
Mercoledì saranno 75 anni dalla liberazione del campo di Bergen Belsen, il lager vicino Hannover, Germania, in cui le truppe Alleate trovarono 70mila persone ridotte a scheletri, molti già morti e lasciati a decomporsi in mezzo ai vivi. Questo capitolo sconvolgente della Guerra Mondiale si è fissato nell’immaginario comune grazie alle riprese girate sul posto, montate poi in un documentario ufficiale. Ma le distese di cadaveri di Bergen Belsen, da sé, non state sufficienti a tramandare agli Europei del futuro la lezione più mostruosa che avevano, loro malgrado, incarnato.
Questa lezione è particolarmente atroce oggi, al tempo della pandemia, perché descrive in profondità i tratti del nostro carattere umano che non si erano affatto esauriti con il 1945, ma che, funzionando a pieno regime sotto altre spoglie, hanno condotto al disastro biologico di Wuhan, Cina, gennaio 2020.
Intanto, Bergen Belsen fu una nemesi europea, e non solo tedesca. Crollava, con l’apparato ideologico del regime che aveva voluto il campo, l’orgoglio europeo di essere una fulgida civiltà di principi umani e umanistici, esportabili ad altre culture in altri continenti in nome di una superiorità morale coltivata in XV secoli di Cristianità. Quasi nulla di tutto questo è purtroppo filtrato nella nuova Europa della ricostruzione, votata al commercio globale iper-organizzato, alla prosperità economica liberista e al saccheggio del Pianeta. I suoi media di massa hanno invece propagato e rafforzato il luogo comune che Bergen Belsen fosse l’apice di una nemesi esclusivamente tedesca. È così che ci siamo messi tranquilli, a pianificare il nuovo mondo dell’innocenza collettiva, ora che tutto è finito.
Ma se affrontiamo il problema posto a noi posteri da Bergen Belsen siamo costretti invece a guardare in faccia un aspetto della realtà storica dei più misconosciuti. Ogni epifania storica ha dei precedenti. Gli episodi più scabrosi della esperienza umana sono sempre il frutto ultimo di una lunga preparazione, che li ha tenuti in incubazione, li ha preparati passo dopo passo, li ha predetti.
Il Nazismo non ha preso il potere in due giorni, ma in 13 anni. C’è un capolavoro della letteratura tedesca di quel periodo, E adesso, pover’uomo?, di Hans Fallada (edizioni Sellerio 2008), che uscì nelle librerie della Repubblica di Weimar nell’estate del 1932. In questo romanzo crudele e cristallino Fallada racconta la disgrazia economica di una giovane coppia di Berlino. Tra un numero incalcolabile di cause culturali e politiche, è nella miseria incurabile di milioni di persone comuni che sprofondano le ragioni dell’adesione al regime. Dalla democrazia rappresentativa non arrivava nessuna risposta a coloro che erano costretti a vivere con 20 marchi al mese nelle baracche di legno che punteggiavano le campagne fino a 40 chilometri da Berlino. Le “capanne per le vacanze” , che divennero abitazioni di fortuna, scaldate, si fa per dire, con stufe a carbone in inverni che arrivavano a meno quindici gradi sotto lo zero. Ci sono ancora, oggi, queste casette improvvisate, fuori delle città tedesche, dove chi può coltiva un orto ed espone la bandiera della Germania riunificata. “Ordine e pulizia: roba di una volta. Pane e lavoro sicuri: roba di una volta. Farsi avanti e sperare: roba di una volta. La povertà non è soltanto miseria, la povertà è anche un reato, la povertà è un marchio, la povertà è sospetta”, scrive Fallada, centrando il sentimento di una generazione il cui rancore sociale finì in bancarotta morale. Nel consenso totale ai nuovi, che promettevano nuova dignità in una Germania nuova.
Ora, questa pandemia non arriva dal nulla, e non arriva nemmeno in un contesto sociale in cui tutto va per il meglio. I precedenti datano almeno al 2008, se consideriamo la crisi sociale, e cioè alle politiche di austerity che hanno messo in ginocchio un ceto medio europeo già in affanno. E poi c’è la crisi biologica, quella negata dai media, ignorata dall’opinione pubblica, e che però intanto produceva, dall’estate del 2003, disastri climatici a ripetizione e l’epidemia di SARS nel 2002-03. Molti commentatori, soprattutto sulla stampa estera in lingua inglese, hanno espresso il timore che la pandemia, insistendo sulle diseguaglianze economiche già consolidate, possa condurci ad un inasprimento del razzismo, del nazionalismo e del sovranismo. Qui da noi, Alessandro De Angelis sull’Huffington Post ha più volte scritto del pericolo che il nostro Paese si divida ancora di più in fazioni autonome ed autarchiche, in mancanza di una unitaria visione di Paese che sappia dare risposte economiche rapide ed efficaci.
Quel che ci dovrebbe far riflettere, ma per davvero, è però la linea di continuità tra diseguaglianze sociali ed epidemie. Così la pensa il brillante storico americano Peter Turchin, che ragiona a freddo sugli effetti della demografia umana.
Turchin: “Ci sono diversi trend, in generale, durante la fase pre-crisi che rendono il sorgere e la diffusione delle pandemia più probabili. Al livello più basilare, la crescita demografica sostenuta produce una più grande densità demografica, che aumenta la riproduzione fondamentale di praticamente ogni tipo di malattia. Ancora più importante, la eccessiva disponibilità di forza lavoro, risultato della sovrappopolazione, deprime i salari e i guadagni per la maggior parte delle persone. L’immiserimento, specialmente nei suoi aspetti biologici, rende la gente meno capace di combattere i patogeni. La gente in cerca di lavoro si sposta e si concentra nelle città, che diventano terreni di coltura per la malattia. A causa del movimento più consistente tra regioni, è più facile per le malattie saltare dentro le città”. Perché poi ci sono le élites, con potere di spesa, che comprano beni di consumo anche esotici, che vengono da lontano, e viaggiano da un continente all’altro con regolarità. Secondo Turchin, questo è uno schema che si è già ripetuto, benché con differente intensità, in coincidenza con ogni devastante epidemia della storia, dal Medioevo ad oggi. Turchin definisce questo schema “l’età della discordia” (the Age of Discord), intendendo che l’instabilità sociale è la camera di fermentazione di processi economici e biologici interdipendenti.
La lezione sui precedenti è dunque questa. Non possiamo fare finta di niente e raccontarci che tutto tornerà come prima. L’evento di epifania – la pandemia – ha semplicemente scoperchiato la verità imbarazzante di un sistema sociale che non teneva fino a un mese fa, e non terrà nemmeno in futuro.
Ha scritto Gael Giraud su Civiltà Cattolica: “I lavoratori, anche quelli più in basso nella scala sociale, prima o poi infetteranno i loro vicini, i loro capi, e gli stessi ministri alla fine contrarranno il virus. Impossibile mantenere la finzione antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico che la accompagnano da quarant’anni”.
Nessuno può più illudersi che la sua salvezza possa prescindere dalla salvezza delle specie animali e dei loro habitat, e dall’equilibrio climatico della atmosfera:
“La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza. E questa pandemia non è affatto l’ultima, la «grande peste» che non tornerà per un altro secolo, al contrario: il riscaldamento globale promette la moltiplicazione delle pandemie tropicali, come affermano la Banca Mondiale e l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) da anni. E ci saranno altri coronavirus (…) A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione massiccia alle energie rinnovabili. La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il capitalismo conosce «il prezzo di tutto e il valore di niente», per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente”.
Esattamente come nel 1945, in quanto esseri umani, siamo tutti colpevoli della piega presa dalla nostra civiltà. Gli anniversari più spaventosi della nostra storia servono a capirlo.