Home » Tracce » La ricerca dell’origine della sesta estinzione

Su un Pianeta diventato una “camera di combustione” a causa della CO2 e del metano (CH4)  intrappolati in atmosfera dopo due secoli di uso intensivo dei combustibili fossili, la ricerca dell’origine della sesta estinzione è un viaggio nel vuoto di memoria con cui noi uomini e donne conviviamo da sempre. 

Tre milioni e mezzo di anni fa alcuni Australopiteci (della specie afarensis) attraversarono il fondo sabbioso ricoperto di cenere vulcanica della valle nota oggi come Laetoli, in Tanzania. Lasciarono le loro impronte, erano forse una famiglia, affidando così al tempo profondo le tracce paleo-ontologiche del destino della nostra specie. Forse quel giorno una eruzione vulcanica li aveva costretti a muoversi rapidamente; forse il cielo divenne scuro per i detriti piroplastici; forse il futuro, per loro, fu improvvisamente ancora più pericoloso e incerto, un messaggio neuro-psichico che richiedeva la mobilitazione e la fuga. Affrontarono il buio e per questo lasciarono qualcosa della loro storia anche a noi. 

Laetoli è un sito speciale anche per il leone, una specie con cui condividiamo la nostra storia sin dall’inizio. Si ritiene infatti che la linea di derivazione evolutiva del leone cominciò a Laetoli tra 3.8 e 3.6 milioni di anni fa, nel medio Miocene. Esattamente come avvenne a numerose specie umane, il leone conobbe una eccezionale dispersione durante il Pleistocene, arrivando in Europa occidentale (Panthera fossilis). Entro la metà del Pleistocene i leoni delle caverne (Panthera spelaea) “occupavano il ruolo ecologico essenziale di predatori di vertice nella catena trofica delle steppe dominate dai mammut”.

La passeggiata degli Australopiteci di Laetoli fu scoperta nel 1976 e da allora divenne una delle fotografie più rappresentative del percorso evolutivo della nostra specie. Qualcuno, allora, era in cammino. Il dibattito sull’origine dell’essere umano (e, di conseguenza, su che cosa significa essere umani) negli ultimi trenta anni ha coinvolto anche la politica e la società civile, perché l’emergere di Homo sapiens ha implicazioni nella percezione culturale della sesta estinzione di massa e del cambiamento climatico. Ma che cosa debba significare questa origine, è molto più difficile stabilirlo, rispetto a quanto, invece, non sia effettuare misurazioni al carbonio quattordici o comparazioni tra ossa, denti, crani. L’origine ci sfugge e tanto più ne avvertiamo l’incombere quanto più il depauperamento della biodiversità della Terra pone l’estinzione delle specie animali e dei loro habitat tra le imprudenze fatali della civiltà moderna. Gli esseri umani vanno a caccia dell’origine come di un punto-zero, di un principio che li riconnetta al proprio buio e alla propria incomprensibilità. L’origine non assomiglia alla luce chiarificatrice del fulmine di Eraclito, e neppure alle rassicurazioni genealogiche della paleontologia o di qualche nazionalismo dalle aspirazioni naturalistiche. L’origine, per noi, è piuttosto un luogo: una condizione della coscienza, un ricordo impossibile ma di struggente malinconia, la conoscenza del tempo profondo nella ricostruzione della nostra storia evolutiva insieme a quella delle altre specie.

Se possiamo accorgerci dell’importanza dell’origine di Homo sapiens è perché una infinità di lacune e di passaggi non documentati, di parenti sconosciuti e di improvvise comparse dissemina di dubbi la ricostruzione paleontologica, e quindi ecologica, del nostro posto sul Pianeta. È la incertezza sul come siamo diventati ciò che siamo che ha prodotto la fascinazione dell’origine, vissuta come una soluzione per ora introvabile al dilemma morale sulle cause del nostro talento distruttivo. Ma in realtà, anche fuori dei laboratori di paleo-anatomia, gli Europei hanno discusso per secoli dell’origine, facendone tutt’uno con le domande essenziali sull’essere, sul fatto, cioè, “che le cose esistono e non c’è il Nulla, ma pur sempre qualcosa”.  L’origine è tanto il mito della creazione quanto la nostalgia per il Paradiso perduto. Ma è anche la “questione dell’essere”, che attraversa la storia Europea, quella continentale e anche quella coloniale oltre i confini nazionali

Per questo nel Novecento, la fenomenologia ha subito l’accusa di essere rimasta vincolata all’origine come dimensione ontologica autentica ed esistenziale. In fondo, non era solo Heidegger a parlare di autenticità e di Essere. Anche Husserl, quando spiega che cosa sono le forme geometriche e le formule matematiche di Galileo, suggerisce che il mondo non è una equazione o una funzione matematica, ma qualcos’altro, cui non forse non pensiamo più. 

Eppure, in senso proprio, chi si è messo sulle tracce di qualcosa di originario nel pensiero si è sempre imbattuto nella impossibilità di definire l’esistere sulla Terra in termini astratti, astorici. Anche quando la ricerca indaga la domanda sull’essere delle cose del mondo, l’origine (l’essere, il venire al mondo da una possibilità di esistere, esattamente come la nostra specie si evolse da numerose possibilità evolutive) è sempre fatta di mondo. Ne segue le condizioni biologiche, geologiche, fisiche. L’origine, quindi, non ha nulla di romantico. Non è niente altro che la distanza temporale tra il comparire dell’uomo anatomicamente moderno e l’elaborazione di un pensiero sul mondo. È questo scarto temporale, che non possiamo riempire. Ma in questo buio vennero fuori le nostre virtù, le nostre caratteristiche adattative, le nostre chance di espansione territoriale. È nel buio che vanno rintracciate, almeno dal punto di vista evolutivo, le ragioni per cui abbiamo infine dato inizio alla sesta estinzione.

Portiamo dentro di noi un vuoto, che ci appartiene. È allora chiaro che questo vuoto non è solo mancanza di conoscenza. Quando il dibattito sul futuro rimprovera alle società contemporanee di non riuscire a mettere a fuoco la scala del disastro ambientale, quando avvertiamo tutta l’incompetenza cognitiva e spirituale della civiltà tecnologica, è a questo vuoto che facciamo inconsciamente riferimento. Sappiamo descrivere il problema, ma solo pochissimi di noi sanno dire che cosa provano dinanzi al problema. Se la comunità umana globale ha inventato una vita comoda e decente, se ci sono arte e musica, se c’è la medicina moderna, come può tutto questo convivere con la sesta estinzione? Come può l’essere umano essere capace di entrambe le cose? Sono domande legittime, che però non prendono in seria considerazione l’aspetto più sostanziale della questione. Le civiltà europee moderne non sono diventate civiltà capaci di sterminio ecologico facendo affidamento su programmi predeterminati, su un pacchetto di virtù ereditarie, su forme di automatismo. Gli uomini del Cinquecento, del Seicento e del Settecento non sapevano che il colonialismo oceanico avrebbe avviato la sesta estinzione. È vero invece l’opposto, ossia che la nostra specie, per così dire, si esprime al meglio attraverso le cose che non sa di se stessa. Siamo così creativi, così adattabili, così imprevedibili da innescare cambiamenti, in ogni campo materiale e culturale, da non sospettarne neppure gli esiti o le implicazioni. Noi ci buttiamo in imprese sconosciute senza sapere dove ci condurranno. Quindi è in questa attitudine all’ignoto, di cui non sappiamo ancora nulla nonostante tutto ciò che sappiamo dei nostri progenitori, che sta l’origine della sesta estinzione. Usare intere comunità di specie senza immaginare (costruendo scenari alternativi al vantaggio immediato) che potrebbero scomparire per sempre. Mettere a ferro e fuoco l’intera biosfera per erigere pensieri mai pensati. 

Il fatto che le specie animali si estinguono non sorprende né getta in allarme la civiltà umana globale. Perché la civiltà umana globale spinge se stessa alimentandosi del vuoto che ne accompagna la storia. Ancora oggi, per noi, in modi che abbiamo forse appena cominciato a intravedere, ha un senso ciò che mise in movimento gli Australopiteci di Laetoli: affrontarono il buio e per questo lasciarono qualcosa della loro storia anche a noi

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MONDO ED ESTINZIONE

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