Il Global Biodiversity Framework (GBF) firmato a Montreal segna il fallimento di un impegno durato 30 anni. Il tentativo della civiltà umana globale di trovare un nome per la Terra. Di pensare un Pianeta al di fuori delle regole e degli schemi del capitalismo moderno.
L’accordo sottoscritto dalle parti il 19 dicembre non è giuridicamente vincolante. Si basa esclusivamente sulla “buona volontà e sulle buone intenzioni” dei Paesi che sceglieranno di tradurne in realtà i diversi capitoli. Molti Paesi africani e i movimenti per la protezione dei popoli nativi e indigeni hanno contestato il target del 30% di aree protette entro il 2030. “Il GBF avrebbe dovuto definire un importante piano d’azione per la ‘protezione della natura’ fino al 2030”, ha reso noto in un comunicato stampa di SURVIVAL. “Tuttavia, non è riuscito a compiere il passo coraggioso necessario per proteggere davvero la natura, ovvero riconoscere che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e che il modo migliore per proteggere la biodiversità è quello di proteggere i loro diritti territoriali”. Eppure, anche questa constatazione non centra del tutto il bersaglio.
La nozione classica di “conservazione” non include i Nativi. E neppure la “giustizia climatica” o una riflessione sulle conseguenze del colonialismo. Conservate sono, storicamente, le aree protette o i parchi nazionali chiusi alle attività umane. È la natura “intatta”, considerata da molti una astrazione ideologica di stampo razziale risalente all’Ottocento. Negli ultimi anni, però, l’appello alla conservazione delle cosiddette “regioni ancora selvagge” ha suscitato l’approvazione di quanti ritengono che, proprio in questo momento storico di debordante strapotere umano, sia più che legittimo lasciare alle altre specie almeno una parte del Pianeta.
IMAGINE, la newsletter tematica di THE CONVERSATION (in un post firmato da Jack Marley, energy and environment editor) ha messo in discussione la presunta portata “storica” dell’accordo di Montreal. “In che modo la Storia ricorderà questo accordo? Come un punto di svolta nella relazione distruttiva dell’umanità con la natura? O soltanto come un altro passo avanti su una traiettoria funesta verso la rovina ambientale?”. Scetticismo motivato, secondo Marley, dalle inquietanti proiezioni di uno studio appena uscito su SCIENCE: “Coextinctions dominate future vertebrate losses from climate and land use change”.
Il paper affronta la questione delle “co-estinzioni”, ossia delle estinzioni che seguono e affiancano la scomparsa di altre specie con cui un tempo condividevano l’habitat e, di conseguenza, strette relazioni ecologiche. Il concetto di co-estinzione completa quello di defaunazione. “C’è crescente consapevolezza della importanza delle interazioni tra specie diverse: la biodiversità è sempre più capita come un insieme di comunità naturali complesse. Per questo la perdita di biodiversità è ben rappresentata da un effetto di amplificazione delle estinzioni primarie (NB le estinzioni causate da un fattore a più grande impatto, come ad esempio la cancellazione di habitat e il cambiamento climatico) attraverso i network ecologici. La co-estinzione – la perdita di specie motivata dagli effetti diretti o indiretti di altre estinzioni – è ora riconosciuta come un contributo fondamentale al crollo della diversità biologica globale”.
Le co-estinzioni aiutano a capire che cosa è la sesta estinzione di massa. Una condizione pervasiva, ubiqua e diacronica dell’assetto biologico del Pianeta.

Il “Kunming-Montreal global biodiversity framework” (un altra definizione del GBF) tiene conto di questo scenario, che secondo gli autori potrebbe portare ad una perdita di specie di vertebrati terrestri del 30% entro il 2100?
I dubbi e le perplessità a riguardo sono immani.
Ciò che la CBD non ha fatto, e che non può fare, è riconoscere che la concezione della natura di cui parla è occidentale. I Nativi incarnano una visione diversa della realtà. E quindi caricata di significati attribuiti e assorbiti dalle specie animali e dai paesaggi del Pianeta che non hanno nulla a che spartire con gli apparati di estrazione razionale del profitto usciti dal pensiero moderno a partire dal Cinquecento. Per Amitav Ghosh questa dissonanza originaria di pensiero consiste nel fatto che nelle culture native gli animali, gli alberi, le colline, i vulcani, le montagne, la terra “producono significato”.
Ammettere che la conservazione stessa è una conseguenza di una visione “onnicida” del Pianeta, un altro termine di Amitav Ghosh, sarebbe come sconfessare il valore mainstream della nostra civiltà. Non ci sono, quindi, in gioco solo enormi interessi geopolitici e finanziari, nel mantenere saldo un paradigma che non è esplicativo dell’umanità tutta, ma solo di una parte di essa.
Ecco perché persiste una ambiguità di fondo nel documento finale di Montreal, nonostante qualche incerto passo avanti, sottolineato da SURVIVAL: “ora, infatti, una sezione introduttiva (la sezione C) chiarisce che, per l’attuazione del Quadro, il nuovo piano deve garantire che i diritti, le visioni del mondo, i valori e le pratiche dei popoli indigeni e delle comunità locali siano rispettati, in linea con la Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni”. Nessuno sa come, dove e attraverso quali procedure di implementazione il pensiero non occidentale possa essere integrato in una economica mondiale capitalista, che fattura sulla natura e sugli animali.
Con il summit di Montreal crolla di fatto il significato della Convenzione. La CBD non può fornire le risposte che gli esseri umani attendono o temono sul futuro della biosfera. Il vizio di forma è che senza una idea (un concetto) di Pianeta, senza un nome per la Terra, non può esserci neppure un accordo che gli ecosistemi li protegga. La CBD ha un difetto congenito. Scritto nel preambolo del documento di battesimo della Convenzione stilato nel 1992: “le Parti sottoscriventi, consce dell’intrinseco valore della diversità biologica”. La biodiversità non è il contesto vitale delle specie di questo Pianeta (uomini, animali, piante, alberi). È piuttosto una dimensione fisico-biologica che può essere descritta in termini di valore. Una “natura eco-funzionale”.
Sulla incapacità della Convenzione di trovare un posto per gli esseri viventi non umani nella civiltà del XXI secolo Bram Büscher (Wagenigen University, autore del libro The Truth about Nature e fondatore del gruppo di ricerca CONVIVIAL CONSERVATION) e Rosaleen Duffy (University of Sheffield, una esperta di fama mondiale sulla “conservazione fortezza” di stampo neo-coloniale) hanno firmato un editoriale tagliente e onesto sempre su THE CONVERSATION. La loro è una voce fuori dal coro.
“Il vero problema non è mai incluso nel negoziato. Anche se il 30% della Terra fosse protetto, come, alla prova dei fatti, eviterebbe la perdita di biodiversità? La proliferazione della aree protette è avvenuta nello stesso periodo (a partire dagli anni ’60) in cui la crisi di estinzione andava intensificandosi. Certo, forse senza questi tentativi le cose avrebbero potuto andare anche peggio per la natura. Ma un argomento altrettanto valido sarebbe che la conservazione disegnata sulle riserve ha reso molti ciechi di fronte alle cause reali della diminuzione della biodiversità della Terra. Ossia un sistema economico in perenne espansione che spreme gli ecosistemi convertendone gli habitat in periferie suburbane o terreni agricoli, inquinando l’aria e l’acqua con sostanze sempre più tossiche e surriscaldando l’atmosfera con sempre più gas serra. Questi problemi strutturali vengono nominati, ma mai di fatto affrontati nei meeting internazionali sull’ambiente”.

“I summit della Nazioni Unite sono ormai diventati poco più di circhi ambulanti pullulanti di speranze disperate, che non hanno alcuna influenza sul mondo reale. I meeting in agenda, gli annunci e gli accordi sono sempre più intrisi di un linguaggio da partita a scacchi, piuttosto triviale, da promesse vuote di contenuto e da decisioni non decisioni, molte sul funzionamento stesso della Convenzione. E dopo ogni summit, minuscole e qualche volta più grandi vittorie vengono celebrate come eventi epocali che il mondo attendeva con trepidazione. Ma cosa la convenzione per il clima e quella sulla biodiversità hanno davvero fatto per i problemi che si suppone debbano affrontare?”.
La risposta è disarmante: nulla.
Ci sono voluti tre decenni per chiederci che cosa intendiamo per conservazione. Eppure, se abitassimo un Pianeta, ci sarebbe ancora bisogno della conservazione? Certo che no. Staremmo qui in compagnia di tutte le altre specie. Coesistenza significa co-appartenenza. Quando si convive, non c’è spazio per aree cintate, aree protette, aree di esclusione e riserve. Lo spazio disponibile coincide con un progetto comune. Una vita insieme. L’intero impianto della Convenzione, e la nostra civiltà, nascondono quindi un difetto di comprensione. Non siamo in grado di comprendere il problema (l’estinzione progressiva delle specie animali, l’abbattimento sistematico delle foreste). Ci manca una capacità di comprensione. Non abbiamo una lingua per spiegare ciò che accade. Una lingua giusta. Una lingua viva.
“L’unica lingua comprensibile che parliamo fra noi sono i nostri oggetti in relazione fra loro. Una lingua umana non la capiremmo e resterebbe priva d’effetto; da una parte verrebbe intesa come preghiera, come supplica e perciò come un’umiliazione, e quindi sarebbe pronunciata con vergogna, con un senso di degradazione, dall’altra parte sarebbe presa e respinta come sfrontatezza o follia. Siamo a tal punto reciprocamente alienati dall’essenza umana, che la lingua immediata di questa essenza ci sembra una ferita alla diginità umana, mentre la lingua alienata dei valori delle cose ci sembra la dignità umana, giustificata, fiduciosa di sé, che riconosce se stessa”, scrisse Karl Marx.
Questa situazione non è altro che lo specchio fedele di un atteggiamento ormai molto diffuso, un cocktail alcolico di sconforto e malinconia. Non c’è più nulla da fare! Non è rimasto più niente da salvare! Non riusciremo più a salvare nessuno! Sono sentimenti certo legittimi, che tuttavia possono liquefarsi e svanire (non servire più a nulla) nella nebulosa della indignazione. Ma cosa sono poi davvero questi sentimenti? Non sono forse anche loro gli idoli di una epoca che non sa più a che cosa aggrapparsi per sopravvivere? Non sono forse una rinuncia alla comprensione degli avvenimenti, della sofferenza delle specie animali, delle foreste e dei popoli nativi rimasti? Perché questi animali, questi alberi, queste persone di discendenza non europea sono vivi oggi, qui. Loro, tutti, sono ancora vivi. Perché non ce ne accorgiamo? Perché non li vediamo? Perché non conosciamo più la mappa per “tornare a casa, nella Valle degli Orsi”?
Siamo davvero capaci di comprendere il nostro mondo? Come possiamo pubblicare un documento per “salvare il Pianeta dalle estinzioni”, se non conosciamo noi stessi in questo Pianeta del XXI secolo?
C’è differenza tra supporre e comprendere. C’è differenza tra esecrare e mettere in critica. C’è differenza tra maledire e condannare. Comprendere la nostra epoca non equivale affatto ad augurarsene la fine, tanto peggio tanto meglio, cogliendo, come Faust, un frutto già marcio. Noi esseri umani comprendiamo qualcosa non solo quando ci costruiamo attorno un concetto (come pensavano Kant e Hegel), ma soprattutto quando il nostro pensiero diventa esperienza. Avviene allora una corrispondenza, una sorta di domanda/risposta, tra noi e la realtà. La corrispondenza con la realtà fa della comprensione una attitudine verso il mondo. Ma senza il mondo non c’è neppure comprensione. È ciò che Hoelderlin intendeva quando parlava di Übereinstimmung. Soltanto l’uomo che si trovi in questa disposizione spirituale può conoscere se stesso e comprendere il mondo. La comprensione del mondo è un accordo. È uno dei modi in cui scopriamo di essere umani.
Uno stile di vita, e una questione scottante della civiltà moderna, di cui scrisse con incomparabile semplicità Aleksandr Solẑenicyn. “Solo se le forze attive dell’umanità si indirizzassero creativamente alla ricerca delle modalità per un graduale ed efficace contenimento degli aspetti distruttivi della natura umana e la crescita di una accentuata coscienza personale, solo in questo caso possiamo nutrire una qualche lontana speranza. Tuttavia si può iniziare questo cammino e percorrerlo unicamente con cuore puro e sinceramente pentito, disposto ad attenersi al saggio criterio non solo di accettare limitazioni nella propria sfera d’influenza, anche di carattere personale, ma di iniziare a praticarle prima che lo facciano gli altri. Ma proprio questo cammino incontra nel mondo odierno solo sorrisi ironici se non aperti dileggi”.
Solẑenicyn offre una etica umanistica. Una comprensione etica delle cose. Non nichilista e neppure edonista. Quindi profondamente ecologista. L’uomo etico di Solẑenicyn è un uomo salvo, perché è completamente coinvolto dallo sforzo di comprendersi attraverso la comprensione del mondo. Questa etica la argomenta un uomo che è stato in un gulag. Un uomo che inventò un rosario di palline di pane per memorizzare i versi delle proprie poesie (che poi diventeranno il poema La Stradina).
Poche sono le istruzioni essenziali per la svolta umanistica: “cosa vorrei dire alla giovane generazione? Anzitutto, di non arrendersi al consumismo (…) La vita non sarà facile, ma le circostanze non sono mai più forti della volontà umana. La volontà e coscienza umane sono più forti delle circostanze e lo dice uno che è passato per la guerra al fronte, per il campo di lavoro forzato e una malattia mortale. La volontà umana è superiore alle circostanze, le può dominare, ma deve concentrarsi e non seguire falsi orientamenti. Ecco cosa mi sentirei di dire”.
È significativo che per tutta la vita Solẑenicyn parlò di una esistenza i cui pilastri non sono affatto diversi da quelli auspicati da Amitav Ghosh: cura per il cibo (cucinare, mangiare insieme), rifiuto della cultura del fast food, dedicare molto tempo alla lettura di libri. È il “lessico politico di Occupy”, poi adottato “da Black Lives Matter”. Ma è anche ciò che sperimentarono le migliaia di persone di ogni nazionalità (non solo Nativi Lakota) che vissero nell’accampamento di Standing Rock, nel Dakota, per protestare contro il gigantesco oleodotto XL. “I dimostranti a Standing Rock non si limitavano a presentare una serie di richieste, o a sostenere determinate misure politiche: stavano sperimentando, ed esibendo, un diverso modo di vivere”.
Comprendere vuol dire quindi anche vivere. Vivere in un modo nuovo.
Come per Ghosh, anche secondo Solẑenicyn siamo chiamati a comprendere molto seriamente come siamo giunti fin qui.
“Da più di un secolo nel mondo civilizzato è in corso un processo, che sfugge ai più, di perdita di concentrazione interiore ed elevatezza di sentimenti, di generalizzata dispersione, forse di irrimediabile eclisse dei valori spirituali. In particolare nel XIX secolo queste tendenza raramente veniva notata. Ma già tutto il XX secolo, un secolo di successo quanto agli aspetti tecnici e di eccessiva precipitazione sotto il profilo psicologico, ha contribuito per diverse vie a un declino della cultura. (…) Questo universale processo distruttivo, costante decennio dopo decennio, ci ha colti nonostante la sua persistenza impreparati”.
“Alla crescita sorprendentemente veloce e largamente diffusa del benessere, determinato dai progressi nelle nuove tecnologie, non ha affatto corrisposto un adeguato livello di autoeducazione delle persone alle nuove circostanze, quale sarebbe stato auspicabile: mantenersi cioè uomini dotati di anima. (…) il diffuso comfort ha comportato un inaridimento delle facoltà spirituali”.
Centrale è per Solẑenicyn il concetto di limite. “La parte più sviluppata dell’umanità si è talmente abituata al consumismo – all’abbondanza e varietà delle sue espressioni – da diventarne schiava. Porsi di punto in bianco dei limiti? Come è possibile? E anche poi? L’autolimitazione volontaria è una qualità di difficile acquisizione, già per la singola persona, ma tanto più per un partito politico, uno Stato, un’azienda, una corporazione. Si è smarrito il senso più autentico della libertà, la sua più nobile applicazione, che consiste appunto nell’imporsi volontariamente un freno, rinunciando ad espandersi e a tratte profitto a qualsiasi costo e ovunque. È anche un atteggiamento lungimirante, perché allontana il pericolo di dirompenti conflitti futuri”.
Questo tipo di etica umanistica può espandersi sino a diventare una ontologia. Possiamo scoprire che l’intera struttura della realtà protegge e contiene una somiglianza strettissima tra noi e il Pianeta. E che proprio in questa somiglianza, in questa affinità, abbiano origine i nostri comportamenti etici e la nostra preoccupazione per le altre specie.
La comprensione del mondo è una etica, suggerì Martin Heidegger in Essere e Tempo, perché coglie il modo in cui gli esseri viventi (gli enti) si presentano ai nostri sensi ed alla nostra intelligenza. Comprendere come siamo nel mondo ci aiuta quindi a interpretare la nostra esistenza come parte dell’essere del mondo.
Noi comprendiamo noi stessi comprendendo le cose. Accogliendo quindi le cose di natura dentro il nostro pensiero di esistere qui ed ora. “Il comprendere è concepito come un modo fondamentale dell’esser-ci (…) è l’esistente essere-nel-mondo in quanto tale”. Il disvelarsi delle cose attraverso la comprensione riguarda quindi “co-originariamente il pieno essere-nel-mondo”. Ciò che del mondo e di noi riusciamo a cogliere come possibile è un “esistenziale”, ossia è “l’essere in quanto esistere”. Se non appartenessimo già e sempre al mondo inteso come presenza viva delle cose che esistono (gli animali, le piante, gli ecosistemi), non potremmo neppure comprendere il nostro esser-ci. Non avremmo, in altre parole, neppure il pensiero del nostro esistere come persone o individui o protagonisti nella nostra epoca.
“L’esser-ci può comprendersi in prima istanza e per lo più a partire dal suo mondo (…) l’esser-ci esiste nel mondo in quanto se stesso (…) il mondo fa parte del suo essere se stesso, in quanto essere nel mondo”. È questa, tra le altre cose, una definizione bellissima della nostra identità di specie. Perché, dice Heidegger, “comprendere l’esistenza in quanto tale è sempre comprensione di un mondo”.
All’interno di questa prospettiva ontologica e umanistica, la biodiversità è già al suo posto. Non ha bisogno di un trattato internazionale per diventare ciò che già è. La biodiversità ha un nome per il fatto che esiste. Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è una comprensione etica della realtà. Questo significa mettersi sulla strada per comprendere dove ciò che è vivo dentro di noi è tale perché altri fuori da noi sono vivi. In una svolta politica e civile di questo tipo la CBD non avrebbe semplicemente più ragione di stare in piedi.
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