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La sesta estinzione è una nuova dimensione della realtà, che costringe le comunità umane globali a guardare in faccia l’ipotesi di un caos in espansione. Il caos è l’instabilità, la precarietà e la fragilità delle società moderne interdipendenti che cercano di sopravvivere utilizzando schemi economici, giuridici e storici ormai obsoleti. Alcuni ricercatori lo chiamano “poli-crisi”, sovrapposizione di più fronti di crisi contemporaneamente. Ma il caos è anche la sensazione che si debba andare in cerca di modelli alternativi sprofondando, almeno per ora, nella consapevolezza del disastro, della perdita, dell’irreversibile. 

La sesta estinzione è una compenetrazione reciproca di fenomeni biologici in divenire (evoluzione dei viventi, età dei mammiferi, fine del Pleistocene, cambiamento climatico) e intenzioni umane. È una azione contraddittoria del Pianeta sugli uomini e degli uomini sul Pianeta. È una faglia in movimento e in continua frizione da almeno 5 secoli, che pone interrogativi senza risposta e genera disordine con le sembianze, invece, di un ordine incontrovertibile (la civiltà moderna tecnologica, gli Stati nazionali, i mercati, le Borse, la crescita). 

Lo “specicidio” è storia fatta e subita dagli esseri umani. Subiamo le conseguenze dello spopolamento degli ecosistemi, ma ne siamo noi i fautori. Scivoliamo dentro un mondo più caldo di forse 4 gradi Celsius entro pochi decenni, ma siamo noi ad aver bisogno dei combustibili fossili. Queste epopee di distruzione consapevole e però anche inconscia sono tra le narrazioni più potenti e seducenti del XXI secolo. La storia fatta dagli uomini per gli uomini è sostanzialmente il mito europeo del progresso, che nasce con la grande frattura del Cinquecento. La storia subita dagli uomini è il reagente chimico indispensabile per il progresso: il genocidio che lavora in sincrono con l’ecocidio, spingendo a forza le pratiche di sterminio dentro le prassi di costruzione degli Stati nazionali e delle loro economie moderne. 

La coscienza moderna, per essere davvero moderna, deve imparare a tollerare la convivenza con la morte. Questo è il senso ultimo della mania per la classificazione che emerge ovunque nel pensiero scientifico e antropologico dell’Ottocento e del primo Novecento. Ma le tassonomie ritenute moralmente valide (bianchi, neri, selvaggi, civilizzati, animali con nomi indigeni, animali con nomi in latino) servivano essenzialmente per normalizzare lo sterminio. Ecco perché l’estinzione dei “popoli condannati a scomparire” e delle specie “ostacolo all’agricoltura e ai villaggi” è una assuefazione alla morte con uno obiettivo molto pratico, utilitaristico, efficiente. La sesta estinzione non è nichilistica. È pragmatica. È imparentata con la logica, una attitudine tipicamente europea. La sesta estinzione è quindi anche un discorso critico di sintesi sul carattere della civiltà europea. 

Questo stanno rivelando i sempre più numerosi studi, denunce e reportage pubblicati negli Stati Uniti sulla raccolta e il furto delle salme dei Nativi Americani, dopo le battaglie di sterminio, destinate alle sale e ai laboratori di ricerca dei musei e delle principali istituzioni scientifiche americane. 

Il desiderio per le raccolte scientifiche e le idee contrapposte sulla razza e la storia dell’umanità contribuirono ad  alimentare la proliferazione delle collezioni di ossa, che superavano di gran lunga lo spazio disponibile nei magazzini e finivano qualche volta per comparire nella sale dei musei e nelle gallerie dedicate all’esposizione al pubblico. Esperti di fisiologia e di anatomia che avevano vissuto la Guerra Civile erano diventati ben disposti nei confronti dell’uso degli scheletri umani a scopo scientifico. Alcuni di loro cercarono così di essere coinvolti direttamente in progetti di questo tipo. Quelli che ci riuscirono litigavano su come catalogare nel modo più corretto le razze, come prendersi cura dei corpi e inserirli poi nell’ampio racconto della storia umana. Su una cosa erano però tutti d’accordo: allestire ‘stanze delle ossa’ (bone rooms) era una progetto di valore indiscutibile”. Si calcola che nei musei americani ci siano qualcosa come 110mila resti di altrettante persone, uomini e donne, Native Americane. L’Europa non è immune da questi scenari di epidemiologia dell’estinzione. Il Kultur Besitz di Berlino, l’autorità che presiede all’organizzazione delle istituzioni culturali della capitale, possiede 5.500 teschi di uomini africani giunti a Berlino per gli stessi motivi, la cosiddetta Collezione Luschan

La passione europea per le classificazioni non viene fuori dal nulla. È una conseguenza della piega presa dalla tradizione del pensiero, che fa di ogni cosa un oggetto. Che cosa significa che l’oggetto diventa centrale nell’immaginario collettivo? Significa che entra in gioco l’IO, il soggetto, il protagonista dell’azione, che essa sia una interpretazione astratta o una impresa commerciale. 

“Abbiamo ad esempio l’affermazione: questo bicchiere qui è pieno. Con questo è detto qualcosa su ciò che è presente qui davanti, ma non è pensata la relazione con un IO. Se questa relazione viene a tema per il pensiero, per l’io, allora ciò che è presente qui davanti diventa ciò che giace di contro, cioè un oggetto” (Martin Heidegger, Heraklit, Seminar Wintersemester 1966/1967, Freiburg im Brisgau).

Il mondo e i suoi elementi come oggetti sono un problema centrale del pensiero moderno occidentale. Ed è per questo che lo sono nel colonialismo europeo. “La filosofia moderna, nella distinzione rispetto alla filosofia antica, pensa l’apparire non tanto a partire dal venir fuori dell’essente nell’aperto dell’universale essere presente, bensì come divenire oggetto e presentarsi per un soggetto. Nondimeno, nel concetto generale di apparizione rientra tuttavia il presentarsi ad ogni essente. Ma ogni essente si presenta a tutto l’essente e, tra gli altri, anche all’essente che è caratterizzato dalla conoscenza”, ossia l’uomo. (Eugen Fink, Heraklit, Seminar Wintersemester 1966/1967, Freiburg im Brisgau).

Gli Europei oggettificano il mondo che si presenta, con tutti i suoi elementi, al loro sguardo e al loro intendimento. Una questione essenziale del colonialismo come struttura di potere, economia e pensiero è dunque questa: “la domanda preliminare è se all’essere dell’essente pertenga necessariamente l’oggettività, oppure se soltanto nella filosofia moderna essa divenga un modo universale di considerare l’essente” (M.Heidegger, E.Fink – ibidem). Ci si deve cioè chiedere se il pensiero oggettivo, che diventa così discriminante per i codici morali occidentali, corrisponda per davvero, in ogni suo aspetto, al Pianeta che essi vollero conquistare. 

Corpi, dunque. Storie americane che sono storie europee, che sono storie africane. Nella ricostruzione analitica degli stermini di specie le geografie si sovrappongono. Solo una ecologia globale può sfruttare in modo davvero efficiente l’eliminazione, la soppressione o la sostituzione di intere specie e di interi popoli. Esattamente come accadde per il cotone, il tabacco, lo zucchero e poi il carbone e il petrolio.

Le estinzioni moderne, che proseguono ancora oggi, sono quindi la corrente del tempo storico attraverso i nostri corpi. Questa posizione dei corpi reali, tangibili, nei discorsi sull’estinzione è centrale per toccare l’entità del problema che non è solo ecologico, è anche emotivo e spirituale. Gli effetti della distruzione entrano nei nostri tessuti, dentro le nostre cellule (particolati chimici di sintesi o da combustione, microplastiche nel cielo, particelle radioattive). E quindi la distruzione, attraverso l’organismo, diventa pensiero della catastrofe e della ribellione. Ma questo dolore è della stessa origine della crudeltà patita da milioni di schiavi africani (anche quelli decomposti nell’Atlantico perché buttati fuori bordo dalle navi negriere durante la traversata e quindi entrati nella catena alimentare di uomini e animali), di afro-americani senza diritti civili negli Stati Uniti fino agli ’60 del secolo scorso, dei neri brutalizzati dalla polizia nelle città americane e degli africani umiliati dalle autorità europee nelle periferie mefitiche e marce delle nostre capitali e della buona coscienza post-umanista. 

Non la coscienza, ma il corpo moderno è il centro produttore di significato della sesta estinzione, perché è il corpo ad elaborare la intelligenza-mondo che ci mette in connessione primordiale (deep time) con gli altri viventi. Quindi il corpo è diventato un protagonista degli sforzi battaglieri per immaginare una alternativa che non tradisca la nostra corporeità (il bisogno di gioia) senza però rinnegarne l’appartenenza al mondo degli enti (la Terra) nel senso più ampio possibile. Siamo in bilico sui confini del corpo e della mente, ma è il corpo a ricordare continuamente che il Pianeta è ferito e che questa ferita è il tatuaggio della nostra genetica.

Nella vita di ogni giorno l’Olocene è finito da tempo.

La sesta estinzione è anche una implosione della temporalità. Saltano le stagioni, i solstizi, e spuntano, anche qui in modo non deterministico, pressioni di adattamento ecologico sulle specie vegetali e animali rapidissime e insolite. Le fioriture, i pollini, il tempo della riproduzione: tutte dimensioni del vivere su questo Pianeta alterate e sconvolte. Per queste ragioni la sesta estinzione di massa è anche una incursione quotidiana nell’impossibile. In ciò che non avremmo mai pensato potesse succedere, e invece succede. O potrebbe succedere presto. La morte della neve, la morte della pioggia, dei temporali, le siccità senza speranza, le morie di insetti, l’oblio dei grandi mammiferi. L’impossibile si incunea nell’assenza di pensiero che caratterizza il nostro tempo. E così l’impossibile-impensabile diventa l’unico non-pensiero socialmente lecito ed accettabile. L’estinzione è una esperienza del vuoto. Per questo una compagnia bio-tech privata del Texas può progettare (non pensare, progettare) di resuscitare il dodo. 

Naturalmente tutto questo sfuma in un fatto non meno preoccupante. Non sappiamo ancora abbastanza delle estinzioni di massa. Sono stati appena pubblicati i risultati di una scoperta paleontologica eccezionale avvenuta in Cina nel 2015, nello Guiyang. I fossili di creature marine tornati alla luce datano 251 milioni di anni fa, nel periodo immediatamente successivo alla estinzione di massa del Permiano (la cosiddetta “madre di tutte le estinzioni”, che spazzò via l’80% delle specie oceaniche). Finora si riteneva che la vita avesse impiegato milioni di anni per riprendersi, ma il sito dello Guiyang potrebbe dimostrare il contrario. E questa è una notizia che potrebbe avere peso nel modo in cui interpretiamo i dati attuali sulla defaunazione della Terra

“I fossili che Dai e i suoi colleghi hanno raccolto dall’ecosistema di Guiyang comprendono una piramide completa di animali che formano la catena alimentare, i foraminiferi unicellulari, che si nutrivano di alghe marine sulle spugne, gli organismi bivalvi, gli antenati delle attuali aragoste e, infine, i pesci predatori. Una diversità biologica sorprendente considerato che siamo subito dopo un evento di estinzione di massa (…) Secondo Dai, che ora è alla Università della Borgogna, in Francia, l’apparire così improvviso del biota di Guiyang mette in questione il modello a tappe di recupero degli ecosistemi. Una ripresa più veloce potrebbe invece essere possibile, a partire dai sopravvissuti. Un indizio sarebbe la rapida diversificazione dei pesci predatori (all’apice della catena alimentare): forse gli ecosistemi complessi non scomparirono del tutto nella estinzione planetaria del Permiano”. 

Ogni singolo aspetto dei processi di estinzione del nostro secolo è un condensato della storia degli ecosistemi. La profondità del tempo eco-storico non può mai essere dimenticata, perché restituisce al nostro presente il suo spessore, la sua consistenza, la sua ontologia essenziale. La sesta estinzione è un capitolo della storia del Pianeta perché è un passaggio della storia degli uomini. Ancora una volta, due storie che si completato l’una dentro l’altra. Perciò questo secolo è anche l’epoca della ricostruzione della Storia, quella passata attraverso il setaccio della comprensione e del giudizio morale. L’Europa è solo all’alba di una simile stagione, eppure addentrarvisi senza paura è uno dei compiti più civili e umani dei decenni a venire. Pur fra immani difficoltà, siamo tutti debitori dello sforzo di “rebuilding” delle “popolazioni indigene de-coloniali” che sono sopravvissute ai genocidi coloniali e fanno sentire la loro voce ovunque questa voce possa alzarsi nell’azzurro del cielo. I Nativi Americani hanno parole per noi Europei. Così come le hanno gli Africani. Queste parole, ancora incerte e balbuzienti, sono i semi del nostro futuro condiviso durante l’estinzione di massa. Questi semi germoglieranno, se lo permetteremo, con tutto il nostro coraggio e tutta la nostra vergogna (per aver commesso il fatto). 

(Una scolaresca di bambini in vista al Musée du Quai Branly, il museo etnografico più importante d’Europa che potrà diventare uno dei punti nevralgici di una storia condivisa, post-coloniale, in cui l’arte africana avrà il ruolo che le spetta nel grande affresco del genio umano)

È chiaro, la sesta estinzione è un trauma intergenerazionale, perché è il risultato di genocidio ed ecocidio combinati su un arco temporale di 5 secoli. È la chiave di lettura della frattura fenomenologica ed ermeneutica del Cinquecento, come aveva capito perfettamente Michel Foucault, che pur non la nomina mai. Possiamo capire di più della sesta estinzione guardando un quadro di Vermeer che seguendo un documentario del National Geographic. Eppure, proprio per questo, la sesta estinzione è anche una sfida a tutto ciò che siamo già diventati, e a migliorarlo. A consumarlo fino in fondo, per ripensarlo per intero. Nessuno ha descritto questo tempo di “infezione” e attivismo (voglio vivere!) come Donna Haraway: “l’estinzione non è un punto, un singolo evento, ma più una soglia estesa o una sporgenza. È una morte lenta e prolungata che disfa le grandi trame che intessono i modi in cui molte specie, incluse le persone storicamente situate, procedono nel mondo (…)  il dolore è un percorso verso la comprensione della vita e della morte aggrovigliate e condivise con gli altri; gli esseri umani devono con-piangere, perché noi stessi siamo dentro e proveniamo da questo tessuto del disfare. Senza questa consapevolezza duratura, non possiamo imparare a vivere con i fantasmi e di conseguenza non possiamo pensare”. 

Una risposta a “La sesta estinzione è una nuova dimensione della realtà”

  1. Moltissimi spunti di riflessione in una prospettiva che abbraccia vari ambiti di studio. Interessante e utile

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MONDO ED ESTINZIONE

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