Qualche giorno fa Rai5 ha dato in prima serata The Eichmann Show, un film non troppo noto del 2015 sul processo ad Adolf Eichmann, l’uomo dello RSHA (Reichsicherheithauptamt, Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich) che organizzò i trasporti ferroviari verso i campi di sterminio durante la fase cruciale della Shoah (1943-1945).
Eichmann venne processato a Gerusalemme nel 1961: per la prima volta davanti alle telecamere di tutto il mondo agiva e parlava in diretta un nazista in carne e ossa. Il film affronta proprio questa novità: lo show televisivo, le decisioni editoriali, e anche pubblicitarie, che motivarono il produttore, Milton Fruchtman, il regista, Leo Hurwitz, e le autorità israeliane a mostrare o non mostrare i dettagli del procedimento penale.
Perché alcune cose non erano affatto scontate. Che, ad esempio, il pubblico in generale avesse voglia e interesse a seguire gli interrogatori alle vittime, le testimonianze dei sopravvissuti e i loro racconti sulle fucilazioni di massa condotte dalle Einsatzgruppen nella Russia bianca nell’estate del 1941.
Dopo la prima “puntata” con l’arringa introduttiva del Procuratore Generale gli ascolti crollarono. Fruchtman pretendeva che Hurwitz, un regista di fama con una esperienza da talento indipendente, riprendesse senza esitazione le espressioni dei testimoni, anche quando crollavano paralizzati in preda a crisi di angoscia e di terrore ricordando le uccisioni dei propri bambini.
Molti giornalisti accreditati erano piuttosto d’accordo e rinfacciavano ad Hurwitz notizie ben più appetibili che, quanto ad appeal mediatico, facevano concorrenza ad Eichmann e ad Auschwitz. Fidel Castro a Cuba e Gagarin nello spazio. In fondo, ormai, era tutto finito, o no? Perché insistere su particolari raccapriccianti di un processo il cui esito era scontato? Gagarin era il futuro dell’umanità, Eichmann e gli assassini di Hitler il passato.
Non era forse vero che anche il procuratore tedesco Fritz Bauer, che aveva fornito agli israeliani le informazioni essenziali per catturare Eichamann in Brasile, si era scontrato con la stessa ansia di dimenticare che animava la società tedesca del dopoguerra?
Non dovremmo mai dimenticare le analogie tra le politiche di sterminio di Hitler e lo schema di estinzione pianificato ed applicato dall’espansionismo europeo a partire dal XV secolo.
È qui che questo film entra di prepotenza nel nostro maggio 2020. Hurwitz se ne frega dell’audience, vuole riprendere la faccia di Eichmann. È convinto che prima o poi il tedesco si tradirà, mostrerà un segno di orrore e di sconcerto per il peso delle proprie azioni, o forse anche una ombra di compassione.
Come era accaduto a Franz Stangl, il comandante di Treblinka, che un giorno, vedendo un carico di vacche destinate al macello, riuscì a mettere a fuoco ciò che accadeva nel campo dove, sotto la sua giurisdizione, vennero gassate 900mila persone. Hurwitz pensava che in chiunque si nascondesse un fascista, date le necessarie condizioni di contesto politico.
La prima delle sue ipotesi era sbagliata. Eichmann non disse mai una sola parola di partecipazione emotiva e morale alle conseguenze dello sterminio.
Ma la seconda ipotesi del regista americano aveva qualcosa di fondato. Le preoccupazioni di Fruchtman e la noia giocosa dei reporter incuriositi da Gagarin fornivano indizi per comprendere le ragioni che spingono un individuo mediocre a collaborare con un potere criminale. Un unico atteggiamento mentale: adeguarsi il più in fretta possibile alle condizioni esterne, accettare con opportunismo i gusti più in voga in quel momento, concentrarsi su ciò che serve adesso, senza tanti pregiudizi morali.
Un crudo talento nell’adattarsi alle circostanze. E’ lo stesso conformismo con cui il Nord Globale continua ad accettare lo sfruttamento biopolitico del Sud Globale. E la sofferenza della biosfera.
Nel 1961, in sala stampa, a Gerusalemme, e nell’opinione pubblica di riflesso, dicevano: è finita, abbiamo voltato pagina. Non ci interessa conoscere i dettagli, abbiamo ricominciato a vivere. Divertiamoci. C’è il sole. Sono le conversazioni che ascoltiamo al bar, ora che la fase acuta della pandemia è passata. Abbiamo avuto anche noi il nostro aprile 1945. Basta !
Se anche riuscissimo a scoprire cosa pensava un solo tedesco che aderì al nazismo, scopriremmo che nelle vite e nelle intenzioni dei tedeschi non c’era nulla di eccezionale, di eccessivo. C’è qualcosa, nell’umanità europea, che riesce a trattenere, vivere e poi espellere lo sterminio. Facendone un uso normalizzato. Per questo l’estinzione della vita sulla Terra non è un argomento politico, ma solo una scoperta scientifica.
È la vittoria dell’infantilismo moderno: voglio solo tornare alla vita di prima. E poi: la speranza.
La speranza è diventata uno strumento di imbastardimento politico e psicologico. È populismo puro. Serve per curare qualunque malattia. Il rifiuto di comprendere le cause del virus, le condizioni ecologiche che gli hanno permesso il suo spettacolare spillover, le conseguenze sistemiche della disintegrazione di un benessere economico precario, fittizio, illusorio.
La speranza è un balsamo contro la coscienza sporca che non abbiamo fatto nulla, prima, non adesso, per prevenire il disastro. La speranza mi aiuta ad evitare la responsabilità.
La speranza non serve a nulla. Se non a dilazionare i tempi di reazione. Peggiorando ancora di più i sintomi. Lo ha spiegato con la giusta rabbia Nilah Burton su VICE ( agli ambientalisti da salotto con il santino della pala eolica al posto del crocifisso, non piacerà). Mary Eglar è una scrittrice in residence della Columbia University ed attivista che studia la sofferenza psicologica delle comunità più povere di neri americani maggiormente esposti agli effetti dei cambiamenti climatici.
Secondo la Eglar “la rabbia climatica è una risposta normale a queste ingiustizie e alla continua violenza”. Il confronto con i bianchi è dirompente: “troppo spesso la comunità che si esprime sul clima, guidata da bianchi, si appoggia sull’idea di speranza, che conduce all’inazione. La speranza è un concetto bianco. Si suppone che tu abbia prima il coraggio, poi l’azione e quindi la speranza. Ma i bianchi mettono davanti la speranza. La loro insistenza sulla speranza, in tutti questi anni, dove ci ha portati esattamente? A un bel niente”.
E questo niente, adesso, prolifera, come un virus in coltura, sulla retorica della solidarietà, del ritorno al sorriso, della speranza per il vaccino che verrà, della spiaggia a lettini distanziati ma pur sempre estate.
Che la catastrofe ambientale prima o poi si risolverà da sola, che i dati in nostro possesso sul crollo delle reti trofiche negli ecosistemi siano esagerati, che la macchina elettrica spazzerà via il rumore, il particolato e la tristezza dalle nostre metropoli intasate di amarezza, povertà e giovani disoccupati.
È questa speranza vuota, ripetitiva, il male peggiore. E assomiglia tantissimo alle speranze della società tedesca nell’assolata e spensierata estate del 1939.
(Foto: un reduce della Prima Guerra Mondiale a Berlino).
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