Gli animali selvatici si muovono sempre meno, con conseguenze devastanti su scala globale. Non c’è più spazio per i grandi mammiferi. Uno studio appena uscito su Science (SCIENCE 359 26 January 2018 – Moving in Athropocene: global reductions in terrestrial mammal movements) conferma che la questione dello spazio sarà l’argomento più scottante di quest’anno sulle riviste scientifiche e ovunque si discuta in maniera seria del futuro dei grandi mammiferi.
No room to roam, non c’è più spazio per muoversi, denuncia la copertina del magazine: spazio in senso quantitativo (non dovremmo cominciare a ragionare sulle mega-riserve?) e qualitativo (cosa accade alle popolazioni numericamente consistenti rimaste, se le aree protette sono sempre più frammentate?).
“Il fatto che gli animali possano muoversi è fondamentale per il funzionamento di un ecosistema. Usando un sistema di monitoraggio (tracking) a GPS su un database di 803 individui appartenenti a 57 specie differenti, abbiamo rilevato che i movimenti dei mammiferi in aree con una alta impronta umana sono ridotti in media di 2-3 volte”, spiegano gli autori. Il confronto è con i territori in cui invece la pressione della presenza umana è meno invasiva.
Le 57 specie prese in esame comprendono gli erbivori (28), i carnivori (11) e gli onnivori (18). Tra le specie considerate ci sono il ghiottone (Gulo gulo), la giraffa (Giraffa camelopardalis), l’elefante di foresta africano (Loxodonta africana cyclotis), l’orso bruno (Ursus arctos), il babbuino (Papio cynocephalus) e il leopardo (Panthera pardus).
Lo studio ha esaminato la distanza percorsa dagli animali in relazione all’impronta umana dei territori attraversati con un modello matematico avanzato (Human Footprint Index) che include gli effetti sinergici di più fattori: quanto un ambiente è costruito con case e infrastrutture, campi coltivati, terre messe a pascolo, la densità della popolazione umana, l’illuminazione artificiale notturna, ferrovie, strade, e vie d’acqua navigabili.
Questo indice va da 0 (punteggio del Pantanal, in Brasile) a 100 (punteggio di New York).
“La perdita globale di mobilità altera un tratto ecologico fondamentale degli animali che ha conseguenze non solo sulla persistenza di una singola popolazione”, ossia la sua capacità di resistere nel tempo in un certo habitat, “ma anche sui processi ecosistemici come ad esempio le interazioni predatore-preda, il ciclo dei nutrienti e la trasmissione delle malattie”.
Gli animali che si spostano all’interno dei loro habitat lavorano infatti come “mobile links” cioè come mediatori di funzioni biochimiche strutturali in un ecosistema: la dispersione dei semi, i trasferimenti energetici ( il passaggio dell’energia solare catturata dalla fotosintesi nelle piante, quindi negli erbivori, nei carnivori e infine di nuovo al suolo) e gli equilibri genetici intrinseci alle metapopolazioni.
Oggi, una porzione enorme del globo terrestre (dal 50 al 70% ) è già stata ampiamente modificata da noi umani. La qualità dello spazio rimasto per le specie selvatiche è un punto di discussione decisivo per il futuro: “l’espansione dell’impronta umana non sta solo causando perdita di habitat e di biodiversità, sta anche alterando il modo in cui gli animali si muovono attraverso habitat frammentati e disturbati”.
Le conseguenze più gravi di questa condizione globale saranno visibili sui tempi lunghi: “gli individui possono spostarsi alla stessa velocità se i loro movimenti vengono misurati in brevi intervalli di tempo, ma questi stessi movimenti appaiono più tortuosi dove l’impronta umana è più alta effettuando la misurazione su intervalli temporali più lunghi”.
Probabile che nei decenni a venire il destino degli erbivori in movimento non sarà molto diverso da quello dei carnivori di vertice.