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Gli effetti dei megaincendi sulla biodiversità

Gli effetti dei megaincendi sulla biodiversità
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Nei prossimi anni i megaincendi avranno un ruolo sempre più massiccio nel riconfigurare la biodiversità del Pianeta. Ridistribuendo le specie da un ecosistema all’altro, gli esseri umani hanno di fatto creato nuovi assemblage di animali che modificano la disponibilità di materiale infiammabile, il comportamento del fuoco e anche le dinamiche successive ad un incendio. Queste le conclusioni di uno studio di sintesi sugli incendi globali uscito su SCIENCE (Fire and Biodiversity in Anthropocene). Gli effetti dei megaincendi sulla biodiversità hanno già dimostrato di essere un driver potente di cambiamenti irreversibili. Tanto che oggi si potrebbe già parlare, accanto a biodiversità, di “pyrodiversity”.

Sappiamo già che le foreste del Pianeta hanno sete. Le siccità sempre più lunghe e sempre più intense hanno provocato uno stress idrico permanente. Se la siccità diventa severa l’albero entra più rapidamente in uno stato di difficoltà metabolica generale. Il risultato è l’aumento della mortalità degli alberi. Una constatazione che, da sola, basta a ridimensionare i facili entusiasmi per la “riforestazione” come strategia di mitigazione dell’innalzamento delle temperature.

I megaincendi in California, Australia e Siberia non sono, quindi, solo il sintomo del cambiamento irreversibile dei pattern climatici del Pianeta. L’intero “regime degli incendi” su scala globale è mutato e il fuoco è una ulteriore minaccia di estinzione per le specie animali e vegetali, su quattro continenti.

Si ritiene che nei prossimi decenni gli incendi saranno più numerosi non solo nelle foreste boreali del Canada e della Russia, ma anche nelle foreste miste e nella foreste a cespugli bassi dell’Australia, dell’Europa Meridionale (ad esempio in Sicilia) e negli Stati Uniti Occidentali. 

Così come per le “megadrought”, gli eventi di siccità estrema capaci di durare anni, anche i “megafire” sono ormai una realtà del XXI secolo, a causa del riscaldamento dell’atmosfera: “di fatto, proprio perché il cambiamento climatico ha spinto la porzione di oceano entro il circolo Polare Artico oltre il suo punto di non ritorno (tipping point), e ci aspettiamo quindi che l’Artico sia privo di ghiaccio in estate al crescere delle temperature globali, le siccità saranno peggiori e questo significa che il mondo è entrato nella era dei mega-incendi.

Secondo gli scienziati che li studiano, gli incendi di enormi proporzioni si comportano in un modo mai visto e quindi i metodi tradizionalmente usati per combattere il fuoco non sono adeguati a questa nuova realtà”“. Così YALE360, il magazine scientifico dell’Università di Yale, in un pezzo intitolato “The Age of Megafires”.

Ora l’assessment molto esteso sul ruolo crescente degli incendi sugli ecosistemi del Pianeta apparso su SCIENCE fa il punto sull’impatto che il fuoco avrà in futuro nel condizionare la sopravvivenza e la resilienza della biodiversità su quattro continenti. Bisogna ricordare che la biosfera ha anch’essa un ruolo nell’equilibrio del sistema climatico terrestre. La biosfera contribuisce infatti a mantenere e regolare la composizione chimica dell’atmosfera e quindi la temperatura della Terra.

“La conservazione della diversità biologica della Terra sarà possibile solo riconoscendo il ruolo critico del fuoco nel plasmare gli ecosistemi, e nel fornire una risposta. I cambiamenti globali nel regime degli incendi continueranno ed amplificheranno le interazioni tra fattori antropogenici”, avvertono gli autori.

Non ci sarà quindi solo un Pianeta più caldo nei decenni a venire, ma anche una biosfera differente. Il fuoco è uno dei fattori che renderanno gli habitat e la composizione di specie animali e vegetali che li abitano diversi da quelli attuali. 

Gli effetti del fuoco sul “mix biotico”

Il primo di questi aspetti ecologici è il cosiddetto “biotic mix” e cioè il puzzle di specie imposto dalle attività umane in ecosistemi che si sono evoluti con una composizione di specie animali e vegetali ormai alterato. “Gli esseri umani hanno redistribuito le specie sul Pianeta e facendolo hanno creato nuovi assemblage che modificano la disponibilità di materiale infiammabile, il comportamento del fuoco e anche le dinamiche successive ad un incendio”.

“In molte parti del mondo, le piante invasive hanno aumentato l’infiammabilità degli ambienti e la frequenza del fuoco. Anche gli animali invasivi possono alterare il regime degli incendi, perché condizionano la disponibilità del materiale organico che prende fuoco”.

“La distribuzione delle interazioni biotiche e la rimozione delle specie può influenzare il fuoco e i suoi effetti associati alla biodiversità. Evidenze sperimentali indicano che la rimozione dei grandi mammiferi erbivori in Africa e in Nord America, ad esempio, altera la struttura degli ecosistemi e aumenta gli incendi”. 

Il secondo aspetto riguarda la struttura ecologica degli ecosistemi con cui abbiamo a che fare oggi. Questi ecosistemi non sono più quelli di due o tre secoli fa e le strategie di protezione e di conservazione dell’imminente futuro non possono più escludere un deciso e pervasivo intervento umano: “ripristinare il regime storico degli incendi è spesso considerato il miglior approccio per la biodiversità e la resilienza ecologica”.

“E tuttavia, ricreare i regimi storici degli incendi in paesaggi già fortemente modificati dai cambiamenti climatici, dall’agricoltura e dalle specie invasive non necessariamente porta ad una conservazione efficace della diversità biologica. Conservare gli organismi richiede di comprendere come gli ecosistemi possono risponde agli incendi che sono a loro volta soggetti a nuovi fattori di stress”.

“Lo studio e la misurazione diretta delle specie, delle popolazioni e degli ecosistemi, il modo in cui cambiano nel corso del tempo, è questo che ci aiuterà a identificare le caratteristiche degli incendi che possono dare una mano alla biodiversità. La strada davanti a noi, quindi, impone una conoscenza approfondita dei paesaggi sia storici sia attuali”. 

Dove il fuoco manca (e servirebbe)

E se da millenni il fuoco sbozza l’ecologia degli habitat del Pianeta, con o senza l’intervento di noi umani, nel XXI secolo incendi disastrosamente estesi provocano danni paragonabili alla scomparsa totale del fuoco là dove gli incendi dovrebbero invece funzionare come fattori attivi nella costruzione della biodiversità, ad esempio favorendo la germinazione dei semi. 

Bisogna considerare che le foreste del Pianeta sono già in declino a causa delle siccità e degli incendi. Molte specie di alberi non si sono evolute per sopravvivere in regimi climatici disastrosamente caldi come quelli sperimentati negli ultimi 3 anni. E soffrono di uno stress termino che aumenta la loro mortalità.

È quindi ormai indispensabile studiare anche la “pyrodiversity”, ossia la relazione tra la biodiversità rimasta e le variazioni spaziali e temporali degli incendi: “ad esempio, una valutazione continentale dei sistemi a savana in Africa ha mostrato che la pirodiversità era importante nelle savane umide”.

“Queste regioni, che hanno una grande variabilità nel volume, nella intensità e nella ricorrenza degli incendi, avevano il 27% in più di specie di mammiferi e il 40% in più di specie di uccelli rispetto alle aree con una minore variabilità nel tipo e nel numero di incendi”. La defaunazione degli ecosistemi comincia a produrre conseguenze anche sul regime degli incendi.

Gli incendi del XXI secolo interferiscono, modulano e plasmano il rischio di estinzione: “molte specie si sono adattate ad uno specifico regime di incendi, e quindi cambiamenti sostanziali al tipo di incendio possono compromettere le popolazioni di quelle specie e alterare gli ecosistemi”.

E’ quindi ormai indispensabile non solo capire cosa succederà alla biodiversità nei decenni a venire, ma anche la pyrodiversity, e cioè la relazione tra la biodiversità rimasta e le variazioni spaziali e temporali degli incendi.

“Per gli animali, i cambiamenti nella frequenza e nella intensità del fuoco possono significare una minore disponibilità di risorse chiave nella ricerca del cibo e di un riparo, limitare la loro capacità di colonizzare di nuovo l’habitat che va riprendendosi dal fuoco, e, nel caso di incendi di vaste proporzioni, aumentare la mortalità”. 

Gimnosperme a rischio di estinzione

Ci sono delle evidenze numeriche degli effetti di queste interazioni ecologiche, combinate all’alzarsi delle temperature e alla continua espansione delle attività economiche umane: “più di 4400 specie terrestri e di acqua dolce appartenenti a un vasto gruppo di taxa e di habitat fronteggiano minacce associate ad un diverso regime di incendi (…) le gimnosperme ( come le conifere, ndr) sono più a rischio di estinzione: il 28% di taxa già classificati come in pericolo, criticamente in pericolo o vulnerabili (IUCN Red List)”. Le specie di savana sono le più minacciate (28%), seguite dalle specie di prateria (26%), delle aree montane (26%), delle praterie a vegetazione bassa (26%) e delle foreste (19%)”. 

Gli autori suggeriscono nuovi modi di considerare il fuoco all’interno degli schemi di protezione della natura. Alcune delle loro proposte prevedono un intervento diretto sul fronte della genetica di specie e delle genetica di popolazione, due aspetti che in genere il grande pubblico sottovaluta quando pensa alla salvaguardia di animali e piante nei loro ambienti originari. 

La prima proposta è di abbinare in modo sistematico i modelli di studio che simulano la dinamica degli incendi con le proiezioni che riproducono la distribuzione delle specie, in modo da poter ipotizzare che cosa succederà nei diversi scenari climatici che, a loro volta, condizioneranno il regime degli incendi. 

Una seconda linea di azione insiste sulla strutture biologica stessa degli ecosistemi: “tra le strategie emergenti c’è la reintroduzione di mammiferi che riducono il materiale infiammabile, barriere verdi che comprendono piante a bassa infiammabilità, lasciare che gli incendi procedano in condizioni adeguate, una gestione genetica, e quindi evolutiva, delle popolazioni attraverso un uso di nuovi genomi”. 

A sostanziare queste ipotesi di lavoro ci sono considerazioni analoghe a quelle che stanno a fondamento delle evidenze sulla necessità di aree protette transfrontaliere su scala continentale, ossia di habitat meno frammentati possibili, che garantiscano il flusso di geni tra le popolazioni di una stessa specie, abbassando così il rischio complessivo di estinzione dovuto a impoverimento del pool genetico e all’effetto combinato di fattori di stress ambientale.

“Gli approcci fondati su informazioni di tipo evolutivo per gestire interi ecosistemi sono una prospettiva relativamente più nuova. Le opzioni per costruire una resilienza ecologica al fuoco includono la gestione di popolazioni animali più grandi e meglio connesse, in modo da assicurare la variabilità genetica”.

Un approccio evolutivo anche per gli incendi

“Un approccio ancora più radicale è usare le traslocazioni (spostare individui di una specie da un ecosistema all’altro, all’interno dello home range storico della specie o anche in nuovi territori, NDR) per rafforzare il flusso di geni e accrescere la adattabilità di una specie ad ambienti adatti al fuoco”.

È uno schema che può essere applicato anche alle specie vegetali: “Conoscere la variazione intraspecifica in alcuni tratti di alcune piante, come ad esempio il tempo necessario per raggiungere la maturità riproduttiva, potrebbe tornare utile agli amministratori di alcuni territori per selezione le popolazioni di piante da spostare altrove, scegliendo quelle meglio equipaggiate per entrare in relazione con i cambiamenti nella frequenza degli incendi”. 

In uno studio pubblicato nel 2010 da un team di ricercatori australiani su EVOLUTIONARY APPLICATION (Building evolutionary resilience for conserving biodiversity under climate change) i motivi per cui è indispensabile ragionare in chiave evolutiva sulla tenuta complessiva degli ecosistemi su un Pianeta verosimilmente sempre più caldo da qui al 2050 sono chiarissimi: “Generalmente gli ecologi riconosco che rapidi tassi di evoluzione sono possibili all’interno di una specie, con conseguenze importanti sulla abbondanza di quella specie e sulla sua distribuzione”.

“Ci sono già prove documentate di una rapida risposta evolutiva al cambiamento climatico in specie i cui individui hanno una vita breve. Questo suggerisce che molti organismi hanno la capacità di rispondere al cambiamento climatico entro uno spazio temporale di decine di anni”. Perché questo avvenga, una specie deve contare su un certo numero di individui e quindi su di un adeguato spazio geografico.

“Queste risposte dipendono dalla presenza di variazioni genetiche nelle popolazioni. In assenza di variazione genetica, sappiamo con abbastanza certezza che aumenta il rischio di estinzione di popolazioni selvatiche. Se invece si riesce a conservare la diversità genetica in vista di una evoluzione adattativa, e se si mettono in campo azioni di ripristino e protezione che aiutino i processi adattativi in situ (negli habitat ancora integri, ndr), le implicazioni di lungo periodo vanno al di là della semplice persistenza di una specie, perché hanno potenzialmente effetti sulla biodiversità e sulla funzionalità degli ecosistemi, compresa la resilienza nel rispondere a condizioni climatiche estreme”. 

La storia recente dei mega-incendi ripropone di nuovo, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’importanza dei grandi erbivori per la funzionalità ecologica ad esempio dei sistemi a savana, dove la reintroduzione del rinoceronte bianco (Ceratotherium simum) funzionerebbe come “moderatore” del fuoco, grazie al suo ruolo di ingegnere ambientale sulla vegetazione a basso fusto.

Ma un discorso analogo vale per il bandicoot (Isoodon fusciventer) dell’Australia occidentale, un marsupiale che, scavando gallerie e tane sotterranee, contribuisce a “spezzare” la linea di fuoco e a moderare gli incendi.  

Gli incendi del presente, che sono una preview di quello che vedremo in futuro, aprono una ipoteca sulle chance di sopravvivenza di interi habitat le cui coordinate, per ora, sono solo ipotizzabili, proprio perché ci troviamo in una condizione ecologica che non abbiamo mai vissuto prima.

Il gufo maculato della California

La complessità della situazione, è già visibile negli Stati Uniti in storie emblematiche come questa: “Gli incendi che hanno colpito la California nel 2014 potrebbero offrire una anteprima di ciò che le specie dovranno affrontare. Dopo che le fiamme hanno spazzato in lungo e in largo l’habitat del gufo maculato, già minacciato, molti di questi uccelli hanno abbandonato i luoghi soliti di nidificazione, hanno scoperto i biologi Gavin Jones della Rocky Mountain Research Station e M. Zachariah Peery della University of Wisconsin, a Madison. Nel 2015, quasi il 22% dei siti di nidificazione usati da questi uccelli nel 2014 non era stato occupato e i nidi erano vuoti, spiega Jones”.

“I fuochi di quest’anno (il 2020) potrebbero aggiungere perdita a perdita. I gufi maculati sono stati identificati con un contrassegno e quindi Jones ha potuto verificare che il gufo maculato tende ad evitare le aree bruciate più grandi di 100 ettari, probabilmente perché ha bisogno di alberi più ravvicinati e fitti per trovare ombra, rami e protezione dai predatori. Secondo Peery, con incendi più grandi e più intensi a rischio è l’intero habitat del gufo maculato”. 

Quel che è ormai altrettanto cristallino è che, ormai, la conservazione ha bisogno di un deciso coinvolgimento della opinione pubblica e delle persone comuni per diventare efficace e realistica.

E questo perché, all’alba del terzo decennio del XXI secolo, il destino della biodiversità è interconnesso con le comunità umane e il loro sostentamento ad un livello di interazione e influenza reciproca tale da fare della “natura selvaggia”, in maniera paradossale, l’unico partner possibile per un discorso politico e civile sul futuro umano.

“Porre il sempre più importante ruolo della gente e della loro relazione stretta con la biodiversità al centro degli sforzi per comprendere i cambiamenti nel regime degli incendi, e adattarvisi, è centrale per la riuscita di questa impresa”, concludono gli autori di Fire and biodiversity in the Anthropocene. 

La fine del leggendario West americano

La “apocalisse climatica” della costa ovest degli Stati Uniti (la definizione è del LOS ANGELES TIMES), dell’Oregon e della California, segna anche la fine di un mito. Quel sogno americano da esportazione, che è stato uno dei propellenti naturali del consumismo globale: spiagge, sole, surf, ragazze sempre in bikini, maschi alla Point Break (era il 1991), ville in collina, estate perenne. La fine del leggendario West americano.

Decine di film, a partire da American Gigolò (1980) hanno nutrito questo sogno edonistico tanto quanto le pellicole più nobili che narravano la caccia all’oro, alle pellicce pregiate e alla libertà in stile Jack London. Noi, in Europa, abbiamo mangiato queste finzioni californiane west come manna nel deserto, pascendoci della imbeccata secondo cui la vita vera, la vita post 1945, la vita del benessere, non potesse non assomigliare alla routine californiana.

Insieme a New York (“la città in cui tutti vorrebbero vivere”), la California è stata fino ad oggi un simbolo di tutto ciò che di desiderabile c’è sul Pianeta. 

Ancora oggi, il “selvaggio west” è percepito come un mito assoluto, che tiene in vita, fino alle contrade esauste della vecchia Europa, i cui giorni di gloria risalgono alle imprese oceaniche di spagnoli e portoghesi, anche nelle nostre coscienze la possibilità, in realtà tarpata e annichilita nei tempi contemporanei, di raggiungere e conquistare una indipendenza anarchica, che ha tagliato i ponti con tutte le costrizioni salvavita (antibiotici, riscaldamento, casa in proprietà, pensione) della borghesia industriale.

C’è un film che questo mito californiano lo ha rappresentato con una tale sfacciataggine da risultare addirittura stomachevole: Play misty for me, del 1971, con Clint Eastwood. Se sei un vincente californiano dormi in una camera da letto che è di fatto un dehors all’aperto. Il clima è così mite, accondiscendente e favorevole al tuo torso nudo che non hai bisogno di comodità da impiegato europeo. Un film che avrebbe potuto pubblicizzare La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (1979).

Oggi tutto questo ciarpame – non c’è vita senza sprechi ed esibizioni, la vita è solo divertimento, l’estate perenne è la stagione del cuore – si è rivelato per quello che è. Una menzogna politica, il cui prezzo spaventoso viene ora pagato prima di tutto dalle decine di migliaia di persone che dal 7 settembre ( Oregon Departement of Forestry: All state forests are at extreme fire danger as of Monday, Sept. 7) vivono sotto la minaccia di roghi di proporzioni e intensità mai viste nello Stato.

L’unico paragone possibile è con gli wildlfire di un anno esatto fa in Australia, che hanno ucciso 3 milioni di animali selvatici. Lo stesso cielo arancione, la stessa notte che invece è giorno, a causa della cenere e della fuliggine da combustione dei boschi, del bush e delle foreste; la stessa disperazione nel constatare che, come hanno notato numerosi commentatori, il cambiamento climatico è qui, non accadrà in futuro. Lo stiamo già subendo. 

Vista dall’altra parte dell’Atlantico, questa apocalisse segna un punto di non ritorno. È evidente che nei prossimi decenni intere comunità dovranno essere evacuate a causa di impossibili condizioni ambientali. Domenica 13 settembre, se ne discuteva alle 6 di mattina al World Service della BBC. E qualcuno faceva notare, molto opportunamente, che migliaia di persone non possono trovare facilmente casa e sostentamento nelle città come Los Angeles, che già contano migliaia di senza tetto (americani) e un costo della vita altissimo.

A sgretolarsi è un intero castello di carta di “a priori”: che ci sia abbastanza acqua per sostenere una popolazione in crescita in uno Stato che patisce sempre più siccità estreme (le mega-drought, che coinvolgono anche Colorado, Arizona e New Mexico), che lo Stato possa reggere una emergenza ambientale prolungata per mesi, con displacement di interi villaggi e costi assicurativi alle stelle.

E, soprattutto, che nella urgenza di salvare vite e di spostare persone ci sia abbastanza spazio per abbandonare le contee in fiamme e non sovraccaricare metropoli già esauste per i conflitti e le diseguaglianze sociali. 

Sulle future migrazioni interne agli Stati Uniti Abrahm Lustgarten ha scritto un saggio spettacolare, per quantità di dati e di riferimenti, su PRO PUBLICA ( in collaborazione con The New York Times e con il supporto del Pulitzer Center): Climate Change Will Force a New American Migration.

Ascoltando decine di esperti (architetti, assicuratori, scienziati, climatologi) Lustgarten ha costruito una mappa “delle zone pericolose che chiuderanno in una morsa gli Americani nei prossimi 30 anni”.

A partire da questo settembre pandemia e roghi si sono sovrapposti in uno “schema di disperazione” che non è più episodico, ma è già perfettamente distinguibile ovunque nella nazione: “La siccità minaccia già regolarmente i campi che producono cibo in tutto l’ovest, mentre devastanti inondazioni allagano le città e i campi dal Dakota al Maryland, causando il collasso delle dighe nel Michigan e l’innalzamento delle linea di costa dei Grandi Laghi”.  

Il cambiamento imposto dal clima (climatic change) è ormai un parametro fondamentale per definire come e dove “la nazione si trova sulla soglia limite di una enorme trasformazione”. Quel che si prospetta è una migrazione interna che muterà tutti gli equilibri geografici, ecologici ed economici del Nord America: “In tutti gli Stati Uniti, circa 162 milioni di persone – quasi 1 su 2 – probabilmente farà esperienza di un declino nella qualità del proprio ambiente, soprattutto in termini di calore e di minore disponibilità di acqua.

Per 93 milioni i loro, i cambiamenti potrebbero essere particolarmente severi ed entro il 2070, suggeriscono le nostre analisi, se le emissioni di carbonio continueranno a salire ai ritmi attuali, almeno 4 milioni di Americani potrebbero trovarsi a vivere al limite, in luoghi decisamente al di fuori della nicchia climatica ideale per l’uomo. Il costo della resistenza ad ammettere la nuova realtà climatica sta montando.

Le autorità della Florida hanno già riconosciuto che difendere alcune strade ad alta percorrenza contro l’avanzare dell’oceano sarà insostenibile. E il programma nazionale di assicurazione per le inondazioni, per la prima volta, richiede ora che alcuni dei programmi di pagamento siano ritirati a causa della minaccia climatica. Presto, mantenere lo status quo sarà semplicemente troppo costoso”. 

Decisioni nient’affatto semplici si profilano all’orizzonte, dopo decenni di sottovalutazione del rischio: “I politici, che hanno lasciato l’America impreparata, adesso fronteggiano scelte brutali su quali comunità salvare – non di rado a costi esorbitanti – e quali invece sacrificare. Le loro decisioni renderanno inevitabilmente la nazione ancora più divisa al suo interno, con coloro che saranno tagliati fuori relegati a un futuro da incubo, in cui non resterà loro che cavarsela da soli”.

Le proiezioni parlano di 28 milioni di persone esposte a mega-incendi anche in Texas, Florida e Georgia. Almeno 100 milioni persone (nel bacino del fiume Missisipi e quindi dalla Louisiana al Wisconsin) sperimenteranno livelli di umidità e calore tali che “lavorare all’aperto o fare sport a scuola potrebbe causare un evento cardiaco”. Un crollo nella produzione agricola si verificherà in Texas, Alabama, Oklahoma, Kansas e Nebraska. 

Dietro questo disastro continentale ci sono convinzioni culturali radicate nel comune sentire americano, non solo tra i Repubblicani o le grandi compagnie petrolifere. Rispetto ai contadini e ai piccoli produttori agricoli dell’Africa “gli Americani sono più ricchi, spesso molto più ricchi, e quindi più protetti dagli shock imposti dal cambiamento climatico, come fossero avvolti in un cappotto termico.

Stanno a distanza dalle fonti di cibo e acqua da cui pur dipendono, e sono parte di una cultura che identifica nel denaro la soluzione ad ogni problema. E così, ad esempio, la portata d’acqua media del fiume Colorado, la fonte d’acqua per 40 milioni di Americani occidentali e la spina dorsale della produzione agricola e dell’allevamento di vacche da carne del Paese, è in declino da 33 anni, ma la popolazione del Nevada è raddoppiata.  

Contemporaneamente, oltre 1 milione e mezzo di persone si sono spostate nella area metropolitana di Phoenix, nonostante questa città dipenda dallo stesso fiume e abbia temperature che regolarmente arrivano a 115 gradi (Farenheit). Dai tempi dell’uragano Andrew, che devastò la Florida nel 1992, e benché la Florida sia diventata un simbolo della minaccia dell’innalzamento del livello dei mari, più di 5 milioni di persone si sono spostate sulle coste dello Stato, innescando un boom storico nell’edilizia e nel settore del real estate”. 

A disintegrarsi sono anche i simboli della geografia culturale degli Stati Uniti. 

Neppure l’Oregon è più lo spazio aperto, la frontiera della west coast, che per due secoli ha nutrito le speranze e la capacità di costruzione di una intera nazione. Questo sentimento è stato descritto perfettamente su THE ATLANTIC da Emma Marris: “Il west americano porta il peso di ogni sorta di bagaglio culturale, in buona misura un insieme di luoghi comuni sulla brutalità dei coloni-colonialisti, che in un batter d’occhio si trasforma nel culto, pericolo e tossico, di un duro individualismo e del saper contare solo su se stessi, i miti, insomma, delle opportunità infinite.

Eppure, una parte dell’ethos del west, a cui sono sempre stata attaccata, come chiunque nato a Seattle e che ora viva nell’Oregon meridionale, è che a ovest ci sia spazio – spazio per rimanere da soli, per stiracchiarsi ed esprimere se stessi, o per spostarsi e reinventarsi. Quando vivevo sulla East Coast, i tavoli dei ristoranti mi sembrano sempre troppo vicini. I parchi erano troppo affollati. L’orizzonte era soffocato da edifici e da alberi.

Tornando ad ovest i miei occhi sono stati di nuovo capaci di mettere a fuoco le montagne, lontane, e la vastità del Pacifico. Se ero annoiata o avevo bisogno di pensare, potevo sempre guidare finché sulla strada ci sarei stata solo io”. Dal 7 di settembre questo non è più possibile a causa dell’assedio del fuoco. La claustrofobia ha sostituito la gioia degli spazi aperti e immensi.

Non si può più scappare e nemmeno al chiuso si è al sicuro, perché in circolazione c’è un virus sconosciuto che ha già fatto migliaia di vittime: “l’aria all’interno dello spaccio di alimentari sembra viva per la presenza di migliaia di virus microscopici; l’aria all’esterno, nel parcheggio, è visibilmente densa di pini e abeti inceneriti.

Ogni respiro è un problema. In tutto l’ovest chi lavora nell’agricoltura, nell’edilizia e nei servizi è obbligato a respirare fumo e le esalazioni potenzialmente pericolose dei propri clienti. Non hanno un posto sano, pulito per lavorare. La regione dei grandi cieli e di una seconda chance è improvvisamente diventata piccola, affollata e soffocante”. 

Ora nessuno, qui in Europa, oserebbe dire che gli piacerebbe vivere in California o in Oregon. Come in un enorme sussidiario globale, il contesto americano ci restituisce il passaggio epocale, di questo 2021. È arrivato il momento di pagare il conto delle devastazioni ecologiche su scala planetaria. David Attenbourough lo ha sintetizzato nel titolo nel suo ultimo, radicale, documentario per la BBC: “Extinction: the facts“. Fatti e non opinioni.

Di botto, la zoonosi e una stagione di distruzione che, diciamo la verità, abbiamo sempre relegato al ventaglio di possibilità ecologiche tipiche del terzo, quanto, quinto mondo ( i Paesi da cui preleviamo risorse naturali senza scrupolo da 5 secoli), sono addosso a noi.

Da questo momento in poi le cose non andranno meglio o un po’ meglio, e nemmeno saranno riparate o riaggiustate. Da questo momento in poi sperimenteremo le conseguenze della nostra condotta moralmente apatica. Perché, se anche saremo a decine di migliaia di chilometri dalle zone rosse a 50 gradi e muri di fuoco, o da chissà quale altra sventura climatica a venire, comune sarà la certezza di vivere nell’epoca della distruzione. 

ORA CHE SEI QUI – La maggior parte di noi non sa di vivere nel tempo della sesta estinzione di massa, eppure siamo testimoni di una ecatombe biologica. Tracking Extinction è un magazine indipendente, che lavora sempre su dati scientifici in peer review e non riceve finanziamenti occulti o in conflitto di interesse. Ma anche la scelta etica di fare informazione libera deve rispondere ad un business plan e ha dei costi. Sostenere economicamente Tracking Extinction significa agire da persona libera, dotata di capacità critica e di un evidente principio di realtà.

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Le foreste del Pianeta hanno sete

SCIENCE - Hanging by a thread? Forests and drought ha analizzato la sensibilità del sistema vascolare degli alberi in condizione di siccità critiche: “il corso estremamente rapido del cambiamento climatico - scrivono gli autori - sembra stia introducendo una enorme instabilità nei tassi di mortalità delle foreste, a livello globale”. 

Le foreste del Pianeta hanno sete. Una delle crisi sistemiche dell’immediato futuro è la siccità. Negli Stati Uniti Occidentali (una area geografica che comprende California, New Mexico, Idaho e Oregon) è in corso, secondo una ricerca appena pubblicata, la prima mega-siccità innescata dal cambiamento climatico degli ultimi 1200 anni. Un evento acuto che sarebbe cominciato nel 2000, e cioè venti anni fa, con una diminuzione progressiva delle precipitazioni.

Le domande che circondano una situazione di questo tipo, non solo negli Stati Uniti, ruotano attorno alla tenuta degli ecosistemi e delle specie vegetali e animali che li popolano di fronte ad alterazioni così severe e prolungate. 

“Gli impatti di un Pianeta più caldo non sono più proiettati nel futuro. Sono già qui. Mentre il Pianeta diventa più caldo, gli effetti dello stress termico da calore sugli organismi che tentano di sopravvivere oltre le temperature per cui si sono evoluti diventa sempre più evidente. Dagli insetti alle barriere coralline, fino all’intera biodiversità e agli ecosistemi, i ricercatori scrivono la cronaca delle conseguenze dello stress da calore con temperature record”, ha scritto Jim Robbins sul blog della Università di Yale. 

SCIENCE ha dedicato alla siccità uno speciale, uscito lo scorso 16 aprile. Uno studio firmato dai ricercatori di 4 università – University of Tasmania (Australia), University of Minnesota (USA), Université Clermont Auvergne (Francia) e Western Sidney University (New South Wales, Australia) – fa il punto su un altro tipo di stress ecologico: lo stress idrico estremo delle foreste. 

Il paper (Hanging by a thread? Forests and drought) analizza infatti la sensibilità del sistema vascolare degli alberi in condizione di siccità critiche: “il corso estremamente rapido del cambiamento climatico – scrivono gli autori – sembra stia introducendo una enorme instabilità nei tassi di mortalità delle foreste, a livello globale”. 

La ricerca insiste su un aspetto evolutivo particolarmente importante per capire i motivi intrinseci alla biologia degli alberi che rendono le foreste della Terra così pericolosamente esposte al crescere delle temperature. 

Alcuni dei meccanismi che regolano il metabolismo degli alberi, consentendo la crescita del fusto e favorendo la resilienza alla penuria di acqua, possono amplificare in negativo la reazione fisiologica dell’albero ad una condizione di drastica e prolungata assenza di acqua.

La fotosintesi ha bisogno di CO2 per produrre energia e quindi di una alto tasso di porosità delle foglie, che la assorbono insieme ai raggi solari. Ma le foglie sono anche traspiranti, rilasciano cioè vapore acqueo, e il gradiente di traspirazione aumenta al crescere delle temperature.

Se la siccità diventa severa l’albero entra più rapidamente in uno stato di stress metabolico sistemico. Gli ecologi chiamano queste interferenze tra tratti evolutivi consolidati in migliaia di anni e le attuali condizioni ambientali “conflicting selection pressure”, pressione di selezione conflittuale.

Questo stato delle cose è globale, non riguarda solo le foreste tropicali o le savane. Infatti, la distribuzione attuale delle specie di alberi negli ecosistemi della Terra riflette già il loro adattamento a precisi schemi climatici. In parole semplici, le specie di alberi e piante attualmente presenti sul Pianeta sono minacciate dal crescere delle temperature perché le loro caratteristiche metaboliche riflettono degli adattamenti evolutivi che non sono adeguati alle nuove condizioni climatiche, in trasformazione, del Pianeta.

Secondo gli autori, la futura tenuta delle foreste potrà meglio essere compresa utilizzando come indicatore il “rischio di cavitazione” delle cellule che compongono il tessuto legnoso delle piante, e cioè gli xilemi. All’interno di queste cellule funziona infatti una precisa dinamica idraulica che permette all’acqua del suolo di passare dalle radici alla chioma dell’albero.

Nella fisiologia idrica degli xilemi sta quindi anche la vulnerabilità di ogni pianta alle siccità estreme perché è nelle cellule che può innescarsi un effetto domino irreversibile che conduce alla morte dell’albero.

È questo uno scenario ormai di proporzioni globali: “La maggior parte dei dati empirici suggerisce che il declino delle foreste è già in corso. Futuri miglioramenti nella comprensione delle fisiologia degli alberi e un monitoraggio dinamico sono indispensabili per migliorare la chiarezza delle previsioni future.

E tuttavia, cambiamenti nella struttura e nella ecologia delle comunità di alberi sono ormai certi, così come lo sono le estinzioni di alcune specie di alberi per azione diretta o indiretta delle siccità e delle temperature elevate”. 

Quando le foglie traspirano di più perché le temperature sono troppo alte la tensione idrica degli xilemi diventa maggiore e più instabile. All’interno della parete cellulare dello xilema la tensione negativa genera spazi vuoti  e quindi bolle di aria, che provocano una embolia  e di quindi il blocco nel passaggio dell’acqua.

Un clima eccezionalmente caldo, unito alla siccità, compromette quindi la capacità degli alberi di distribuire l’acqua dalle radici ai rami ( water transport capacity ). A collassare è la dinamica idraulica interna dell’albero, che muore prima che tornino le piogge.

Se anche un albero sopravvive, i danni fisiologici riportati innescano degli effetti a cascata le cui implicazioni riguardano anche la capacità delle foreste di stoccare carbonio: “l’eredità di una siccità, in termini di danni e mortalità degli alberi, è spesso protratta nei mesi e negli anni successivi al picco di aridità, il che implica le ancora più complesse interazioni tra l’acqua racchiusa nelle piante e il carbonio stoccato nella pianta stessa, elementi anch’essi importanti nel processo di guarigione.

Le piogge permettono agli alberi che non hanno patito il collasso catastrofico degli xilemi di sostituire gli xilemi danneggiati attraverso la crescita di nuovo tessuto legnoso. Ma questo ha un alto costo energetico e può portare ad un depauperamento delle riserve di carbonio e quindi ad una vulnerabilità nei confronti dell’attacco degli insetti”.

Con gli attuali trend delle temperature medie globali, il range delle foreste è destinato a cambiare. Il “migration tracking” è una delle strategie evolutive con cui le specie, anche vegetali, tentano di sfuggire all’estinzione: spostandosi per seguire le condizioni climatiche ed ecologiche per cui si sono evolute.

In questo secolo sono previsti dei decisi slittamenti delle specie vegetali e arboree verso nicchie ecologiche diverse (il cosiddetto range shift). Una altra possibilità è l’adattamento alle nuove condizioni. E tuttavia “questo meccanismo di sopravvivenza è contingente alla capacità delle specie di migrare rapidamente e poche specie è verosimile saranno abbastanza veloci da tenere il passo con l’attuale velocità di riscaldamento del clima”. 

Questo significa solo una cosa: rischio di estinzione.

Un rischio che è particolarmente acuto, esattamente come accade per le popolazioni delle specie animali, perché minore è la diversità degli alberi di una specie, all’interno delle foreste, maggiore è l’esposizione agli effetti fatali delle temperature più calde.

Un altro fattore di stress ecologico per gli alberi sono i megaincendi.

“Il potenziale per i livelli di adattamento che tengano il ritmo dei cambiamenti ambientali dipende da un certo numero di fattori, inclusi i livelli di diversità genetica presente su tratti decisivi, la differenziazione tra le popolazioni di alberi che resistono e quelle che si espandono, il flusso di geni tra popolazioni”.

Gli studi disponibili su queste questioni, che ragionano cioè sui tratti genetici che regolano le dinamiche idrauliche, riguardano le conifere e le piante decidue delle latitudini temperate. La resistenza alla cavitazione degli xilemi è bassa nei pini, ma può essere più marcata nelle angiosperme come il faggio.

“Questa mancanza  di diversità genetica può limitare la capacità di adattamento alla crescente aridità per come sono distribuite le piante oggi. Le foreste con una più elevata diversità nei tratti che regolano l’idraulica degli alberi appaiono meglio attrezzate contro i cambiamenti come la quantità di acqua nel suolo e un deficit di pressione interna”. 

Australia: il destino ha cambiato direzione

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In Australia è finalmente chiaro il destino del XXI secolo. Gli incendi che da mesi devastano il sud del Paese sono un inferno per gli uomini e per gli animali. Non solo per le persone di nazionalità australiana, che hanno perso tutto. Anche per mezzo miliardo di animali morti e per quelli che moriranno nei prossimi mesi perché il loro habitat non esiste più.

Questa apocalisse non è però la nemesi del cambiamento climatico, i cui segnali di avvertimento sono rimasti inascoltati e derisi per decenni.

È arrivato il momento di pagare il conto, e questo lo sanno anche i bambini ormai. Stiamo assistendo, comodamente seduti in poltrona dall’altra parte del mondo, nella fredda Europa, a qualcosa di nuovo.

/2019/03/05/che-cosa-e-umanismo/Il destino degli esseri umani si è trasformato nel destino delle specie animali, e viceversa. 

Per capirlo, basta guardare la dedizione, l’abnegazione e la tenerezza con cui moltissimi volontari dei centri di recupero e persone comuni hanno offerto acqua e riparo a koala, vombati e canguri sconvolti dal fuoco e dalle ustioni.

Una intera nazione, nelle mani e nei cuori di gente come noi, in bermuda e magliette stinte, combatte contro il trauma della distruzione totale insieme ad animali annichiliti, che si affidano ai loro salvatori con fiducia. Quasi con amore.

È molto di più di una espressione della “trans-species relationship”, l’empatia cognitiva tra specie diverse descritta dalla neurospicologia evolutiva di scuola americana. Qui non si tratta solo di aver riconosciuto nella sofferenza animale la propria sofferenza.

Il soccorso agli animali braccati dal muro di fuoco di una atmosfera satura di CO2 è un atto di coscienza. Il destino umano ha cambiato direzione, nel New South Wales.

Nel pensiero occidentale il destino è un privilegio degli esseri umani.

Soltanto agli uomini è concesso di andare incontro al proprio scopo definitivo, incontrando la propria vocazione eroica oppure soccombendo alla ineluttabilità delle forze della natura.

Per i Greci, l’eroe è quasi più venerabile di un dio, perché l’eroe ha il coraggio supremo di andare fino in fondo al suo demone (il suo carattere più autentico) costi quel che costi.

Nel Cristianesimo, la regione di Stato della civiltà occidentale che conquista il Pianeta facendone terra di saccheggio, il destino diventa provvidenza. Un disegno di salvezza e di redenzione, anche questo riservato alla creatura apice della creazione, l’uomo.

Ma da dove viene il destino? È questa la domanda che il pensiero europeo, nonostante tutto, rimette in circolazione dopo la prima guerra mondiale.

È la lingua tedesca a fornirci le coordinate sostanziali per capire che cosa accade di nuovo, all’indomani di una presa di coscienza assoluta sulla capacità umana di annichilire la civiltà.

In tedesco destino si dice Schicksal, che significa “ciò che è mandato”. Heidegger insistette parecchio su questa parola, nei suoi ultimi corsi universitari. Se qualcosa è mandato, deve provenire da un luogo. E il destino è esattamente questo: ciò che arriva a noi da premesse lontane, nello spazio e nel tempo. Il destino è il copione su cui sono scritte le coordinate spazio-tempo fondamentali della nostra esistenza.

Io credo che il destino sia il Pianeta.

E il Pianeta è la storia evolutiva delle faune e degli ecosistemi.

Noi, come soggetti determinati nella nostra biografia personale, e come individui della specie Homo sapiens, dobbiamo rispondere della nostra appartenenza al Pianeta.

Il nostro destino è allora rispondere a questo richiamo di responsabilità.

Poiché il Pianeta non è composto di soli uomini e donne, ma di milioni di specie animali e vegetali, accettare il proprio destino significa condividere il diritto di esistere delle altre specie, farlo proprio, sentirselo sulla pelle.

Il destino non è una via speciale tracciata per gli uomini da chissà quale divinità superiore. É il sentimento di esistenza comune tra uomini e animali.

Gli Australiani si sono scoperti non solo braccati del fuoco, ma anche terribilmente vicini agli animali endemici del loro mondo, del loro paesaggio, delle loro case. Hanno capito che non c’è destino di uomini che non sia destino di animali.