
La civiltà ha mobilitato l’intera biosfera per diventare se stessa. Ci sono voluti cinque secoli. Oggi questo percorso è compiuto e la civiltà ha esaurito le proprie possibilità. Eccolo il potere divinatorio e profetico del Quai Branly.
Si entra nel cuore del Musée du Quai Branly (la roccaforte dell’etnografia europea) percorrendo un lungo tunnel buio. E questo è un museo scuro, dove filtra pochissima luce. Come nelle foreste tropicali. Lucien Fevre, padre della storiografia moderna, non credeva che interi popoli potessero abitare le foreste tropicali, “così debordanti e potenti da non permettere alcuna vita se non la propria”. Era il mito dell’oscurità tropicale. E se oggi avessimo paura di noi stessi, anche se abbiamo vinto su ogni animale e su ogni foresta e su ogni popolo delle foreste? Se fossimo noi Europei, adesso, a vivere nel buio?
Jacques Chiraq volle il Musée du Quai Branly nel 2006. Chiraq volle questo museo per favorire il dialogo tra i popoli. Ma dove è menzionato il genocidio? Dove l’ecocidio?
Nietzsche pensava che la nostra civiltà avesse smesso di essere crudele, che non fosse più capace di quella ferocia che le aveva consentito di diventare grande. Il Quai Branly smentisce Nietzsche. Non solo siamo stati crudelissimi. Oggi la maggiore crudeltà la infliggiamo proprio a noi stessi perché non ci rendiamo conto del nostro nome. Non siamo capaci di decifrare noi stessi nella civiltà che abbiamo edificato.
Siamo prigionieri della nostra interpretazione del mondo. E il Quai Branly racconta questa interpretazione europea del mondo.
Quando arrivammo sulle coste africane, usammo l’arma dell’interpretazione. Perché anche la civiltà è una interpretazione del mondo. Michel Foucault lo sapeva bene. Credeva che addirittura la Modernità fosse una invenzione, che persino l’uomo fosse una invenzione culturale del Cinquecento e del Seicento. Siamo stati capaci, in nome della nostra interpretazione del mondo, di estinguere intere porzioni di Pianeta. Le persone, le civiltà, le storie, le biografie, enormi assemblage di specie.
Eppure, qui non c’è una parola sulla deforestazione. Non ci sono indicazioni sulle specie arboree dai cui alberi a legno duro venne tagliato il legno per queste figure di antenati e demoni. Questo congela le collezioni, non le lascia parlare fino in fondo. Mozza loro la voce sul confine del tempo presente. Effetti dell’interpretazione.
Ecco qui, non nella questione della restituzione sollevata da Savoy e Macron, il rischio di una rappresentazione neo-coloniale delle civiltà africane. Tagliando fuori il XXI secolo. In modo da essere politicamente corretti. Ma non possiamo occultare il presente per non far torto al passato. O per lenire i sensi di colpa. In questa lacuna di riferimenti e di rimandi alla cronaca ambientale dell’Africa Occidentale e del Congo Basin c’è un limite gigantesco della nostra esperienza di quelle geografie e di quei popoli.
Qui c’è una voragine neocoloniale. Perché, se escludo a priori di far convergere sul presente le condizioni d’essere, storiche, di quelle opere (ad esempio, il fatto che oggi il leone in Cameroon sopravvive solo nel Bénoué Ecosystem, nel nord del Paese, che si estende su 3 parchi nazionali formalmente protetti e 32 zone di caccia, “una delle ultime 3 roccaforti per i grandi carnivori in tutta l’Africa centrale e occidentale”; questa sub-popolazione del leone occidentale è studiata soltanto da un uomo, il dr Serge Alexis Kamgang, vincitore del prestigiossimo Whitley Award) , le loro premesse simboliche (le specie animali); se evito di aggiungere dettagli sui materiali (e invece di marmo, pittura a olio, pigmenti minerali, azzurro-lapislazzuolo si parla sempre), nel timore di sgarrare e di infrangere un codice di buona condotta che identifica il rispetto con la sola esposizione dell’opera (come una offerta allo sguardo bianco); se lo faccio, tutto questo, allora ottengo l’effetto opposto della guerra senza quartiere al razzismo. Ho buone intenzioni, ma ho troppa paura per andare fino in fondo.
Ebbene sì, agisco in modo coloniale. Perché l’opera finisce immobile, incastonata e muta. E anche chi guarda si vede sottratto un momento fondamentale del comprendere. Mettere in sequenza cronologica ciò che fu commesso contro quell’opera (spostandola in Europa), contro quel popolo (sottraendogli la sovranità ambientale) e le conseguenze ecologiche sistemiche di simili politiche.

Lo sgomento del visitatore si scioglie nell’oscurità. Mestizia di tenebre. Sontuosità artistica spalancata sul mistero dell’essere umano. Certamente, passeggiando tra questi volti, cercando di cogliere un senso complessivo nella loro presenza, ci si chiede per quale motivo l’Africa dovrebbe interessarci. Un sentimento meschino che così facilmente può diventare ripulsa spirituale. Così siamo stati educati. Non è la stessa familiarità che abbiamo con i marmi del Partenone… È arte primitiva…Come potrebbe mai essere paragonata a Michelangelo?

Queste figure (dei, totem, antenati) raccontano di relazioni ecologiche (con gli alberi, con le specie animali) diverse da quelle che noi europei abbiamo saputo intessere e coltivare. Le civiltà non europee, oggi agganciate ai meccanismi dell’economia globale, attribuivano al proprio contesto ecologico un valore bio-culturale che non poteva essere soppresso o smantellato, pena la disintegrazione stessa della comunità.
Ancora oggi nei popoli indigeni la relazione eco-evolutiva tra esseri umani ed animali è un patrimonio collettivo che dà un senso all’esistenza. La vita umana è regolata e circoscritta entro cosmologie eco-culturali. Questo dimostra che lo schema contemporaneo della conservazione della natura non è un dato di fatto, ma un prodotto ben preciso della mentalità occidentale.
“Le strategie indigene di uso delle risorse sono il prodotto di una trasmissione di conoscenza intergenerazionale. Spesso questo sapere viene passato attraverso il racconto orale: tiene insieme sistemi di classificazione delle specie animali e delle caratteristiche del paesaggio, informazioni su come impiegare in modo sapiente le risorse, rituali simboli e pratiche religiose.
Nel tempo, questi sistemi di pensiero hanno permesso alle società indigene di persistere per millenni in una varietà enorme di ambienti, spesso coesistendo perfettamente con la biodiversità, primati compresi. Inoltre, per lo più questo sapere tradizionale è articolato su un lingua altamente specifica. Questo significa che ogni lingua indigna contiene e rappresenta informazioni uniche su piante, animali, ambienti e il modo in cui questi esseri umani sanno interagire con tutto questo”.
“I Baka del Cameroon considerano i gorilla (di pianura) e gli scimpanzé animali speciali che hanno legami con gli esseri umani per via di processi magici di reincarnazione. Ma anche nelle ontologie di altri popoli raccoglitori del Congo Basin i primati possano passare le barriere tra specie, quelle che dividono gli umani dai non-umani. Non sorprende, quindi, che molte di queste popolazioni caccino meno primati rispetto a quanto invece fanno le popolazioni del Congo che non vivono più in modo tradizionale”.

Ecco perché nei popoli e nelle nazioni a noi Occidentali pressoché sconosciuti del sud globale – i volti che incontriamo al Quai Branly – portano scritte nei propri corpi intere “sociocosmologie che danno valore alla biodiversità”.
L’Africa è lontana. Dobbiamo ammetterlo. Anche se è vicinissima (Rue Saint Martin, Rue Saint Denis, Chateau l’Eau, Republique). L’Africa ci sfugge. Il giovane del Senegal che vende su un lenzuolo piccole Tour Eiffel Made in China sul Quai. L’Africa noi Europei non la vogliamo toccare a mani nude. Ma è lei che ci raggiunge. Ci afferra. Ci costringe. Ci avvinghia. Ci fa innamorare del nostro tempo, di tutto il tempo che ci è concesso in questo secolo maledetto e abbagliante.