“Gli animali sono uomini della più antica razza”. E’ una massima San. Nonostante la loro saggezza, i cacciatori raccoglitori furono spazzati via dall’Africa australe da un blend di fattori storici, molto inquietanti se esaminati da vicino.
Questi driver mostrano che un unico modello culturale ed economico, di matrice europea-occidentale, ha finito col prevalere a livello planetario per gli stessi motivi che determinano oggi il collasso ecologico.
Se il vincitore non fosse a sua volta un perdente, non saremmo qui questa mattina. Se chi, con le sue azioni, non ha spazzato via i la civiltà San per consegnare alla propria il disastro ecologico, non saremmo qui insieme a Khali, sulle colline spazzate di luce dello !Xaus.
All’aeroporto di Upington sono esposte tavole del SASA (South African San Institute) che raccontano la storia dei San. “Le pratiche culturali seguite fino a poco tempo fa dai cacciatori raccoglitori dell’Africa del Sud sono attestate a partire da 25mila anni fa”.
In seguito, circa 2500 anni fa, gruppi di San chiamati Khoe-Khoe “acquisirono l’abilità di allevare animali. Emigrarono in Sudafrica, portando con loro la pastorizia e una organizzazione sociale diversa dai San”.
I San, da parte loro, non divennero semi-sedentari e continuarono a vivere delle risorse del deserto.
I Khoe-Khoe comprendono tre popoli attualmente ancora presenti in Repubblica Sudafricana: i Nama, i Griqua e i Korana. Furono due gli avvenimenti che infine decisero del destino dei San. L’invasione Bantu (circa 1800 anni fa) e l’arrivo dei coloni bianchi a partire dal 1652.
Sono Bantu i gruppi etnici neri che oggi comprendono la maggior parte della popolazione sudafricana: Zulu, Xhosa e Tswana. I Bantu erano pastori di bovini e agricoltori ed entrarono in competizione con i nomadi del deserto, i San appunto.
Secondo Laurens Van der Post, sul boscimane (il San) si riversava un tipo particolare di disprezzo razzista poiché “i valori europei erano talmente legati al possesso e ad altri aspetti materiali che forse i nuovi venuti trovavano una base comune nel fatto che l’Ottentotto ( NdR: una ulteriore etnia presente nella colonia del Capo) aveva un concetto obiettivo della proprietà”.

Eppure, la storia dei cacciatori-raccoglitori del Kalahari è uno dei motivi per cui vale la pena attraversare il Kgalagadi.
Le persone di etnia San con cui parliamo qui allo !Xaus sono gli epigoni di rivolgimenti storici molto profondi, che compressero e alterarono il mosaico antropologico originario del Kalahari tra Namibia e Sudafrica.
“Secondo le fonti storiche orali, c’erano diversi gruppi San nel Kalahari meridionale. La popolazione numericamente più consistente si riferiva a se stessa come home people o Sasi, un terminale generale per boscimani San.
Nel 1911 e 1936 i ricercatori europei identificarono il gruppo dominante San nel Kalahari meridionale come Khomani-San. I contigui gruppi San includevano gli Anni e i Khattia.
Ad essi vennero aggiunti i Namani ( i boscimani di alta statura) e gli Hanaseb (Kruipers), ossia San che provenivano dalla Namibia e che parlavano lingue Nama”.
!Xaus è una parola Nama: significa “cuore”.
L’ecosistema del Kalahari contiene ancora i frutti del deserto necessari per sopravvivere, uomini e animali, in un clima così secco e duro. Le foglie ad alto contenuto proteico della Acacia erioloba, nutrono i bovini nei giorni peggiori della stagione secca.
Lo tsamma, il melone del deserto, dalla polpa ricca di acqua, disseta gli sciacalli e gli esseri umani quando non piove per mesi. Dai suoi semi si ricava una farina adatta alla cottura.
Un tempo, ricorda Van Der Post, la donna boscimane del Kalahari portava sempre con sé “un grosso pestello e un mortaio per ricavare farina da noci, semini di leone, erba, nonché per polverizzare la carne secca destinata ai bambini privi di denti e ai vecchi”.
La sabbia nasconde frutti e vegetali: tuberi simili a carote e barbabietole, patate, porri, patate dolci e “carciofi”, cetrioli dalla buccia spinosa. Khali ce li indica.

Per noi Europei il bisogno di catalogare coincide da secoli con l’aspirazione alla conoscenza. A partire da Linneo, la tassonomia esige di porre ordine nella cornucopia biologica del Pianeta.
Fornire ogni pianta o animale di un nome, che lo connetta al resto dei viventi, lungo linee di parentela sempre più esatte e precise, è indispensabile per potersi appropriare della vita.
La catalogazione ha sempre funzionato per noi come un mettere-in-una-categoria. Per noi Europei, la volontà di far appartenere le specie animali e vegetali a categorie di pensiero ha significato sì conoscere a fondo le ragioni fisiologiche, chimiche, fisiche delle specie, ma ci ha allontanati irreparabilmente dal modo in cui esse stanno sul Pianeta a prescindere da noi.

Forse i cacciatori raccoglitori disponevano di una conoscenza del paesaggio e dei suoi elementi che non aveva lo scopo recondito di possedere, poiché non volevano possedere il deserto o i suoi animali.
Hans Georg Gadamer riteneva che l’intero Occidente fosse pervaso dal problema della volontà. Nel medioevo, che cosa era lecito volere nei confronti dell’onnipotente. E poi nel Rinascimento quali fossero le conseguenze di un volere capace di plasmare ogni aspetto della realtà.
Nel violento e artistico Seicento e poi nella Modernità sempre più laica del post 1789 il dilemma della volontà consistette invece nel cercare di capire quali fossero i limiti di una volontà che sembrava già onnipotente. Indubbiamente, oggi vogliamo tutto, anzi, abbiamo già preso tutto. Sono queste la radici della sesta estinzione. Capire che cosa è la sesta estinzione vuol dire addentrarsi nelle pagine oscure della storia occidentale.
Ma quale è, allora, il nostro ruolo in Antropocene? Non si presentano risposte, qui allo !Xaus. Più più le cerco, più sfuggono. Il sole riprende ad ardere, vanificando la nebbia, e sembra di assistere per la prima volta all’alba del mondo.

Una aurora senza parole – non riusciamo ad averne per impossessarci del nostro sguardo sulle dune – simile però alla trama sottile della rugiada sui cespugli.
Estremamente fragile, una continuità lontanissima nel tempo, la cui origine è perduta solo perché è eterna. Questa fragilità è un legame forte come un tendine di springbok e questo legame è una continuità. Noi umani riusciamo a non essere profughi solo quando custodiamo una continuità con il passato.
C’è una frase di Hegel che ho sempre trovato così inquietante, perché è dannatamente vera e ad annunciarne la verità è un animale: “è solo nel crepuscolo che la civetta di Minerva comincia il suo volo”.
Quella sera, allo !Xaus, un gufo ci attendeva al principio delle tenebre.

(Nota: il titolo è un detto San riferito da Laurens Van Der Post)
(Foto in copertina: scultura zoomorfa Khomani San fotografata all’aeroporto di Upington).
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