“I leoni sono presenti in un ventaglio molto ampio di circostanze geografiche”, dice Peter Lindsey di LION RECOVERY FUND, confessando così quale dovrebbe essere la visuale corretta per rintracciare e osservare i grandi gatti del colore dorato della savana al tramonto. In questo terzo decennio del XXI secolo, se si vuol parlare del leone africano, non basta più nemmeno evocare i territori selvaggi e l’aspro ricordo del posto che un tempo occupavano nel cuore degli uomini. Peter Lindsey e il suo team fanno ricorso ad una altra topografia: le regioni super-wild.
É la sera del 10 agosto (Central Europe Time) e siamo collegati in diretta Zoom con Lindsey e il suo collega dottor Michael Kaelo, Lion Ambassador per i Masai al Masai Mara, in Kenya. Chi volesse capire qualcosa dello stato di salute dei leoni in Africa, è a Lindsey che deve rivolgersi. Ma LRF non è un punto di arrivo. LRF è il porto in cui imbarcarsi per un lunghissimo viaggio. Non conosciamo ancora la nostra destinazione. Oggi il leone sopravvive nelle riserve e in parchi nazionali superbi, che, però, sono porzioni di Africa. Non sono più la sua Africa. Sono l’Africa degli uomini e delle donne. E, spesso, di uomini e donne dalla pelle bianca arrivati in Africa con un volo di linea.
Le regioni super-wild di cui parla Lindsey sono gli ecosistemi dove è ancora possibile quello che solo un secolo fa era praticamente dappertutto sul continente. La Repubblica Centro Africana (CAR): “paesaggi immensi”. Il sud del Chad: “lo Zakouma”. Il Nord del Mozambico. La porzione sud-occidentale della Tanzania. Il Sud Sudan: “esteso quanto lo Yellowstone”. Tutti posti da “mettere in sicurezza, perché si sono mantenuti eccezionalmente selvaggi, grazie ad un mix di condizioni e ad una bassa densità demografica”.
Sono habitat sopravvissuti o risparmiati, a seconda del punto di vista. Ma proprio per questo interrogano Africani ed Europei senza riguardo per la autocommiserazione e la propaganda: se solo questo è per davvero Africa, allora che cosa ne rimane dell’Africa, con i suoi animali insieme alle sue genti? Chi o che cosa ha rotto o cancellato il legame paleo-storico tra gli animali africani e le civiltà africane? Che cosa ne sarà dei leoni se soltanto distretti africani a statuto speciale saranno ancora Africa?
Prima ancora che il rischio dell’estinzione del leone africano divenisse concreto, decennio dopo decennio è diventata realtà la frammentazione della specie. Questo è l’angolo visuale a cui accennava Peter Lindsey. Ed è questo che l’opinione pubblica occidentale dovrebbe capire. I leoni, per come sono distribuiti oggi sul continente, hanno già attraversato importanti processi di estinzione locale che hanno sbozzato la configurazione genetica della specie nel mosaico di riserve e aree protette attuali, sommandosi agli effetti storici del colonialismo. La specie è sparpagliata, resiste in roccaforti isolate, alcune delle sue popolazioni (Africa occidentale e centrale) sono sulla soglia del non ritorno. I leoni hanno tenuto, ma i fattori di decimazione della specie procedono indisturbati, innescati dall’agire degli esseri umani.
Coraggiosi tentativi di reinserimento o di protezione della specie sono in corso, in quadranti geografici in cui parlare di leone sembra una conversazione sull’acqua nel deserto. Eppure, imponenti habitat a foreste decidue rimangono ad esempio in Senegal. Al Niokolo Koba (patrimonio UNESCO) raccolgono dati da qualche anno i ricercatori di PANTHERA, insieme ai colleghi del Senegal’s Department of National Parks (DPN). Lo scorso marzo un collare a GPS ha consentito di seguire e fotografare una leonessa di dieci anni e i suoi tre piccoli. Si suppone che dal 2021 questa leonessa abbia avuto almeno 9 piccoli, “contribuendo così ad un terzo della popolazione totale di leoni del Niokolo Koba”.

(Senegal, Niokolo Koba, Credits Panthera)
“Da quando PANTHERA ha cominciato il lavoro al Niokolo Koba nel 2011, la popolazione di leoni è raddoppiata da forse 10-15 individui ai 30 attuali (…) Tra i 9 cuccioli di questa leonessa (ribattezzata Florence) ci sono 3 maschi che hanno formato la prima coalizione di fratelli del parco. Una male coalition è un segnale molto incoraggiante, perché questi gruppi di giovani maschi compaiono solo quando ci sono molti individui, abbastanza per avviare la competizione dei maschi per il territorio”. PANTHERA punta ad arrivare a 50 individui entro il 2025 e 100 entro il 2030. La capacità di carico del Niokolo su questo predatore sarebbe di 180-240 leoni.

(Senegal, Niokolo Koba, Credits Panthera)
In tutto il Senegal rimangono quindi 30 leoni. In Africa occidentale lo home-range della specie è crollato del 99% nell’ultimo secolo e ci sono solo 120-374 leoni nell’intera Africa occidentale. Ed è questo il motivo per cui gli Europei, i turisti europei, tendono a non associare più la presenza del leone ai Paesi che si estendono dal Golfo di Guinea alle prime propaggini delle foreste tropicali centrali del continente. Eppure, il leone occidentale è una sottospecie (oggi classificata in Red List IUCN con il nome di Panthera leo leo), probabilmente più vicina ai leoni asiatici che ai leoni dalla criniera nera delle savane orientali e meridionali (Panthera leo melanochaita), che comprendono anche il Kalahari (Botswana e Namibia, nord del Sudafrica).
Recentemente (nel 2020 sulla PNAS, “The evolutionary history of extinct and living lions”) alcuni ricercatori hanno ipotizzato che i leoni dell’Africa Centrale (Repubblica Centro Africana, CAR) abbiano più alleli in comune con i leoni meridionali (Panthera leo melanochaita) rispetto a quanto sospettato finora. Secondo questa ricostruzione genetica, l’Africa occidentale “insieme a quella centrale fu forse un crogiolo (melting pot) dei geni di diversi antenati, dalla diversa provenienza”.

(Senegal, Niokolo Koba, credits Panthera)
Questo significa che i leoni occidentali sono stati quasi spazzati via prima di conoscere con esattezza la loro storia evolutiva, le loro linee di derivazione (evolutionary lineage) e la loro genetica. Ma, a questo punto, non ci si può limitare a invocare la protezione para-militare contro il bracconaggio per tentare il tentabile (l’instabilità politica della regione, dopo i golpe in Mali, Burkina Faso, Niger e Gabon, è un fattore tutt’altro che secondario, che chiama in causa anche una fase di rifiuto post-coloniale dinanzi alla presenza straniera europea).
Se i leoni occidentali un tempo erano comuni, perché sono scomparsi? E che cosa, delle civiltà locali, è evaporato insieme a loro? Che impatto culturale ha avuto la defaunazione del leone in Africa occidentale? La storicità del destino di questa sottospecie sta nel ruolo, per noi Europei semi-sconosciuto, che il leone aveva prima della rapina coloniale, prima che i paesaggi africani venissero arruolati nello schema della conservazione della natura, prima che i leoni africani ottenessero un ticket privilegiato per la sopravvivenza nel sud-ovest del continente, grazie all’economia dei safari di lusso.
La distanza tra noi e questo prima è il collasso eco-climatico.
È indispensabile trovare e coltivare un punto di sutura tra la conservazione e il post-colonialismo. In una parola, è urgente elaborare un nuovo discorso sul leone africano. Provocatorio, irriverente, polifonico, fatto di Mondo.
Non è del resto solo la Convenzione Mondiale sulla Biodiversità a dover entrare ormai in una stagione di brutale rinnovamento. Vale lo stesso per IPCC. “Mentre IPCC può anche non favorire una politica sopra le altre, la compagine dei partecipanti alla stesura dei suoi rapporti sicuramente esercita un effetto notevole sulla scelta delle politiche prese in considerazione, e sul modo in cui vengono discusse e definite. Negli ultimi cicli di lavoro, il Panel ha diversificato i suoi autori, questo è vero. Eppure, scienziati del sud globale, sociologi e ricercatori in ambiti umanistici, voci indigene e rappresentanti di saperi non occidentali costituiscono ancora una minoranza. E quando le soluzioni possibili sono proposte senza un ventaglio di pareri e di valori rappresentativo, il rischio è di perpetuare le esclusioni e le ingiustizie consolidate, se non addirittura di esacerbarle”.
Ma anche se la politica non contasse nulla, è la condizione del Sistema Terra a imporre di pensare ogni angolo di biodiversità (e quindi ogni specie) in un contesto planetario. Un monito ripetuto da uno assessment impressionante sulle soglie-limite dell’equilibrio bio-fisico che abbiamo già oltrepassato pubblicato il 13 settembre scorso su SCIENCE ADVANCES (“Earth beyond six of nine planetary boundaries”). È un non-senso insistere nel parlare di aree protette e parchi nazionali, e non di Sistema Terra. “Di solito le perturbazioni su base antropogenica dell’ambiente globale sono discusse in prima istanza come problemi separati. Ne sono un esempio il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità o anche l’inquinamento. Tuttavia questo approccio ignora completamente le interazioni non lineari che disturbano il sistema e che sono il risultato dell’aggregazione di molteplici effetti sullo stato complessivo del Sistema Terra”.
Questo ci riporta nel cuore della questione della diversità genetica del leone africano e del perché essa ha un significato che va ben oltre la singola tenuta di un hotspot. “Miriadi di interazioni con la geosfera (il flusso di energia e di materiali non viventi che ha luogo sulla Terra e in atmosfera) hanno reso la biosfera una componente costituiva del Sistema Terra e un fattore fondamentale nella sua regolazione. La funzionalità della biosfera su scala planetaria dipende, in definitiva, dalla sua diversità genetica, ereditata attraverso i processi della selezione naturale, non soltanto durante la propria dinamica storia di co-evoluzione con la geosfera, ma anche tramite il ruolo funzionale di controllo e condizionamento che questa stessa diversità genetica ha sulla Terra nella sua interezza. La diversità genetica, e di conseguenza la sua capacità di contribuire al funzionamento del pianeta, misurate in parametri attendibili (proxy) sono perciò due dimensioni sostanziali della integrità della biosfera espressa in una soglia limite sulle forme di vita (planetary boundary for biosphere integrity). Quando parliamo di integrità della biosfera non intendiamo una assenza di cambiamento, ma piuttosto che il cambiamento preserva le dinamiche essenziali e il carattere adattativo stesso della biosfera”.
Se la biodiversità africana tiene quando ha a disposizione enormi contesti geografici (“super wild”), è anche vero che i biomi africani, come in qualunque altra contrada del mondo, stanno rispondendo al cambiamento dei pattern climatici (regime delle piogge, siccità, alternarsi delle stagioni umide e secche). Quindi qualunque storia di leoni, ormai, si inserisce nelle alterazioni planetarie in corso. L’impoverimento genetico della specie, che in un secolo, il Novecento, ha perso il 75% del suo home range originario, è un fattore in gioco. È un tassello del Sistema Terra. Causa ed effetto di processi che non si concludono sul continente di Panthera leo.
La soglia limite sulle forme di vita (planetary boundary for biosphere integrity) viene espressa e calcolata come soglia di confine per la quantità di diversità genetica presente sulla Terra: “il massimo tasso di estinzione accettabile perché la base genetica della biosfera preservi la sua complessità ecologica”.
È in estinzione 1 milione di specie. Negli ultimi 150 anni abbiamo già perso il 10% della diversità genetica delle piante e degli animali. “Possiamo affermare che, quindi, la componente genetica della integrità della biosfera è già oltre il suo limite. Marcatamente”. Gli autori di questo studio usano però anche un altro indicatore del collasso, e cioè la produzione netta primaria (le piante, gli alberi, le praterie: la vegetazione del Pianeta), per stabilire l’impatto delle attività umane che implicano il taglio, la distruzione, la conversione d’uso (agricoltura e pastorizia) e il degrado della copertura vegetazionale globale. “Anche questa soglia-limite è stata superata, ma già nel XIX secolo, un’epoca di considerevole accelerazione nell’uso del suolo su scala globale, con enormi impatti sulle specie”.
Storie ottocentesche, storie, proprio per questo, di totale contemporaneità. “Super-wild” vuol dire “super-storico”: luoghi che rispondono (fornendo risposte e ponendo domande, mettendo in moto lo scambio essenziale tra organico e inorganico, tra riproduzione e morte) alla storia paleo-evolutiva e antropogenica del Pianeta. Luoghi selvaggi, che però non sono selvaggi solo perché sono brutalmente popolati di animali magnifici in paesaggi Earth-made. Ma perché sono soggetti storici del XXI secolo. La loro persistenza è un residuo di altre epoche, ma l’assenza, al loro interno, delle ferite della nostra epoca le consegna alla storicità della nostra specie in sommo grado. Da questo punto di vista queste regioni non sono né primigenie né primordiali: sono la storia della “antroposfera” in una interdipendenza di relazioni storiche ed evolutive che hanno trovato una epifania fragilissima, eppure grandiosa.
Sono queste storie giunte fino a noi che spiegano che cosa è la sesta estinzione.
Bisogna guardare il destino del leone africano nella “grande fotografia” di ciò che sta accadendo in Africa. Ad esempio nell’ambito della cosiddetta mitigazione del cambiamento climatico. Il clima riguarda i leoni. La storia millenaria dei leoni in Africa è fatta anche di clima. Lo ha riconosciuto anche IPBES: il cambiamento climatico è un fattore interno alla protezione delle specie, non una appendice o una glossa a piè di pagina.
Alcune di queste controversie storiche sono emerse nell’appena concluso AFRICAN CLIMATE SUMMIT (ACS) di Nairobi, voluto e convocato dal Presidente del Kenya, William Ruto. Questa è stata la prima volta che una cordata di Paesi africani si sono riuniti per stilare una propria agenda sui cambiamenti climatici, e sulle strategie per farvi fronte in modo economicamente vantaggioso, da presentare alla prossima riunione della UNFCCC, che si terrà in dicembre a Dubai (COP28).
Lo ACS è di fatto una passerella per sancire l’accettazione, almeno da parte di alcuni Stati del continente, dello schema di estrazione di profitto opportunisticamente tarato sulle esigenze ecologiche del nostro secolo che nel Nord Globale va sotto il nome di “economia verde” e “crescita verde”. Alcune delle strategie finanziarie caratteristiche di tale approccio sono da tempo state assorbite anche dalla Convenzione Mondiale per il Clima (UNFCCC). Dunque esse rientrano, a tutti gli effetti, nelle soluzioni considerate applicabili e realistiche nelle cancellerie politiche delle economie avanzate. Ma un posto d’onore l’hanno qui i crediti di carbonio, ossia i meccanismi di valutazione e vendita sui mercati delle quote di carbonio che sarebbero risparmiate all’atmosfera conservando intatti foreste e habitat ancora integri. Oppure riforestando. Il “carbon trade” è un sofisticato sistema di intensificazione del profitto. In nome della protezione del clima, infatti, mette di nuovo a reddito quel che resta della Terra. Pur di salvaguardare la cornice economica capitalista, l’equilibrio climatico terrestre viene così risucchiato nelle stesse logiche che lo hanno messo a carte quarantotto. Facendo buona compagnia alla logica delle “aree protette” inquadrate nel turismo di lusso.
Eppure, non sono poche, anzi, le ombre e le ambiguità che cominciano a spuntare attorno ai crediti di carbonio. NATURE, pur sostenendo il concetto che sta dietro al carbon trade, ne ha discusso i limiti in un Commento pubblicato la scorsa estate (“Redesign carbon-removal offsets to help the planet“, VOL 620, 31August 2023). Nell’autunno del 2022 una vasta inchiesta giornalistica anglo-tedesca aveva scoperchiato la triste realtà di questo mercato: il carbon offsetting (vendere e comprare quote di carbonio per controbilanciare e compensare le emissioni dei settori ad altissima intensità energetica) è un ben congegnato trucco di greenwashing.
“Una indagine durata nove mesi e condotta da The Guardian, DIE ZEIT e SourceMaterial ha rivelato che ‘gli offset calcolati sul carbonio delle foreste, approvati dai migliori rivenditori internazionali e impiegati dalla Disney, da Gucci e da altre potenti corporation, sono sostanzialmente vuoti di contenuto. Anzi, potrebbero addirittura peggiorare il riscaldamento globale’. Secondo The Guardian, che ha pubblicato l’inchiesta in prima pagina, ‘le investigazioni dentro VERRA, il leader mondiale nella definizione degli standard sul carbonio nel mercato volontario da due miliardi di dollari in rapida espansione, ha scoperto che, analizzando una buona percentuale dei progetti di offsetting, oltre il 90% dei crediti ricavati dalle foreste pluviali, i più utilizzati dalle aziende, erano di fatto crediti fantasma e non rappresentavano nessuna riduzione effettiva di carbonio emesso”.
Le contraddizioni inquietanti del sistema sono state discusse anche da YALE360. La Liberia, ad esempio, ha deciso di consegnarsi a cambiale in bianco a questa finanziarizzazione delle proprie foreste (quasi la metà di quel rimane della Upper Guinea Forest, che una volta occupava la maggior parte della costa tropicale dell’Africa Occidentale). La Liberia ha la popolazione più grande di elefanti di foresta (Loxodonta cyclotis), classificato in “critica status” dalla IUCN Red List. Questa specie distinta di elefante (ufficializzata in tassonomia soltanto qualche anno fa) è un esempio perfetto di defaunazione. I Portoghesi cominciarono a commerciare avorio di cyclotis già alla fine del XV secolo, quando si muovevano indisturbati lungo le coste atlantiche dell’Africa. Su 17 tipi genetici (aplotipi) individuati come esistenti attorno al 1533 oggi ne rimangono solo 4.
La settimana africana del clima si è quindi aperta all’insegna di una ambiguità che moltissime organizzazioni non governative africane chiamano con il più provocatorio dei nomi: colonialismo verde. Lo Oakland Institut, che lavora sulle violazioni dei diritti umani sotto l’egida della conservazione degli ambienti naturali, ha messo insieme un dossier preoccupante (Green Colonialism 2.0: Tree Plantations and Carbon Offsets in Africa) sui conflitti di interesse che stanno dietro la decisione del Kenya di inaugurare la strada africana ai negoziati per un clima terrestre prima di tutto compatibile con l’economia del profitto.
Secondo lo Oakland, ACS “consente alle imprese dei Paesi ricchi di continuare ad inquinare, mentre all’Africa spetta il compito di rifornirli di crediti di carbonio. Invece di beneficiare il continente, l’espansone del carbon offsetting in Africa diventa uno strumento per la continua crescita economica e per l’espansionismo del Nord Globale, mentre al contempo sostiene lo status quo fondato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse e l’inquinamento delle emissioni serra”.
Nel magico paniere di “nature-based solutions”, soluzioni climatiche progettate sulle risorse naturali stesse, figurano anche le piantagioni di alberi di valore commerciale. Piantagione è qui la parola chiave per capire di che cosa stiamo parlando, perché piantagione è un concetto economico che viene da lontano e che risuona di eco ben precise. Le piantagioni di specie arboree non autoctone (come l’eucalipto), che dovrebbero assorbire carbonio, poi monetizzato, presuppongono l’espropriazione dei villaggi e delle terre dalla popolazione locale. Ma sono anche una perdita di sovranità nazionale e di patrimonio biologico, perché pianificano di impiantare ecosistemi artificiali al posto degli ecosistemi originari. Nonostante questo, le compagnie che vi operano parlano spesso di conservazione, per descrivere il valore intrinseco dei propri alberi.
A Nairobi sono confluiti gruppi di stakeholder molto vari. I media tedeschi hanno enfatizzato l’opportunità, per la Germania, di stringere in Africa alleanze sulle energie rinnovabili, che comportano accordi più stretti anche sull’idrogeno liquido, di cui già il Ministro dell’Economia aveva parlato con il governo della Namibia nel dicembre 2022. Che i conti non tornino lo dimostrano i conflitti di interesse denunciati dal report di Oakland Institut porta che hanno animato ACS sin dall’inizio.
Tra le cordate più importanti presenti a Nairobi è la Africa Carbon Markets Initiative (ACMI). “La ACMI è stata lanciata alla COP27 in Egitto da una coalizione di organizzazioni focalizzate sul produrre un impatto significativo a favore della integrità del clima, sull’energia pulita, e sullo sviluppo sostenibile, per accelerare la crescita del mercato volontario del carbonio in Africa”, si legge sul sito ufficiale. “ACMI è il risultato delle intenzioni congiunte di Global Energy Alliance for People and Planet (GEAPP) e Sustainable Energy for All (SEforALL), con il supporto di UN Climate Change High-Level Champions. É guidata da un comitato di 13 leader africani e da esperti del carbon market”.
Il dietro le quinte di tutto questo, secondo Oakland Institut, è un po’ meno virtuoso. “ACMI è fondamentalmente guidata dagli interessi del Nord Globale, che sono alla ricerca di modi con cui sfruttare le risorse africane, inclusi gli interessi coperti dalla filantropia, le industrie pesanti grandi emettitori di carbonio e anche i governi nazionali. Il GEAPP, ad esempio, è ‘una alleanza di filantropi, imprenditori locali, governi, partner tecnologici, politici e finanziari’ che ha ricevuto fondi dalla Rockefeller Foundation, dalla Ikea Foundation, dalla Bezos Earth Fund, ma anche dalla African Development Bank, dalla International Finance Corporation della World Bank, e dalla British International Investment. Il vice presidente per l’Africa del GEAPP è Joseph Ng’ang’a, che siede anche nel comitato direttivo di ACMI ed è CEO dello 2023 Africa Climate Summit. Il quartier generale di SEforALL è a Vienna, riceve finanziamenti da diversi governi (Danimarca, UK, Italia, Islanda, Germania) e da grandi inquinatori come Google, IBM e Shell”.
Per tutti questi motivi si parla di “carbon colonisation” (definizione complementare di “fossil conservation”), una ristrutturata forma di colonialismo attuata, stavolta, grazie alle infinite possibilità di speculazione offerte dalla causa chimica numero uno del cambiamento climatico: l’anidride carbonica.
Questo scenario, però, ha già messo in movimento anche fronti di opposizione. Qualcosa di enorme si sta muovendo anche in Europa nel racconto che questo secolo è disposto a concedere a se stesso sul futuro delle specie animali.
Le “ecologie decoloniali” sono le ecologie pensabili al di fuori degli schemi europei ereditati. Esse puntano a interpretare la biosfera, e le culture umane, lontano dai luoghi del sapere occidentale codificato, ritenuto inesorabile e vincolante. L’intelaiatura fondamentale della conservazione delle specie è investita in pieno da questo tifone di provocazioni. Perché la biosfera è il presupposto di ogni civiltà. È la sostanza di cui sono fatte le civiltà. Noi esistiamo mentre ogni singolo movimento del nostro intelletto e del nostro organismo appartengono alla storia della Terra. Siamo afoni e paralizzati, quando ignoriamo che le nostre cellule si sono tramandate di generazione in generazione dalle prime scimmie del Miocene ai primi Homo sapiens (4.5 milioni di anni fa – 250-200mila anni fa circa).
Questa tradizione genetica ed evolutiva significa che non siamo autorizzati a scambiare la parte per il tutto, il pensiero europeo per il Pianeta stesso.
Le teorie europee sulla natura sono il modello, lo stampo, dell’Antropocene, ma non sono la Terra. Lo HUMBOLDT FORUM di Berlino pone le ecologie decoloniali là dove solo possono stare: nella forma di una organizzazione-mondo che deve perseguire in ogni suo angolo la massima coerenza possibile.
“Nella nostra serie di podcast Decolonial Ecologies, prodotta e curata dalla dottoressa Aouefa Amoussouvi, parliamo della storia dell’ecologia e di come essa sia diventata un campo di studi accademici interconnesso con sistemi di potere e oppressione. Colonialismo, patriarcato, capitalismo, eurocentrismo, eteronormatività sono stati applicati alla conoscenza ecologica, che pretende di essere universale ed obiettiva. Perciò, i musei e le università hanno contribuito a plasmare e giustificare un modo di abitare la Terra improntato a logiche estrattive”.
È il richiamo irresistibile di questa omologazione coerente (Übereinstimmung) che spinge per amministrare la natura come una riserva o una piantagione. Nulla può resistere all’esterno, perché l’esterno è un assurdo ontologico.
Lungo queste crepe del secolo si muove il dottor Mordecai Ogada, che ha registrato con lo HUMBOLDT FORUM un podcast non convenzionale sulla percezione che ha un ecologo keniota (Ogada stesso) della conservazione delle specie protette in Africa. Le parole di Ogada dovrebbero essere messe a confronto con le ben documentate analisi di Peter Lindsey in un dialogo pubblico, perché sono così stridenti e così affilate da restituire, attraverso il contrasto delle opposte opinioni, la misura della realtà, dei sentimenti, della posta in gioco, del timore del razzismo, e del desiderio di non rimanere ostaggio delle ideologie razziali. Questo è un dibattito cui vorremmo assistere allo HUMBOLDT FORUM.
Dobbiamo ritrovarci in un luogo di pace, e non avere paura del vigore e della rabbia delle nostre opinioni. Dobbiamo discutere in un luogo neutro, in cui si possa essere al riparo da ogni violenza storica, ereditata, tramandata. Dobbiamo andare incontro ai contrasti che ci separano a testa alta, per riuscire finalmente ad abbandonarli al loro passato. E ricominciare.
È vero, il leone è minacciato di estinzione. Ma non solo perché la sua natura è minacciata (un predatore di vertice che ha bisogno di estesissimi home range). Ma anche perché esistono tra gli esseri umani del XXI secolo opposti modi di amare non solo la sua natura, ma anche la natura in generale.
“Nel Kenya coloniale i parchi erano nati come luoghi di ricreazione per i coloni, luoghi indipendenti e circoscritti. Spazi bianchi, che come tali si consolidarono soprattutto dopo il 1961. La conservazione rimase nelle mani dei bianchi occidentali e dei loro interessi, anche dopo l’indipendenza del Paese, quando molti settori sociali furono invece nazionalizzati. Oggi la conservazione divide il nostro Paese. Le decisioni ambientali di peso globale vengono prese sistematicamente in Europa (…) Come il colonialismo sopravvive nei movimenti ambientalisti, ecco il punto essenziale”.
Le logiche di protezione delle specie sono intrecciate con gli stili di vista europei e con le potenti architetture dei negoziati sul clima e sulla natura.
“La sostenibilità è un concetto soggettivo, un punto di vista, non una categoria obiettiva. Il turismo sarebbe sostenibile, mentre cacciare per procacciarsi di che mangiare (bushmeat) non lo è. A mio parere le donazioni per la natura sono riciclaggio. In Kenya valgono 25 milioni di dollari all’anno, una vergogna, se pensiamo che accanto a certe conservancies si fanno esplorazioni petrolifere, se pensiamo che la TOTAL finanzia la conservazione in Gabon (…) Anche il carbon trade è riciclaggio. Perché? Perché le persone dovrebbero essere responsabili del loro uso dell’ambiente, e non tentare di compensare dopo aver sprecato. I soldi non reducono le emissioni”.
Come può un turismo basato sui viaggi aerei intercontinentali ad altissimo tasso di emissioni essere il perno su cui ruotano le politiche sostenibili per la natura?, si chiede Ogada. E sulla scorta di quale pensiero, allora, Ogada si oppone alla conservazione classica? “Non abbiamo bisogno di conservare la natura perché noi dipendiamo dalla natura. La natura è parte degli uomini e riconoscerlo è il principio più importante per proteggere il Pianeta. Ogni individuo porta la responsabilità individuale e locale, ora, adesso, di come usa il Pianeta. La natura-senza-gli-uomini: abbiamo creato una natura che non è mai esistita”.
Quello che Ogada auspica è la piena accettazione di una natura africana non confinante con l’Africa, ma parte dell’Africa stessa. E a noi in Europa di questa Africa non ha mai parlato nessuno.
Intanto, il 10 agosto, Michael Kaelo ha raccontato del suo Masai Mara (MARA PREDATOR CONSERVATION PROGRAM), di piste possibili, di esperimenti di convivenza tra pastori e leoni (grazie a boma fortificati non solo con cespugli spinosi, ma anche con reti metalliche, per scoraggiare i leoni dall’attaccare i bovini durante la notte), di compromessi non perfetti, forse sbagliati, che però hanno un loro respiro. Un respiro che proviene dallo spirito e dall’intelligenza di persone che provano a fare la cosa giusta. Siamo tutti implicati nelle ferite del colonialismo, che sfregiano la buona volontà, il coraggio, la dedizione. Ma è indubbio che un uomo come Kaelo sia dalla parte dei leoni.
E il Masai Mara soffre. Da qualche anno la pressione sulle sue risorse idriche è in costante aumento, a causa dell’espansione dell’agricoltura, soprattutto delle risaie, e dei conseguenti progetti di dighe (32) prospettati dal governo centrale di Nairobi. Le dighe sul Mara avrebbero conseguenze enormi anche sul Serengeti, in Tanzania, che confina con il Mara, l’unico fiume perenne di quest’area. A partire dagli anni ’90, l’alto corso del Mara è stato alterato da una deforestazione rampante, dalla pressione demografica e dalla fame di terra da dissodare. Secondo il National Water Masterplan 2030 del Kenya, la domanda di acqua nel Paese, calcolata sui bisogni del 2010, era di 385 milioni di metri cubi all’anno, ma nel 2030 sarà di 2953 metri cubi. Il 79% deve andare all’agricoltura. È per questo che si parla di dighe imponenti nel bacino del Mara.
Nel 2017 un paper uscito su ORYX lanciava l’allarme (The Serengeti will die if Kenya dams the Mara River): anche il Serengeti morirà, se il fiume Mara verrà interrotto con le dighe. Il Serengeti ha una tra le popolazioni di leoni più grandi di tutta l’Africa (almeno 500 individui adulti, stime PANTHERA). Gli uomini sono sempre stati parte dell’ecosistema del Mara. Eppure oggi i Masai sono un problema per i leoni, e i leoni sono dei nemici per i Masai. Chiedo a Kaelo perché le coste stanno così, e se conferma questi dati sul fabbisogno idrico. “È vero, i Masai hanno sempre convissuto con i leoni, eppure ora siamo costretti a parlare di un conflitto sempre più acceso tra loro e i pastori nomadi Masai. Il motivo è la competizione per le risorse, negli ultimi 9 anni la popolazione della regione del Masai Mara è raddoppiata. Si vive troppo vicini gli uni agli altri, ci sono troppe interazioni”.
Se anche il turismo fosse davvero la chiave per garantire ai leoni un futuro, lo spazio disponibile per loro è una altra variabile che nessuno si può permettere di ignorare. “La specie non è ancora in inbreeding”, assicura Lindsey rispondendo ad una delle domande in diretta, ma “la prospettiva del 30% entro il 2030 (il target di protezione della biodiversità uscito dalla COP15 di Montreal a dicembre 2022) è molto eccitante, un target sicuramente significativo per i leoni, a patto che le nazioni più povere siano supportate e che venga rafforzata la conservazione in collaborazione con le comunità locali”.
Perché questa collaborazione sia possibile dobbiamo condividere, Africani ed Europei, la stessa di Mondo, e quindi di natura.
Avvertenza: ho chiesto a Lion Recovery Fund, alla dottoressa Amy Dickman, direttrice di WildCru Oxford e WILDERNESS SAFARIS, un parere sulle “Decolonial Ecologies” proposte dallo Humboldt Forum e da Mordechai Ogada. Sono ancora in attesa delle loro risposte.
(Foto in copertina: Credits OeBenin appropriately. African Parks has the right to distribute these images to its donors, as well as partner NGOs, media and tourism organisations for the non-commercial purposes of promoting African Parks and / or the parks. For any commercial usage, African Parks will consult with OeBenin. Appropriate credit must be given to OeBenin at all times – courtesy dr Peter Lindsey).
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