La felicità è una questione ecologica, ed è per questo anche una questione politica. Anzi, una delle sfide più opprimenti che l’uomo di oggi si trova ad affrontare è come essere felici nell’epoca della sesta estinzione di massa e di un Pianeta a 417 ppm di CO2 in atmosfera. Come trovare la propria gioia sapendo che la Terra è contaminata, avvelenata, sfregiata dalle azioni umane? Come può ogni singola esistenza non essere in contraddizione con la presenza vitale della biosfera? Ma soprattutto: possono individui radicalmente infelici divenire dei radicali rivoluzionari?
Se la civiltà è diventata un peso per la Terra, allora lo è anche ciascuno di noi. La felicità è un affronto, una esagerazione, un vizio. La felicità è un capriccio, una offesa, una deformità. Ma non è solo lo scrupolo morale a stringere d’assedio la coscienza e l’intelligenza. La sopravvivenza pura e semplice, in tempi come i nostri, sembra ormai la migliore opzione possibile. Un esercizio di buon senso. “Che mi può offrire ancora il mondo?/ ‘Rinunciare tu devi, rinunciare!’ / è questo l’eterno motivo che suona all’orecchio di tutti/ che, per la vita intera / rauca ci canta ogni ora”, fa dire Goethe a Faust. La felicità è una bestemmia. E il pensiero politico sulla felicità, se è per questo, un non-senso.
Eppure, è proprio per questo che la felicità ha assunto un valore politico senza precedenti. La sua assenza dal dibattito pubblico sgomenta. Il conservatorismo liberale (la crisi globale è sovra-stimata, è sufficiente un blando riformismo) si è saldato con la più gretta meschinità del disfattismo borghese (non c’è più nulla da fare, meglio affidarsi al conformismo della mediocrità). La felicità? Una fola per rivoluzionari. I rivoluzionari? I malati di felicità ! Ma là dove la politica tradizionale e riformista svela la sua raggiante impotenza, o la sua scoraggiante forza, ecco emergere, per contrasto, la dimostrazione che la ricerca di una felicità, qualunque essa sia fuori dall’inferno dell’ecocidio, è una questione parlamentare, elettorale, partitica. “Biologico” e “politico” sono ormai sinonimi.
La voglia di una felicità è pura politica. Questo, lo scorso gennaio, ha consegnato agli annali europei la vicenda del villaggio di Lützerath, in Germania, nel bacino carbonifero del Nord-Reno Westfalia, al centro di una battaglia a manganellate e accampamenti abusivi tra migliaia di attivisti e la polizia (regionale e federale). In gioco non c’era la sicurezza energetica della Repubblica Federale Tedesca o i compromessi sporchi fatti con il carbone più sporco per uscire dal carbone con otto anni di anticipo rispetto a quanto pianificato dall’ultimo governo Merkel. Il conflitto era tra due idee di felicità completamente opposte. Le nuove generazioni si battono per una idea di felicità che non sia più quella dello sperpero dei viventi (popoli del sud globale, specie vegetali e animali). Il governo federale (la “Ampel Koalition”) è invece perfettamente integrato nell’organigramma economico internazionale. Una guerra tra concorrenti interpretazioni dell’Essere, degli enti, dell’esistere e dell’esistenza. Ontologia politica.

Marx diceva: la mia idea di felicità è la lotta. Alla faccia del suo materialismo filosofico, difeso con le unghie e con i denti, in questa affermazione Marx mise un significato esistenziale. Perché “lotta” non significa solo militanza politica. Significa soprattutto possibilità di qualcos’altro rispetto al buio del presente. Quindi la felicità coerente con i problemi dell’oggi non è una conquista di oggetti, di beni, di conferme sociali. È uno stato mentale. È una tensione. È una insofferenza. È l’accettazione di una voragine, dentro e fuori. Questa voragine, che certo mette paura, è lo spazio del possibile. Molti dicono: niente serve più a niente, l’apocalisse ecologica è inevitabile! Eppure, il vuoto di risultati immediati, di soluzioni miracolistiche a portata di mano (pale eoliche, CCS – Carbon Capture and Storage, idrogeno, immigrazione forzata di specie animali) è l’unico spazio che prepara l’arrivo di ciò di cui c’è bisogno ora.
“Oggi, considerato ciò che sappiamo del nostro impatto sulla biosfera, lo spazio del possibile (l’intelligenza critica) è il luogo in cui avventurarsi nella complessità della nostra epoca. Non c’è dubbio che l’avventura del sapere esponga all’angoscia del dopo. Che cosa succederà se mi addentro in una visione del mondo ancora perigliosa e incerta, totalmente diversa rispetto a quella a cui sono abituato? Eppure, ci sarà un dopo rispetto al capitalismo. Questo lo sappiamo già. Lo constatiamo già (…) La paura di perdere il lavoro, la precarietà abitativa, il restringimento del welfare state e dell’assistenzialismo sanitario fanno paura a chiunque. Sono timori destinati ad allargarsi a macchia d’olio. Eppure, per troppe persone questo funziona come un deterrente per pensare lo spazio del possibile. Gli stessi ecologisti si sono impantanati nel fango di questa meschinità. Se non posso fornire, tale il loro ragionamento, una alternativa immediata alla struttura dominante, e cioè al capitalismo estrattivo, tanto vale abbandonarmi alla ignavia emotiva. Non ci si accorge, tuttavia, di seguire così lo schema di pensiero a circolo logico chiuso a cui ci ha abituati il capitalismo. Se non c’è qualcosa che produce maggiori risultati del protocollo già adottato, allora non conviene sperimentarne un altro”.

Secondo Donna Haraway il vuoto è il caos necessario di un pensiero efficace nel cogliere la complessità del XXI secolo. “Il nostro compito deve essere fare disordine e creare problemi, scatenare una risposta potente dinanzi ad eventi devastanti, ma anche di placare le acque tormentate e ricostruire luoghi di quiete”. Pretendere risultati immediatamente spendibili (“solo le cose che funzionano sono importanti”) è una pericolosa impasse intellettuale. “Restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati”.
La catastrofe più o meno imminente non è sufficiente per cancellare il bisogno di un pensiero capace di pensare il reale e la presenza degli esseri umani dentro questo reale. In altre parole, è la realtà stessa che richiede di essere compresa in uno spazio aperto alle opzioni implicite nei fenomeni, nei processi ancora aperti, nelle decisioni non ancora prese. Se il criterio di esclusione della funzionalità e dell’efficienza viene accantonato “si resta a contatto con il problema in maniera più seria e vitale. Restare a contatto con il problema richiede la capacità di generare parentele di natura imprevista. Forme di socialità e di materialità cruciali per vivere e morire con le creature che rischiano di scomparire, in modo che possano invece continuare ad esistere”.
La felicità, in termini ecologici, è un luogo che ci è congeniale. Un luogo geografico-esistenziale.
Ma in una epoca di estinzione ad andar perdute sono le cose più semplici, che rendono la vita non solo degna di essere vissuta, ma piena di dignità. E’ la semplicità di cui parlava anche Jung. E’ il grigiore della modernità, il lento abituarsi a vivere nel grigio, esito inevitabile della formazione della cultura occidentale, secondo Peter Sloterdijk. Una “ultima tappa del viaggio” che i sommi pensatori tedeschi del Novecento già avevano intuito.
“Heidegger mette da parte i pensieri dei comuni mortali e le loro evasioni nelle idee, per cominciare dagli stati d’animo mortali, in quanto aprono l’esistere alla finitezza. Suggerisce che noi, uomini del dopoguerra, siamo in ultima analisi svuotati, e che non ci manca molto per errare del tutto, rispetto al nostro proprio Esserci o, peggio ancora, a disinteressarcene. Come siamo veramente? Sotto la patina del vivacchiare dominato dalle preoccupazioni, non avvertiamo una profonda noia che dorme in noi? Se lasciamo che si risvegli, abbiamo la sensazione di essere in un vicolo cieco. Ci sentiamo permeati da un generale non-sapere-cosa-fare. O meglio, da un non-avere-effettivamente-niente-da-fare che ci ripugna nel profondo, ma che non possiamo cancellare. Vorremmo trovare una via di scampo in una occupazione, assumere un ruolo, inserirci in un copione solido. L’appello alle urgenze è onnipresente, ma, intendiamoci bene, in fondo non sono affari nostri”. Così Sloterdijk, aggrappandosi al corso che Heidegger tenne nel semestre invernale 1929-1930 a Friburgo, divenuto leggendario (Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-Finitezza-Solitudine).
Torniamo alle domande con cui abbiamo cominciato. Come trovare la propria gioia sapendo che la Terra è contaminata, avvelenata, sfregiata dalle azioni umane? Come può ogni singola esistenza non essere in contraddizione con la presenza vitale della biosfera? Ma soprattutto: possono individui radicalmente infelici divenire dei radicali rivoluzionari? No, non possono. E la risposta alle altre domande sta nella ricerca di una felicità personale. Ma questa felicità non significa appagamento o gratificazione. La felicità è un accordo: una consapevolezza della propria presenza sul Pianeta. Quando la domanda del singolo si scontra con la realtà, tenta di modificarla o manipolarla, di alterarla o di piegarla, ecco che una singola biografia diventa la biografia del Pianeta. È la “responso-abilità” di cui parla la Haraway: una adesione totale alla crisi globale. Un ritrovare la propria strada di casa riconoscendo i diritti dei viventi secondo delle forme creative di “sim-poiesi”, cioè di alleanza/convivenza/sperimentazione. “Passione e azione, distacco e attaccamento: ecco come si coltiva la responso-abilità, che è anche un modo collettivo di conoscere e di fare, un’ecologia di pratiche. Che lo chiediamo o no, la trama è nelle nostre mani. La risposta alla fiducia della mano tesa davanti a noi: pensare, pensare dobbiamo”.
Pensare significa seguire il filo dei fenomeni, lasciarli trapelare, permettere al mondo di manifestarsi e arrivare, senza soffocarlo negli schemi logici e matematici (metafisici) dei secoli moderni. Collettivo vuol dire con gli animali, attraverso gli animali, grazie agli animali, insieme agli animali.
Ma soltanto un rivoluzionario (un adepto della felicità) può intraprendere questo tipo di movimenti del corpo e del pensiero verso il regno animale. Verso l’entità del problema-mondo che abbiamo causato negli ultimi secoli. Soltanto chi è impegnato con tutte le sue forze a fare sì che il mondo ascolti la sua domanda di felicità può addentrarsi nei labirinti e negli abissi del diritto alla felicità ontologica del Pianeta (il diritto ad esistere delle altre specie). Perché sa che ogni suo pensiero e ogni sua azione appartengono non solo a lui, ma anche al Pianeta. Se esisto, è perché c’è il Pianeta. Quindi, anche la mia felicità (agognata, possibile, combattuta) è, nelle sue fibre, un fenomeno della Terra. Il Pianeta ci guarda.
Su questi temi è uscito LA STRADA DI CASA – La felicità al tempo della sesta estinzione di massa (disponibile su Amazon QUI).
(Foto di copertina: navigatore del XVI secolo, Petit Palais Paris. Questo è il volto di uno degli uomini dell’impresa, “l’intenzione storica di allargare i confini geografici, mentali, filosofici e scientifici dell’essere umano con ogni mezzo”).
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