di manufatti San. Il profilo di un grosso felino, un leopardo o una leonessa, decorava il guscio eburneo di un uovo di struzzo, l’avorio dei San.

Le suppellettili decorative rispondono ad un bisogno antico degli esseri umani. Noi in Europa abbiamo imparato a costruire anche dei sentimenti artificiali negli ultimi tre secoli. Danni collaterali della nostra espansione economica. L’ansia, ad esempio.

Qui nel Kalahari l’ansia non c’è. C’è solo la paura, quando serve e quando capita. ad esempio faccia a faccia con un leone o un leopardo.

L’ansia è civile, urbana, salottiera. Prende il tè alle cinque del pomeriggio, vive di ignoranza su di sé e gode della propria inutilità. La paura invece ha uno scopo e non tormenta oltre misura il cuore dell’uomo.

Lo trafigge, lo uccide, lo fa a pezzi, ma non approfitta della debolezza della nostra intelligenza, quando tentiamo di trovarle un accordo con i nostri sensi.

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L’Europa del XVII secolo, della Amsterdam di Rembrandt, delle pellicce di visone russo, della pittura a olio di lino, dei commerci transoceanici in mano a borghesi finalmente ricchissimi, ha creato la civiltà dell’angoscia.

Non penso sia casuale che un danese figlio di un uomo d’affari molto rispettabile che speculava sulle piantagioni di canna da zucchero, e sugli schiavi africani, nel Nuovo Mondo, Soeren Kirkegaard, abbia infine elaborato con dignità filosofica questo inedito sentimento dell’Europa rapace e geniale: l’angoscia.

Proprio mentre il colonialismo si affermava come forza capace di eradicare modi di essere Homo sapiens non occidentali. Figure spirituali come l’angoscia non possono che essere consustanziali ad una civiltà radicalmente urbana, avanzata nelle sue pretese di comprensione concettuale della realtà, disperatamente fantasiosa nelle sue creazioni artistiche.

Sarà pur vero che Ernst Cassirer, con la sua cultura enciclopedica orgoglio dei benpensanti di Amburgo, e della Germania del Kaiser, rappresentava l’acme della erudizione occidentale, ma l’angoscia di una civiltà sempre più consumata dalla potenza dei propri successi spalancò l’abisso su noi tutti.

Non sempre conoscere tutto spalanca le porte alla concreta possibilità della felicità.

I San, dice Laurens Van Der Post, intendevano questa possibilità come uno stare dentro le proporzioni: “Il boscimane, ovunque andasse, conteneva in sé la simmetria della terra, e ne era profondamente contenuto.

Il suo spirito era logicamente simmetrico perché, spostandosi sulla corrente di una istintiva certezza di appartenenza, egli rimaneva nell’ambito delle proporzioni assegnategli dal fato.

Prima che noi tutti giungessimo a frantumare la sua condizione naturale, non mi risulta in alcun modo certo ch’egli avesse trasceso le proprie proporzioni”. 

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Per questo motivo qui, nel Kalahari, e in Sudafrica, fu sconfitto, perché coloro che hanno vinto la partita non avevano proporzioni. Noi stessi siamo giunti qui da un posto lontanissimo, ma in modo nient’affatto simile al luogo remoto annunciato dalla iena sotto le stelle.

Heidegger chiamava questo luogo, che corrisponde al nome del nostro Paese di origine sul passaporto, metafisica. La formidabile tragedia del vincitore globale veniva recitata nel teatro di Dioniso, ad Atene, ma è soltanto qui allo !Xaus, e cioè in Africa, al culmine dell’Antropocene, che te ne puoi accorgere.

La metafisica è la decisione conscia e consapevole di dar corso alla volontà costi quel che costi. È la storia del dominio del modello occidentale del Pianeta, fino al cambiamento climatico e alle 410 ppm di CO2 in atmosfera e agli ultimi 20mila leoni dell’Africa.

È la storia dell’angoscia e di queste figure spirituali inaudite, distruttive, spuntate come sottoprodotti del genio urbano europeo, che Freud, in una Vienna non troppo diversa dalla Amburgo di Cassirer, definiva disagio della civiltà.

Il teatro di Dioniso è il nostro luogo lontanissimo in cui abbiamo cominciato a contemplare fin dove poteva condurci la abilità di costruzione di nicchia. 

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Ma allora, che cosa ne è della conservazione se siamo al termine di un percorso inevitabile?

Occorrerebbero migliaia di posti come la concessione dello !Xaus, come il Kgalagadi, per proteggere almeno metà del Pianeta. Ma non solo in virtù delle caratteristiche ecologiche di queste valli. Qui sembra di intravedere il bisogno di andare oltre i presupposti, ormai secchi, dell’Occidente.

Si sente il bisogno di rinnegare l’eredità del vincitore.

Povera di una alternativa già eloquente, già soddisfacente, non posso fare altro che leggere, ad alta voce, la mattina presto, davanti al pan, un passo di Nietzsche: 

“Chi, anche solo in una certa misura, è giunto alla libertà della ragione non può più sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale, perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tenere gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano tutte le cose nel mondo;

perciò non potrà legare il suo cuore saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà (…) Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa ora meditabonda sono viandanti e filosofi.

Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamene sereno: essi cercano la filosofia del mattino”. 

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( la citazione da Nietzsche proviene da Umano troppo umano I, edizione Adelphi del 1965, capitolo 2, paragrafo 638, pp. 304-305)

Gli animali sono persone della più antica razza

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“Gli animali sono uomini della più antica razza”. E’ una massima San. Nonostante la loro saggezza, i cacciatori raccoglitori furono spazzati via dall’Africa australe da un blend di fattori storici, molto inquietanti se esaminati da vicino.

Questi driver mostrano che un unico modello culturale ed economico, di matrice europea-occidentale, ha finito col prevalere a livello planetario per gli stessi motivi che determinano oggi il collasso ecologico.

Se il vincitore non fosse a sua volta un perdente, non saremmo questa mattina. Se chi, con le sue azioni, non ha spazzato via i la civiltà San per consegnare alla propria il disastro ecologico, non saremmo qui insieme a Khali, sulle colline spazzate di luce dello !Xaus. 

All’aeroporto di Upington sono esposte tavole del SASA (South African San Institute) che raccontano la storia dei San. “Le pratiche culturali seguite fino a poco tempo fa dai cacciatori raccoglitori dell’Africa del Sud sono attestate a partire da 25mila anni fa”.

In seguito, circa 2500 anni fa, gruppi di San chiamati Khoe-Khoe “acquisirono l’abilità di allevare animali. Emigrarono in Sudafrica, portando con loro la pastorizia e una organizzazione sociale diversa dai San”.

I San, da parte loro, non divennero semi-sedentari e continuarono a vivere delle risorse del deserto. 


I Khoe-Khoe comprendono tre popoli attualmente ancora presenti in Repubblica Sudafricana: i Nama, i Griqua e i Korana. Furono due gli avvenimenti che infine decisero del destino dei San. L’invasione Bantu (circa 1800 anni fa) e l’arrivo dei coloni bianchi a partire dal 1652.

Sono Bantu i gruppo etnici neri che oggi comprendono la maggior parte della popolazione sudafricana: Zulu, Xhosa e Tswana. I Bantu erano pastori di bovini e agricoltori ed entrarono in competizione con i nomadi del deserto, i San appunto.

Secondo Laurens Van der Post, sul boscimane si riversava un tipo particolare di disprezzo razzista poiché “i valori europei erano talmente legati al possesso e ad altri aspetti materiali che forse i nuovi venuti trovavano una base comune nel fatto che l’Ottentotto ( NdR: una ulteriore etnia presente nella colonia del Capo) aveva un concetto obiettivo della proprietà”. 

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Le persone di etnia San con cui parliamo qui allo !Xaus sono gli epigoni di rivolgimenti storici molto profondi, che compressero e alterarono il mosaico antropologico originario del Kalahari tra Namibia e Sudafrica.

“Secondo le fonti storiche orali, c’erano diversi gruppi San nel Kalahari meridionale. La popolazione numericamente più consistente si riferiva a se stessa come home people o Sasi, un terminale generale per boscimani San.

Nel 1911 e 1936 i ricercatori europei identificarono il gruppo dominante San nel Kalahari meridionale come Khomani-San. I contigui gruppi San includevano gli Anni e i Khattia.

Ad essi vennero aggiunti i Namani ( i boscimani di alta statura) e gli Hanaseb (Kruipers), ossia San che provenivano dalla Namibia e che parlavano lingue Nama”. 

!Xaus è una parola Nama: significa “cuore”. 

L’ecosistema del Kalahari contiene ancora i frutti del deserto necessari per sopravvivere, uomini e animali, in un clima così secco e duro. Le foglie ad alto contenuto proteico della Acacia erioloba, nutrono i bovini nei giorni peggiori della stagione secca.

Lo tsamma, il melone del deserto, dalla polpa ricca di acqua, disseta gli sciacalli e gli esseri umani quando non piove per mesi. Dai suoi semi si ricava una farina adatta alla cottura.

Un tempo, ricorda Van Der Post, la donna boscimane del Kalahari portava sempre con sé “un grosso pestello e un mortaio per ricavare farina da noci, semini di leone, erba, nonché per polverizzare la carne secca destinata ai bambini privi di denti e ai vecchi”.

La sabbia nasconde frutti e vegetali: tuberi simili a carote e barbabietole, patate, porri, patate dolci e “carciofi”, cetrioli dalla buccia spinosa. Khali ce li indica. 

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Per noi Europei il bisogno di catalogare coincide da secoli con l’aspirazione alla conoscenza. A partire da Linneo, la tassonomia esige di porre ordine nella cornucopia biologica del Pianeta.

Fornire ogni pianta o animale di un nome, che lo connetta al resto dei viventi, lungo linee di parentela sempre più esatte e precise, è indispensabile per potersi appropriare della vita.

La catalogazione ha sempre funzionato per noi come un mettere-in-una-categoria. Per noi Europei, la volontà di far appartenere le specie animali e vegetali a categorie di pensiero ha significato sì conoscere a fondo le ragioni fisiologiche, chimiche, fisiche delle specie, ma ci ha allontanato irreparabilmente dal modo in cui esse stanno sul Pianeta a prescindere da noi.

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Forse i cacciatori raccoglitori disponevano di una conoscenza del paesaggio e dei suoi elementi che non aveva lo scopo recondito di possedere, poiché non volevano possedere il deserto o i suoi animali.

Hans Georg Gadamer riteneva che l’intero Occidente fosse pervaso dal problema della volontà. Nel medioevo, che cosa era lecito volere nei confronti dell’onnipotente. E poi nel Rinascimento quali fossero le conseguenze di un volere capace di plasmare ogni aspetto della realtà.

Nel violento e artistico Seicento e poi nella Modernità sempre più laica del post 1789 quali fossero i limiti di una volontà che sembrava già onnipotente. Indubbiamente, oggi vogliamo tutto, anzi, abbiamo già preso tutto.

Ma quale è, allora, il nostro ruolo in Antropocene? Non si presentano risposte, qui allo !Xaus. Più più le cerco, più sfuggono. Il sole riprende ad ardere, vanificando la nebbia, e sembra di assistere per la prima volta all’alba del mondo. 

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Una aurora senza parole – non riusciamo ad averne per impossessarci del nostro sguardo sulle dune – simile però alla trama sottile della rugiada sui cespugli.

Estremamente fragile, una continuità lontanissima nel tempo, la cui origine è perduta solo perché è eterna. Questa fragilità è un legame forte come un tendine di springbok e questo legame è una continuità. Noi umani riusciamo a non essere profughi solo quando custodiamo una continuità con il passato.

C’è una frase di Hegel che ho sempre trovato così inquietante, perché è dannatamente vera e ad annunciarne la verità è un animale: “è solo nel crepuscolo che la civetta di Minerva comincia il suo volo”.

Quella sera, allo !Xaus, un gufo ci attendeva al principio delle tenebre. 

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(Nota: il titolo è un detto San riferito da Laurens Van Der Post)

Lo !Xaus nella nebbia del cambiamento climatico

(La !Xaus Community al mattino, avvolta in una nebbia umida e spessa, del tutto inusuale in stagione secca)

Il grido della iena maculata sul pan che si estende, tondo come un cratere lunare, dinanzi allo !Xaus Lodge, annuncia che i messaggeri sono ormai alle porte. Ed è sul clima del Pianeta che portano un messaggio, stavolta. La !Xaus Community nella nebbia del cambiamento climatico. Una nebbia del tutto inusuale in stagione secca.

Siamo svegli dalle 6. Bisogna incamminarsi molto presto per una esplorazione a piedi sulle colline, insieme alla nostra guida San, di nome Khali, un giovane non ancora trentenne. Khali ha lo sguardo acuto dei cercatori di tracce.

Ho con me Il mondo perduto del Kalahari, di Laurens Van Der Post, un altro libro dimenticato in Italia, e forse in Europa. Questo libro racconta gli ultimi anni, attorno al 1950-1960, in cui nel Kalahari centrale gruppi superstiti di San vivevano ancora la vita strappata loro dai genocidi ottocenteschi.

Questo libro non è in stile National Geographic: maestoso, accattivante e competitivo. È invece zeppo di sensibilità europea, quel genere di sguardo indagatore sulle pieghe riposte del mondo che si affina sulla letteratura.

Più ci affidiamo a Khali per scandagliare le colline e le dune attorno a noi, più comprendo che cosa intendesse Van der Post, un sudafricano bianco, quando affermava che “il boscimane autentico è contenuto nei ritmi delle stagioni”. 

Per le nazioni non bianche e non bantu di questa porzione di Africa australe il clima non era un superfluo elemento naturale, che si può scegliere di ignorare anche quando evidenze inoppugnabili ne dimostrano l’alterazione a causa dell’uso dei combustibili fossili.

Il clima non era cioè una risorsa, bensì, molto più semplicemente, una condizione del Kalahari che avvolge gli esseri viventi del deserto, compenetrandosi i loro ritmi vitali.

Ma questa mattina qui allo !Xaus abbiamo una prova del fatto che il clima sta già cambiando anche nel Kalahari. L’estate del 2018 è stata tra le più torride degli ultimi quindici anni, per il numero di Paesi che hanno dovuto fronteggiare temperature ben più alte della media del periodo.

L’Artico si riscalda ed è questo a rendere le ondate di calore in ogni parte del mondo sempre più estreme, avverte uno studio appena pubblicato su NATURE Communications (The influence of Arctic amplification on mid-latitude summer circulation).

Stamattina lo !Xaus è avvolto da un nebbia pesante e ghiacciata che rende invisibile il pan sotto di noi. Il veld delle colline è coperto da una spuma bianca, l’umidità eccessiva, ostile alla sabbia, bagna cattiva il camminamento in legno che collega la nostra capanna alla terrazza centrale. 

Anthony mi spiega che “la nebbia è assolutamente inusuale qui, non la vedevamo da tre anni. Il tempo, non c’è un giorno uguale all’altro, ieri nel primo pomeriggio ha piovuto”.

E non aggiunge altro, perché siamo in stagione secca. Usciremo comunque a piedi, benché, avverte Khali, “il leone non ami la nebbia. Non vede bene in lontananza a causa della foschia e quindi è innervosito in una mattina come questa”.

Le istruzioni sono sempre le stesse. Se ce lo troviamo davanti, rimanere immobili. Lo !Xaus del resto non ha nessun tipo di recinzione, te lo ripetono di continuo, e Anthony, con il suo inglese sporcato di accento puro afrikaans, ci fa dell’ironia continua.

È un uomo di una cinquantina di anni, alto almeno un metro e novanta, con i capelli bianchi e gli occhi azzurri come il ghiaccio.

Eppure, anche lui è un piccolo uomo dinanzi alla immensità delle colline, dei pan e dei loro predatori, liberi, una immensità che resiste, si oppone, persiste da sola, senza di lui, e senza di noi, anche se lui è sudafricano di Pretoria.

La sua ironia è come un atto di rispettosa sottomissione, di sorridente abdicazione, a ciò che ancora è selvaggio sul Pianeta.

Anthony appartiene allo !Xaus, e invece lo !Xaus appartiene solo a se stesso, ed è per questo che il loro amore reciproco è possibile. 

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Il pride di leoni che si muove qui attorno da almeno 4-5 anni è stato studiato e monitorato dal Kgalagadi Lions Project, che si è concluso nel 2014. Nessun turista, nessun ricercatore è mai stato aggredito.

Le foto dei leoni dello !Xaus, scolorite dal succedersi dei giorni, sono appese sulla terrazza centrale. Di ogni nuovo nato e di ogni adulto ci sono date e nomi propri.

Questi felini sono amici di cui si ricevono sporadiche, ma affettuose notizie nel corso dei mesi, notizie che arrivano dalle scorribande in Botswana, oltre l’Auob, lungo il Nossob, e poi a nord, fino a Grootkolk e il Kaa Gate, in Botswana.

Chiunque raggiunga lo !Xaus è interrogato su di loro, perché qui nel Kgalagadi le informazioni sugli animali sono raccolte attraverso il passa parola, lo scambio di indicazioni sugli avvistamenti. 

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(I leoni della !Xaus Community)

Su un territorio di 38mila chilometri quadrati, vasto quanto l’Olanda, ogni segnalazione è fondamentale per capire, e registrare, lo stato delle popolazioni. Ti chiedono di prender nota di cosa vedi anche i provider, come Expert Africa, di Londra, che offrono supporto logistico alla organizzazione del viaggio. I San, però, essendo i migliori cercatori di tracce del Kalahari, lavorano non di rado con i ricercatori esperti di leoni, come ad esempio gli uomini di Panthera. 

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(I leoni della !Xaus Community)

Lo scorso novembre, 4 leoni si sono presentati di nuovo allo !Xaus; almeno 30, poi, sono stati visti a Mata Mata, a nord, un punto nevralgico, a circa un paio di ore di jeep da qui. Anche per i leoni del Kalahari risuona, reperto fossile sonoro, onda acustica leggerissima sul veld, il saluto dei boscimani San: “Buongiorno. Ti ho visto da lontano, e sto morendo di fame / Buongiorno ! Ero morto, ma ora che siete venuti, vivo di nuovo”. 

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(I leoni della !Xaus Community)

Mentre avanziamo sulla sabbia granulosa, lucida, che si sgrana tra le dita, la nebbia mi ricorda una altra oscurità, che pose le fondamenta del moderno spirito europeo, l’oscurità del UrFaust di Goethe.

“E conoscessi il mondo, che cos’è / che lo connette nell’intimo / tutte le forze che agiscono, e i semi eterni, vedessi / senza frugare più tra le parole”.

Lo abbiamo fatto. Non frughiamo più tra le parole. Il nostro intendimento, la nostra volontà non può più assomigliare al tenue aggrapparsi di gocce di nebbia su di una ragnatela nel deserto.

Era troppo poco per Faust, contemplare la bellezza del mondo. Gli abbiamo dato ascolto.

Fino a camminare nella nebbia, nel Kalahari, in pieno luglio 2018. 

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