Home » Colonialismo » Come sopravvivere alla sesta estinzione?

Che cosa significa sopravvivere alla sesta estinzione? Riconoscere di essere dei sopravvissuti ad una estinzione culturale: un mondo in cui è naturale vivere senza animali, in uno stato di crescente penuria economica. In molti fanno riferimento a questo periodo della storia umana come ad una congiuntura marcata da “poli-crisi” (global poly-crisis). Ma l’epoca presente, attorcigliata attorno alla distruzione della ricchezza biologica del Pianeta, è segnata soprattutto dalla estinzione culturale dei sopravvissuti. Noi. 

I posteri hanno il compito di tradurre in memoria un trauma storico – l’annichilimento biologico di enormi ecosistemi su scala continentale – che ha travolto i propri antenati. E ciò avviene anche quando gli antenati sono stati a guardare, più spesso come colpevoli che come testimoni. Lo shock travolge coloro che non hanno mai vissuto negli ecosistemi direttamente minacciati come abitanti indigeni di quegli habitat, ma che, al contrario, ne hanno assorbito le risorse alimentari, energetiche, umane. C’è, in sostanza, anche uno shock della distanza, dell’assenza, della complicità ereditata. Quindi, oggi, nel nostro secolo, sopravvivere all’estinzione è una condizione umana che ha un doppio significato storico. Siamo, tutti, dei sopravvissuti alla sesta estinzione. Sopravvivere alla sesta estinzione significa essenzialmente avere a che fare con un trauma storico a due dimensioni.

Da una parte ci sono i popoli estinti o quasi estinti dall’impresa coloniale, che hanno testimoniamo per decenni le privazioni materiali e psicologiche seguite ai genocidi programmati dei secoli passati. È in queste nazioni che è stato elaborato il concetto psicologico di “trauma storico” e di “totale perdita di portata storica”. La colonizzazione istituzionalizzata delle culture native ha spinto alcuni ricercatori a considerare il trauma coloniale (“Olocausto americano”, secondo la celebre definizione di David E. Stannard, e “ferita dell’anima”, come scrisse Eduardo Duran) come un tipo peculiare di stravolgimento esistenziale: non tanto una “risposta allo stress post-traumatico”, quanto piuttosto una “sindrome da stress traumatico”. Questi tentativi di ricostruire le patologie della memoria storica e coloniale (i modi in cui il ricordo storico, non personale, diventa un disadattamento cronico attraverso le generazioni) spingono a considerare i secoli centrali della costruzione della modernità non come accidenti ormai conclusi, ma come intrecci di accadimenti direzionali, che riguardano profondamente il nostro presente perché sin dall’inizio erano intesi a imprimere alcuni tratti dell’agire e del pensare umano sull’intero pianeta. Il trauma coloniale è cioè intenzionale, da parte della civiltà europea. E nella sua intenzionalità sta la sua irrealizzabile soluzione. In questo senso, quindi, sopravvivere ad una estinzione non può che significare riuscire a trovare una via di uscita che sia essenzialmente un andare oltre per raggiungere qualcosa di comune che non è stato ancora pensato. La soluzione, dunque, non sta solo nel superamento del razzismo, ma anche nell’accettazione di qualcosa che per ora è inconoscibile.  

Dal punto di vista dei discendenti degli esecutori (noi Europei) non c’è però memoria del trauma coloniale se non c’è coscienza storica. E questa coscienza storica manca. È il “problema esistenziale della storicità”, individuato da Heidegger. Quando noi Europei dovremmo cominciare a sentirci parte della storia? E in che modo?

(La regista franco-senegalese Mati Diop ha vinto l’Orso d’Oro alla Berlinale 2024, appena conclusasi. Un segnale, l’ennesimo, di portata storica sul risveglio di coscienza sulla storia globale eco-coloniale, i crimini connessi e la responsabilità del presente, soprattutto nei confronti dell’Africa, che la Germania ha abbracciato da qualche anno. Diop, infatti, ha diretto un documentario – Dahomey – sulla questione della restituzione dei Bronzi del Benin, trafugati durante la conquista coloniale in quella che è l’attuale Nigeria. La Francia ha resituito la sua parte dei bronzi, come racconta Dahomey).

Dalla parte opposta rispetto ai colonizzati stanno infatti i privilegiati del Nord Globale, che soltanto adesso cominciamo ad apprendere che cosa significa vivere su una Terra depredata e avvelenata. È soprattutto questo che le società più opulente sembrano sapere del passato: le temperature sempre più squilibrate in estate e in inverno, le ostruzioni nei flussi di approvvigionamento delle materie prime, delle risorse energetiche e delle merci. E le guerre, a ridosso degli snodi geografici dei commerci globali. È insomma la cosiddetta crisi di crescita, di deflazione, che ha ora risvegliato i sentimenti e le intelligenze alle disfunzioni della organizzazione-mondo.  “Il dolore appartiene anche ai colonizzatori, che come noi non potranno passeggiare tra l’erba alta, tra i girasoli che danzano con i cardellini. I figli di chi è arrivato da lontano hanno perso, come i nostri, l’opportunità di cantare alla Danza dell’Acero. Anche per loro l’acqua non è più limpida”, ha scritto Robin Wall Kimmerer. Il peso della colpa ecologica grava sulle generazioni dei posteri non come condanna eschilea ad una espiazione cruenta e misticheggiante, ma come sofferenza incomprensibile. Ciò che è condiviso da tutti, non è compreso da tutti. Il Nord non conosce il proprio passato coloniale. E quindi si rifiuta di capire la sua stessa sofferenza. 

Siamo tutti dei sopravvissuti alla sesta estinzione, anche se le vittime del sud globale cominciarono molti secoli prima di noi a subirne le conseguenze. Il clima globale, per l’appunto, dà indicazioni inequivocabili in questa direzione. Il 2023 ha segnato forse un punto di non ritorno nella disintegrazione dell’equilibrio climatico terrestre. Il Sistema-Terra dà segno di essere entrato “in un territorio completamente incerto”, una sorta di “passaggio di livello (shift) nella risposta a due secoli e mezzo di iper-pressione umana”, ben indicato dai picchi di condizioni climatiche estreme, come i megaincendi. Questa è l’opinione di Johan Roeckstrohm dell’Istituto per il Clima di Postdam, in Germania, uno dei più importanti al mondo. Segnali più che preoccupanti giungono anche dalle raccolte dati dei climatologi che monitorano la AMOC (Atlantic meridional overturning circulation), il sistema di correnti oceaniche atlantiche che regola le condizioni climatiche di parte dell’Europa occidentale. La AMOC è un “nastro trasportatore” del calore attraverso gli oceani del Pianeta. L’ingresso in oceano Atlantico di sempre maggiori quantità di acqua dolce (“freshwater forcing”), a causa dello scioglimento dei ghiacci dell’Artico e della Groenlandia, potrebbero aver alterato in modo irreversibile la AMOC. “La AMOC così come la conosciamo oggi è sulla traiettoria di un punto di non ritorno entro la fine di questo secolo”, hanno scritto su SCIENCE ADVANCES un gruppo di ricercatori olandesi. Ci sono forti evidenze che la soglia critica dell’aumento delle temperature di + 1.5 Celsius sia già stata raggiunta. 

(L’enorme ecosistema amazzonico (Amazon Basin) potrebbe trasformarsi definitivamente in un sistema a savana entro la metà di questo secolo. I fattori determinanti di questo cambiamento sono lo stress imposto dalla deforestazione e della conversione d’uso del terreno (agricoltura). Tra il 10 e il 47% della foresta amazzonica sarà esposto ad una consistente penuria di acqua superando così probabilmente il punto di non ritorno. La cover di NATURE è il secondo monito sul collasso delle foreste tropicali primarie, dopo la copertina dedicata al Bacino del Congo (“SATURATION POINT”), il 5 marzo del 2020.

Quando consideriamo questi dati, il concetto stesso di “poli-crisi” appare mal calibrato. In realtà, il possibile crollo di civiltà ha piuttosto a che fare con l’emergere degli effetti di lungo periodo di fattori di destabilizzazione storica ed ecologica vecchi di secoli. I nodi, per così dire, sono venuti al pettine. È lo shock della distanza, dell’assenza, della complicità ereditata. Questo intrico di crisi funziona infatti attraverso feedback retroattivi, esattamente come i processi di riordinamento e distruzione dell’equilibrio climatico terrestre e delle comunità animali. Un organigramma politico giunto al suo punto di rottura contiene già in sé i prodromi dell’estinzione culturale. Questa consapevolezza della entità reale del disastro affiora in diversi, lucidi osservatori del presente. Yanis Varoufakis lo definisce “tecno-feudalismo”, la fase storica successiva allo shock finanziario del 2008. Secondo Variufakis siamo prepotentemente entrati nel post-capitalismo, in cui a farla da padrone universale è di nuovo la rendita a scapito del profitto da produzione. La rendita del “feudo del Cloud”. Sarebbe questa nuova condizione a generare una fibrillazione sociale il cui effetto evidente sono le poli-crisi. 

“Uno degli schemi ricorrenti comuni saltato fuori dalla nostra ricerca è questo, la diseguaglianza economica estrema compare in ogni singolo caso di crisi profonda”, scrive su THE CONVERSATION Daniel Hoyer, ricercatore di storia e scienza della complessità alla Università di Toronto (Canada). Quando ci sono grandi divari tra chi ha e chi no, non soltanto nei beni materiali, ma anche nella possibilità di accedere al potere, ecco che questa situazione diventa il terreno di coltura per la frustrazione, il dissenso e il tumulto. L’epoca della discordia, come Peter Turchin ha definito i periodi di disordine sociale e di violenza, ha prodotto alcuni degli eventi più devastanti della storia. Questa categoria include la Guerra Civile Americana scoppiata nel 1860, la Rivoluzione Russa dell’inizio del XX secolo, e la rivolta dei Taping contro la dinastia cinese dei Qing, a cui spesso si fa riferimento come alla più spaventosa guerra civile mai combattuta. In ognuno di questi casi le persone non tollerarono oltre una estrema diseguaglianza nella ricchezza accumulata, e l’esclusione dalla politica e dai suoi processi decisionali. La frustrazione evolse in rabbia e alla fine esplose in combattimento aperto, uccidendo milioni di persone e coinvolgendone ancora di più”. 

Come si manifesta oggi in Europa tutto questo?

Il settimanale tedesco DIE ZEIT ha parlato recentemente di uno “stato di sfinimento psicologico riconducibile allo stato di crisi permanente”, causato, a sua volta, dal sovrapporsi di molte crisi. Una sorta di depressione latente. Gli autori dell’articolo pongono in primo piano l’impoverimento del ceto medio e, quindi, la sensazione collettiva di non riuscire a scalare un Monte Everest di opportunità scomparse, costi insostenibili e politiche inappropriate, se non anacronistiche. La polarizzazione ideologica, e la depressione, secondo il filosofo Armen Avanessian intervistato da DIE ZEIT, sarebbe solo l’esito scontato della incapacità delle istituzioni di abbandonare lo status quo e cominciare a guardare in faccia il futuro. 

“Le persone oggi non si sentono depresse perché sono logorate da un ambiente che pretende da loro di venire a patti con conflitti senza fine. Succede il contrario. Queste persone scappano davanti ai conflitti. Sono obbligati a farlo. Lo vediamo molto bene sui social media. Parliamo in continuazione, ad esempio, delle pompe di calore (NdR, come sistema di riscaldamento domestico a meno emissioni), ma non osiamo addentrarci nel conflitto di fondo tra economia ed ecologia”, spiega Avanessian. 

Le alterne vicende della attuale coalizione di governo in Germania, con i Verdi al Ministero dell’Economia, è emblematica. Un caso-studio fondamentale, nel cuore dell’Europa, per capire i limiti delle cosiddette riforme verdi. “La questione è questa. Tutti pretendono, da Habeck (il ministro dell’Economia, Verdi) sino a Lindner (il ministro delle Finanze, un ultra-liberale dei Liberi Democratici, FDP), che noi non abbiamo bisogno di un effettivo cambiamento di sistema, nonostante la crisi climatica e le numerose altre crisi ecologiche. Il nostro sistema economico può cioè andare avanti come prima, senza problemi, ma con qualche adeguamento. Naturalmente questa è una pretesa molto contestabile. Eppure, nessuno ne parla. E infatti scivoliamo in conflitti fittizi, ci diamo la colpa gli uni con gli altri, e non ci muoviamo di un passo nella giusta direzione. Quindi siamo esausti e sfiniti anche per questo, perché parliamo senza posa delle cose sbagliate”. 

E fra le cose giuste tenute opportunamente nel buio c’è la sesta estinzione, con il suo corollario di responsabilità storiche. 

Quando stanno morendo i cavalli respirano,

Quando stanno morendo le erbe intristiscono,

Quando stanno morendo i soli si spengono,

Quando stanno morendo gli uomini cantano canzoni.

V. Chlebnikov, Quando stanno morendo i cavalli, 1913

Lo scorso anno le Nazioni Unite (Accelerating Extinction Special Report) hanno inserito tra i “punti di non ritorno” di questa fase dell’Antropocene anche il colonialismo (tra le cause sostanziali e antiche del dissesto globale). Sempre secondo le Nazioni Unite, inoltre, la perdita del patrimonio culturale ereditato dagli antenati (di cui le culture native americane ed africane sono testimoni eccellenti) è uno degli impatti più significativi della semplificazione ecologica e storica associata alla sesta estinzione (“extinction breeds extinction”). Le collezioni dei Musei “etnografici” europei sono i luoghi in cui bisognerebbe parlare di tutto questo. 

Il disagio raccontato da DIE ZEIT assomiglia più ad una diagnosi ecologica che ad una indagine sociologica. Lo smarrimento e il rancore delle classi medie europee non sono altro che i sintomi della sesta estinzione. I sintomi del nostro sopravvivere quotidiano alla nientificazione del sostrato biologico vitale delle nostre biografie, delle nostre famiglie, dei nostri sogni. Cantiamo canzoni dei cui versi non conosciamo il significato. Ma le cantiamo lo stesso, perché le parole salgono alle labbra, e vogliono uscire a tutti i costi.

Che cosa significa sopravvivere alla sesta estinzione? Riconoscere di essere dei sopravvissuti ad una estinzione culturale: un mondo in cui è naturale vivere senza animali, in uno stato di crescente penuria economica.

(Foto di Cyperus bulbosus. Anche il Musée du Quai Branly, a Parigi, possiede reperti vegetali di nazioni africane oggi ecologicamente molto diverse dal primo Novecento, e dall’Ottocento. Ad esempio, del Chad, che nel periodo dell’occupazione coloniale tedesca era ancora abbastanza umido da pullulare di elefanti e leoni. Il Cyperus è una pianta del Chad).

Non a caso qualcuno osa parlare del cambiamento climatico come di una crisi di coscienza, e non come una statistica sulla percentuale di energia eolica generata dalle pale eoliche. L’esaurimento delle risorse effettivamente disponibili per l’umanità (overshoot) è causato da un cortocircuito di alcuni comportamenti della nostra specie (“the human behavioural crisis”), ha detto il team di ricercatori del neozelandese MERZ INSTITUTE. 

“In questo Studio usiamo il termine crisi comportamentale per indicare precisamente le conseguenze di comportamenti connaturati all’essere umano, che un tempo, durante l’evoluzione degli ominidi, avevano uno scopo adattativo, ma che sono stati poi sfruttati per alimentare l’economia industriale globale. È stato così accumulato capitale finanziario – talvolta sino a livelli inimmaginabili – per investitori e gruppi di interesse, tradotto poi in capitale manifatturiero (le merci) che ora pesa di più dell’intera biomassa del Pianeta stesso. Grazie alla manipolazione messa in atto dall’industria del marketing, che alcuni di noi rappresentano, questi comportamenti hanno portato l’umanità a tali scale di impatto – sotto forma di numero di individui, di avidità e di tecnologie  – che siamo ormai oltre la soglia di prelievo delle risorse disponibili e vediamo minacciata la fabbrica della vita complessa sulla Terra”. 

Dinanzi ad un fiore sbocciato, scrisse Hegel nella Fenomenologia dello Spirito  nessuno ricorda più il bocciolo, che pur conteneva già quella corolla di petali. La fine, ecco il senso colto da Hegel, racconta l’inizio del fenomeno storico. È insomma il processo storico stesso a dirci chi siamo. E perché. L’estinzione culturale porta alla luce il punto di partenza della antica esperienza del mondo sperimentata da Homo sapiens: la fusione tra storia naturale (le condizioni strutturali del Pianeta) e storia culturale (l’espressione genica ed evolutiva della nostra specie su una scala temporale vecchia di 250mila anni).

La fusione tra storia naturale e storia culturale individuata da Dipesh Chakrabarthy non è solo una caratteristica unica dell’Antropocene. Ciò nondimeno è con l’Antropocene che questa dimensione esistenziale diventa critica. Perché l’Antropocene (“an unfolding, transforming and intensifying geological event“) è la maturità di Homo sapiens: un approdo. Ecco allora che sopravvivere oggi significa vivere un dissesto economico che racconta altro da se stesso. I costi dell’energia, la rivolta dei trattori sotto la Porta di Brandeburgo, il febbraio più caldo di sempre (2024, Rilevazioni Corpernicus), la crisi migratoria nella Fortezza Europa sono i sintomi della crisi di estinzione arrivata nel sistema nervoso centrale della civiltà europea.


Ma in che modo i sopravvissuti possono entrare in una relazione di senso con ciò che li circonda? Attraverso il loro appartenere alla storia. È la storicità a definire la presenza degli esseri umani nella biosfera, nelle comunità in cui sono nati o in quelle in cui hanno portato la loro eredità storica.  Perciò ciò che scrisse Wilhelm Dilthey nella sua introduzione alla ermeneutica è perfettamente coerente con le riflessioni di Chakrabarthy sulla confluenza di storia naturale e cultura umana. Nel 1900 Dilthey propose una disanima di vertiginosa intelligenza sul significato della conoscenza storica per capire se stessi.  “Il nostro stare nel mondo presuppone la comprensione delle persone diverse da noi. Gran parte della felicità umana nasce essenzialmente dall’accordarsi ai sentimenti suscitati dalle condizioni di anime diverse dalla nostra. L’intera scienza filologica e storica è fondata sull’assunto preliminare che a posteriori sia possibile suscitare questa comprensione dell’elemento singolare (le anime altrui) sino a raggiungere una obiettività generale (la conoscenza). La coscienza storica così costruita permette all’uomo moderno di aver presente dinanzi a sé l’intero passato dell’umanità. Passando sopra tutte le limitazioni del proprio tempo egli scruta fin nei recessi delle culture trascorse. Egli raccoglie così in sé la loro forza e ne può ancora gustare la magia. Da ciò gli viene un afflato di felicità”.

L’intera comprensione delle cose del mondo è fondata su una comprensione meta-temporale. Qui è la storia naturale che ogni individuo porta con sé. La comprensione del mondo non è lineare, è un prisma in cui luccicano esperienze delle più varie, comprese quelle biologiche delle altre specie. L’esperienza stessa degli esseri umani, a questo punto, è il tentativo, appena abbozzato, di sopravvivere scendendo a patti con la complessità prodotta, molto spesso in una scala di distruzione inimmaginabile. Ma Dilthey si spinge ancora più avanti. Non c’è identità fuori di un tale prima storico. Quindi non c’è l’uomo là dove mancano le risonanze e le rifrazioni storiche. La estinzione culturale della nostra epoca è quindi questa carenza di connessione storica (storicità) con noi se stessi e con il mondo: la depressione epidemica da crisi sovrapposte. Non c’è umanità dove vien meno il sentimento della storia della Terra. Ecco perché Heidegger parlò del “problema esistenziale della storicità”, rendendo omaggio proprio a Wilhelm Dilthey nell’ultima sezione di Essere e Tempo. 


Non c’è un lutto collettivo per l’estinzione degli animali. “Questi animali sono percepiti come parti illegittime di un paesaggio in cui le persone, per generazioni, hanno vissuto senza di loro, persone per le quali la loro assenza sembra, in una parola, naturale”. L’estinzione culturale, qui, assomiglia ad una rappacificazione forzata. Si impara, dopo tutto, a vivere senza animali. Eppure, il vuoto è un onere per i sopravvissuti. Perché la defaunazione ha delle conseguenze ecologiche sulla vita materiale delle persone. I sopravvissuti allo spopolamento di interi ecosistemi convivono con una sorta di “post-memoria”. 

Questo atteggiamento verso il passato è stato teorizzato dalla sociologa e psicologa americana Marianne Hirsch, che qualche anno fa studiò il modo in cui il trauma dell’Olocausto si è propagato attraverso le generazioni successive al 1945. Siccome anche l’estinzione degli animali è un fenomeno di violenza storica parossistica (“event of extremity”) che risucchia nel proprio gorgo le esistenze di milioni di vite, condizionando il futuro di chi non è ancora nato, l’estinzione innesca ripetizioni e ricorsi assimilabili alla post-memoria. Secondo Hirsch, infatti, la post-memoria è “una forma indiretta di richiamo del ricordo, successiva e tardiva, che passa attraverso molte mediazioni”, nella mente e nel cuore di persone oppresse da accadimenti che non hanno vissuto in prima persona. “I ricordi, infatti, non sono solo personali e familiari. Sono, in un senso molto ampio, affiliativi, ossia mediati da immagini e vicende pubbliche, trasmesse a noi tutti da eventi di enorme potenza storica come, appunto, l’Olocausto”.

Noi viviamo nella post-memoria nei confronti delle specie già estinte o in estinzione. Siamo subissati di immagini di specie morte (“fantasmi redivivi”, nelle parole di Hirsch), che hanno consolidato il sentimento di una fine della natura. L’estinzione possibile di migliaia di specie è un crepitio in sottofondo, und disturbo ecologico permanente che si ripercuote sulla qualità della vita su questo Pianeta. Ma è anche l’impoverimento collettivo dell’esperienza esistenziale umana, che a questo mormorio non sa dare una cittadinanza. Si vive senza animali, ma come si vive?

“E dietro un velo di lacrime ardenti, sentivo un mondo nascere in me”

Goethe, Urfaust, vv 777-778 

La post-memoria, forse, appartiene anche alle specie animali che abbiamo decimato. Ad esempio, al capodoglio (Physeter macrocephalus), per quanto ne conosce Hal Whitehead, ecologo del Dipartimento di Biologia della Dalhousie University (Halifax, Canada). Il capodoglio (Moby Dick, per intenderci) ha subito una caccia spietata tra il 1712 e il 1982 (con due picchi nel 1840 e nel 1960): milioni di individui, soprattutto maschi, a causa delle maggiori dimensioni, sono stati catturati e uccisi. L’industria baleniera ha avuto un impatto non solo genetico, ma anche culturale sulla struttura delle diverse popolazioni di capodogli distribuite negli oceani del globo e quindi sulla storia delle famiglie e dei “clan”. 

Ma per tracciare una descrizione dei capodogli entrati nel XXI secolo (“historical trajectory of sperm whale populations”), e della socialità della specie, Whitehead è partito dalla terraferma. Il suo paper uscito a gennaio su ROYAL SOCIETY OPEN SCIENCE è un esempio di approccio originale alla materia: multidisciplinare, eclettico e capace di integrare le storie degli animali con le storie della nostra specie. Andando nella direzione, quindi, di una autentica “storia globale”. Whitehead esordisce infatti facendo sue alcune riflessioni di “L’alba di tutto”(2021), il saggio di paleo-antropologia di David Graeber e David Wengrown che ha messo a soqquadro le interpretazioni tradizionali sull’origine dei legami di potere nelle comunità umane. “Leggere il loro libro mi ha suggerito alcuni paralleli tra la struttura e le dinamiche di gruppi sociali molto numerosi della specie con il cervello più grande in proporzione alla massa corporea (Homo sapiens) e la specie con il più grande cervello in assoluto (il capodoglio, Physeter macrocephalus). Queste analogie, e le loro implicazioni, sono il focus di questo paper”. 

I capodogli vivono non solo in vere e proprie società. Popolano gli oceani della Terra raggruppati in “clan” distinti, che hanno ciascuno una propria “lingua”, il repertorio di “clic” (vocalizzazioni acustiche) che compongono un lessico comunicativo simile ad un dialetto specifico per ogni clan. “I dialetti vocali sono i tratti distintivi (marker) della identità del clan. Ma ce ne sono anche di tipo comportamentale. Queste caratteristiche, come anche la appartenenza al clan stesso, vengono apprese all’interno del gruppo attraverso le interazioni sociali, per lo più in modo matrilineare. I clan sono composti da migliaia di capodogli e si spostano su distanze di migliaia di chilometri. Può capitare che un clan condivida una area con un altro, ma in genere i capidogli socializzano solo con membri del loro stesso clan”.

Se la specie si è evoluta sviluppando relazioni intra-specifiche così articolate, da cui dipende la sopravvivenza stessa del gruppo, quali conseguenze ha avuto la caccia su un periodo di tempo di quasi tre secoli? “Questi animali vivono fino a 80 anni, forse anche di più. È quindi plausibile che trattengano record traumatici della caccia (la moratoria internazionale è del 1982). È una idea interessante, anche se problematica”, scrive Whitehead raggiunto via mail. L’industria dell’olio di balena ha alterato il rapporto maschi/femmine dei grandi clan di capodogli, riducendo drasticamente il numero dei maschi, che, secondo stime purtroppo ancora approssimative, a partire dagli anni ’90 hanno cominciato a recuperare, benché molto lentamente. “Non ci sono forti certezze sul recupero della specie, quando analizziamo i trend di popolazione del 21esimo secolo su parametri random. A seconda della lunghezza nel tempo e della natura degli effetti della distruzione dei legami sociali causati dalla caccia, la tendenza attuale sembra positiva”. Non sappiamo, dunque, come i clan e la loro demografia elaboreranno e faranno propria, nei prossimi decenni, la memoria culturale e genetica di quello che è accaduto quaranta anni fa. Ma questo accadrà. È la storia evolutiva di queste specie a suggerircelo. La memoria stessa, in quanto funzione neuro-psichica, è parte del mondo. 


Se riconoscere ad altre specie il diritto ad una memoria collettiva, tramandata dai padri ai figli, ci verrà naturale quando impareremo a sopravvivere “su un mondo infetto” (Donna Haraway), c’è anche un altro compito che spetta ai sopravvissuti. Guardare dentro la memoria genetica racchiusa nella materia vivente già estinta. Ossia nel DNA storico e antico dei reperti animali e vegetali conservati nei musei, che potrebbero fornire elementi indispensabili a ricostruire “una base di partenza per la diversità genetica delle specie in declino”. Questa tipologia di reperti appartiene, sotto ogni profilo ontologico ed epistemologico, alla biodiversità del Pianeta. Soltanto in specie vegetali, gli erbari del XXI secolo custodiscono qualcosa come 396 milioni di piante

“Mentre le tecnologie moderne ci permettono di spaziare attraverso molteplici campi di ricerca, ciò che è custodito negli erbari, e in tutte le altre collezioni naturalistiche, non soltanto facilita una comprensione più approfondita, più vasta del mondo passato e del nostro mondo, ma fornisce anche strumenti essenziali per conoscere le sfide che l’umanità fronteggia oggi, e per intuirle in anticipo”.  

Charles C. Davis – Department of Organismic and Evolutionary Biology, Harvard University

Alcuni ricercatori percorrono già da qualche anno questa strada, che ha ampliato in modo paradossale la biodiversità terrestre facendo ricorso a ciò che resta di popolazioni animali estinte dalle stesse forze che, ora, cercano di salvarne altre. Oltre che gettare luce sulla gravità del collasso biologico in atto, le ricerche genetiche nei musei di storia naturale forniscono un eccellente e dettagliato sfondo storico alla defaunazione. È questo il motivo principale, molto spesso sottovalutato, della loro impagabile importanza. Sono il nostro benchmark su ciò che è estinto e va estinguendosi ora. Da questi reperti, infatti, è possibile inferire la scala della perdita irreversibile, e, soprattutto, la velocità con cui tutto questo è avvenuto. Dalla comprensione di come si è dipanata la defaunazione di una specie si può capire, talvolta, come implementare o rafforzare la diversità di specie già molto in difficoltà, che sono al centro di sforzi di conservazione economicamente rilevanti. 

“Confrontare i genomi storici con i genomi attuali può aiutare a quantificare questa erosione genetica ormai avvenuta in un modo che il semplice conteggio numerico degli individui di una popolazione di una data specie semplicemente non può darci. I genomi storici sono di aiuto alla conservazione nell’evitare errori catastrofici. Ad esempio, se una specie minacciata di estinzione vive in popolazioni frammentate, gli esperti hanno dinanzi la scelta se mischiare i geni dei gruppi separati tra loro oppure se continuare a tenerli distinti nelle popolazioni esistenti. Se le popolazioni si sono separate in seguito ad un graduale processo di adattamento a differenti pressioni ambientali, allora preservare queste divisioni ha un senso allo scopo di preservare la diversità genetica”. 

Le storie di defaunazione sono le storie più importanti, per capire la biodiversità in Antropocene. E per descrivere il mondo “naturale senza animali” dei sopravvissuti.

“La natura non-naturale ha una lunghissima storia.Viviamo in un mondo ibrido, dal punto di vista della cosiddetta natura contrapposta all’essere umano. E quindi ibride sono anche le pratiche di gestione della natura impiegate nella conservazione delle specie animali” 

Kent H. Redford

Yoshan Moodley, che insegna alla University of Venda, in Sudafrica, ha raccontato a YALE360 come ha riordinato i differenti capitoli della defaunazione del rinoceronte nero (Diceros bicornis) nei sistemi a savana dell’Africa sud-orientale a partire dal XVIII secolo. “Moodley e il suo team hanno estratto DNA da oltre 100 campioni di pelle tenuti nei musei ed hanno ottenuto 63 genomi datati tra il 1775 e il 1981”. E che cosa si è capito da questi profili genetici? “Una fotografia intera del declino del rinoceronte nero, basata più sui geni che sui numeri delle popolazioni”. Un tempo, c’erano nell’Africa sub-sahariana 9 grandi popolazioni di rinoceronti neri “separate tra loro dalle barriere naturali dei fiumi e delle montagne”. I meccanismi dell’evoluzione fecero il resto: “Avevamo popolazioni uniche dal punto d vista genetico, che si evolsero in conformità dell’ostacolo che queste barriere geografiche ponevano alla loro dispersione”. Ebbene, 3 di queste 9 popolazioni si sono estinte negli ultimi 40 anni, portando nell’oscurità del tempo profondo il loro patrimonio genetico super specifico. 

È una storia in cui si sente fin troppo distintamente l’eco della parabola del leone africano, soprattutto di quello dell’Africa Occidentale, conferma Moodley via mail. Non di rado accade, è il capitolo presente della vita dei rinoceronti neri rimasti in Kenya (il bacino numerico più consistente della loro specie), che le popolazioni rimaste, amministrate e controllate nelle riserve naturali (aree protette) abbiano assorbito gli ultimi superstiti di popolazioni ormai spazzate via. Un aspetto della cosiddetta “natura integra o selvaggia o incontaminata” su cui bisognerebbe riflettere. Se non altro perché, come sostiene Kent H. Redford, il pioniere degli studi, purtroppo interrotti da 30 anni, sulla defaunazione dell’Amazzonia, l’evoluzione di almeno una parte delle comunità di animali selvaggi che amiamo considerare tali è già da molto tempo condizionata solo dagli esseri umani (human-reliant nature). 


I sopravvissuti all’inizio della sesta estinzione hanno ereditato un passato di genocidi e di ecocidi. Nella loro post-memoria la distruzione del Pianeta significa soprattutto darne per scontato l’esito. Ma sopravvivere non è vivere. Vuol dire passare oltre qualcosa che non ha più vita. Quindi sopravvivere alla defaunazione della Terra (ampiamente irreversibile), al cambiamento climatico, alla nientificazione delle forme di vita non umane è un processo di guarigione , piuttosto che un pragmatismo strategico o tecnologico. Si deve guarire dal sentimento che tutto sia perduto, che non ci sia più nulla da perdere, che la perdita e l’assenza siano l’approdo finale degli esseri umani. 

Lawrence  W. Gross appartiene alla nazione Anishinabe (nativi del Nord America, attuali Stati Uniti) e insegna Native American Studies, Race & Ethnic Studies alla University of Redlands (California). È stato un pioniere dell’integrazione degli studi sulla cultura e la storia degli Indiani americani nei programmi universitari. Una delle questioni centrali del suo impegno è stata riuscire a parlare del genocidio nordamericano senza suscitare una chiusura ideologica o emotiva preventiva negli studenti bianchi. Per la loro limpidezza e schiettezza alcuni dei suoi suggerimenti, assorbiti dalla saggezza Anishinabe, suonano oggi come una sorta di bussola per orientarsi nel caos della distruzione ecologica. Nella poli-crisi globale, per l’appunto.

I genocidi e gli ecocidi che hanno reso possibile l’impresa (la supremazia europea) sono il nostro contesto storico. Per questo è essenziale “sviluppare le capacità negative”, cioè non orientate subito al risultato. Dice Gross: “Una capacità negativa è la forza interiore di rimanere aperti al mistero, all’incertezza e al dubbio. Le appartiene l’immaginazione, ossia un sapere che sa immaginare visioni e sogni”. Contro l’accettazione indifferente del genocidio e delle sue conseguenze contemporanee serve “il pensiero a lento accrescimento”. Ossia un metodo per acquisire una conoscenza sul mondo in cui le informazioni sono apprese in “strati, costruiti in geometrie sovrapposte, integrate le une dentro le altre, che producono un senso solo progressivamente e in modo interdipendente”. È una descrizione bellissima da affiancare alla storicità ermeneutica del Dilthey. Una rottura con gerarchie preliminari. Con i giudizi a priori cristallizzati nelle strutture di potere affermatisi storicamente. 

Per Gross, la sopravvivenza all’estinzione è una scelta. “Si tratta di scegliere tra il continuare a vivere in un mondo in cui ci si uccide a vicenda oppure in un mondo in cui si elaborano modi per interrompere l’omicidio standardizzato. Per alzarsi in piedi e dire, non deve più succedere ! (Stand up and saying, never again!)”. 

(Foto di copertina: Collezioni Etnografiche del Museo di Storia Naturale di Firenze, I SOGNATORI DELL’ ALCE – The Elk Dreamers, Edizioni Firenze 2010. I genocidi coloniali sono parte della sesta estinzione di massa. Perché per sterminare quei popoli gli Europei misero in atto una “guerra totale” anche contro i loro ecosistemi, e le loro fonti di sopravvivenza. In più, è la organizzazione-mondo derivata da colonialismo che ha dato inizio alla crisi di estinzione moderna).

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