Sono passati 75 anni dalla liberazione del campo di Bergen Belsen, il Lager vicino Hannover, Germania, in cui le truppe Alleate trovarono 70mila persone ridotte a scheletri, molti già morti e lasciati a decomporsi in mezzo ai vivi. Questo capitolo sconvolgente della Seconda Guerra Mondiale si è fissato nell’immaginario comune grazie alle riprese girate sul posto dalle forze alleate, montate poi in un documentario ufficiale. Ma le distese di cadaveri di Bergen Belsen, da sé, non state sufficienti a tramandare agli Europei del futuro la lezione più mostruosa che avevano, loro malgrado, incarnato. La lezione di Bergen Belsen è ancora pressoché sconosciuta.
La dimensione delle politiche di sterminio di Hitler non è ancora abbastanza studiata nel contesto più generale della predisposizione europea a istituzionalizzare la violenza. Lo hanno fatto notare Achille Mbembe, Dan Stone e lo storico tedesco del colonialismo Juergen Zimmerer. Di solito il ricorso al nazismo è funzionale a sostenere parallelismi politici di tipo sensazionalistico, con poco fondamento.

Achille Mbembe, uno dei più grandi filosofi contemporanei, sulle pagine del settimanale tedesco DER SPIEGEL. “L’Europa soffre della perdita di significato della sua civiltà. E le élite africane non hanno ancora cominciato ad usare il potenziale del loro continente”.
Parliamo a sproposito di nazismo. E non abbiamo ancora cominciato a cercare nel nazismo le tracce di altri orrori inscritti nella profondità del nostro carattere occidentale: l’uso del genocidio negli ultimi cinque secoli.
“Negli anni Cinquanta il poeta e politico martinicano Aimé Césaire scrisse, nel suo sorprendente Discorso sul Colonialismo, una delle maggiori opere della letteratura anticoloniale, che il problema ‘per il borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo’ è che ‘porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero che Hitler abita in lui’ e che, ‘pur biasimandolo, in fondo, ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco”, scrive Dan Stone, “l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di avere applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi in Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa’”.
La prima lezione di Bergen Belsen riguarda i meccanismi del consenso. I tedeschi che furono condotti a vedere con i loro occhi che cosa aveva fatto il regime si giustificarono affermando di non averne mai saputo nulla. Una analoga impalcatura psicologica (negazione, ipocrisia, apatia mentale) sorregge il rifiuto contemporaneo di riconoscere la gravità e le cause del cambiamento climatico e della sesta estinzione.
Bergen Belsen descrive in profondità i tratti del nostro carattere umano affatto esauriti con il 1945, che, funzionando invece a pieno regime sotto altre spoglie, hanno condotto al disastro biologico di Wuhan, Cina, gennaio 2020.
Bergen Belsen fu una nemesi europea, e non solo tedesca. Crollava, con l’apparato ideologico del regime che aveva voluto il campo, l’orgoglio europeo di essere una fulgida civiltà di principi umani e umanistici, esportabili ad altre culture in altri continenti in nome di una superiorità morale coltivata in XV secoli di Cristianità.
Nulla di questa consapevolezza è filtrato nella nuova Europa della ricostruzione. È così che abbiamo pianificato il nuovo mondo dell’innocenza collettiva, ora che tutto è finito.
Il nuovo volto dell’innocenza (voltare altrove lo sguardo) è il consumismo. Imparentato, però, con il colonialismo e con il razzismo istituzionalizzato nella cultura occidentale moderna. “Questo Paese innocente ti ha confinato in un ghetto”, ha scritto James Baldwin, “e in questo ghetto è stabilito che tu marcisca”.
Nella società europea post 1945 questa innocenza ha assunto anche le caratteristiche di un pensiero autoritario: la monolitica pretesa di vivere nel migliore dei mondi possibili, che, proprio per questo motivo, è immodificabile. Una sotteranea linea di continuità con la fiducia cieca nel progresso che nell’Ottocento confermava le aspirazioni dei liberali a considerare il capitalismo l’apice della possibilità umana di migliorare se stessi.
Ma ogni epifania storica ha dei precedenti.
Il Nazismo non ha preso il potere in due giorni, ma in 13 anni. C’è un capolavoro della letteratura tedesca di quel periodo, E adesso, pover’uomo?, di Hans Fallada (edizioni Sellerio 2008), che uscì nelle librerie della Repubblica di Weimar nell’estate del 1932. In questo romanzo crudele e cristallino Fallada racconta la disgrazia economica di una giovane coppia di Berlino. Tra un numero incalcolabile di cause culturali e politiche, è nella miseria incurabile di milioni di persone comuni che sprofondano alcune delle ragioni dell’adesione al regime.
Dalla democrazia rappresentativa non arrivava nessuna risposta a coloro che erano costretti a vivere con 20 marchi al mese nelle baracche di legno che punteggiavano le campagne fino a 40 chilometri da Berlino. Le “capanne per le vacanze” , che divennero abitazioni di fortuna, scaldate, si fa per dire, con stufe a carbone in inverni che arrivavano a meno quindici gradi sotto lo zero. Ci sono ancora, oggi, queste casette improvvisate, fuori delle città tedesche, dove chi può coltiva un orto ed espone la bandiera della Germania riunificata.
“Ordine e pulizia: roba di una volta. Pane e lavoro sicuri: roba di una volta. Farsi avanti e sperare: roba di una volta. La povertà non è soltanto miseria, la povertà è anche un reato, la povertà è un marchio, la povertà è sospetta”, scrive Fallada, centrando il sentimento di una generazione il cui rancore sociale finì in bancarotta morale.
La pandemia non arriva dal nulla. E non arriva in una società opulenta e pacificata. Molti commentatori, soprattutto sulla stampa estera in lingua inglese, hanno espresso il timore che la pandemia, insistendo sulle diseguaglianze economiche già consolidate, possa condurci ad un inasprimento del razzismo, del nazionalismo e del sovranismo.
Ed effettivamente il Covid ha generato una spirale di ulteriore arricchimento per i ricchi e di impoverimento ancora più acuto per i diseredati, i poveri, i profughi, i cittadini delle molte frontiere del mondo. Le diseguaglianze sociali non rendono solo più difficile intervenire in caso di emergenza sanitaria globale. Impigliano gli sforzi (per altro modesti) di definire una risposta politica ai cambiamenti climatici.
“La povertà estrema e la ricchezza altrettanto estrema sono cresciute ferocemente e simultaneamente per la prima volta in 25 anni. Tra il 2019 e il 2020, la diseguaglianza globale è cresciuta più rapidamente che in ogni altro periodo dalla Secondo Guerra Mondiale. Il 10% più ricco della popolazione globale attualmente detiene il 52% della ricchezza prodotta, laddove la metà più povera del mondo ottiene per sé solo l’8.5% di quel totale. Miliardi di persone fronteggiano la durezza dei prezzi dei generi alimentari in continuo aumento, e della fame, mentre il ristretto numero di miliardari è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Sappiamo che queste altissime diseguaglianze minano alle fondamenta i nostri obiettivi sociali e ambientali”.
L’evento di epifania – la pandemia – ha semplicemente scoperchiato la verità imbarazzante di un sistema sociale che non teneva più, e non terrà nemmeno in futuro.
Ha scritto Gael Giraud su Civiltà Cattolica: “I lavoratori, anche quelli più in basso nella scala sociale, prima o poi infetteranno i loro vicini, i loro capi, e gli stessi ministri alla fine contrarranno il virus. Impossibile mantenere la finzione antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico che la accompagnano da quarant’anni”.
Nessuno può più illudersi che la sua salvezza possa prescindere dalla salvezza delle specie animali e dei loro habitat, e dall’equilibrio climatico della atmosfera:
“La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza. E questa pandemia non è affatto l’ultima, la «grande peste» che non tornerà per un altro secolo, al contrario: il riscaldamento globale promette la moltiplicazione delle pandemie tropicali, come affermano la Banca Mondiale e l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) da anni. E ci saranno altri coronavirus (…) A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione massiccia alle energie rinnovabili. La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il capitalismo conosce «il prezzo di tutto e il valore di niente», per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente”.
Lo studio del nazismo, proiettato sul nostro impressionante presente, dovrebbe aiutarci a meglio comprendere i nessi tra il colonialismo, il razzismo, il collasso ecologico globale e l’implosione della governance europea. Hans Zimmerer su DIE ZEIT: “Non credo, non lo ho mai sostenuto, che i crimini del Nazismo potrebbero aver avuto origine dal Colonialismo e lì trovar una spiegazione. Analogamente, non viene logico dedurre dagli assassinii coloniali per quale motivo l’Olocausto sia venuto fuori proprio dalla Germania. Detto tutto questo, penso che una delle vie della Storia che conducono ad Auschwitz sia cominciata in Namibia. E questa via non è neppure una delle meno significative. Nel frattempo è diventato un fatto incontestato che i Nazionalsocialisti condussero nell’Europa orientale una vera guerra coloniale, nella cui cornice si giunse a punti estremi di violenza, sino a comprendere, appunto, l’Olocausto – ed è in questo che c’è un punto di contatto tra i due accadimenti storici. Una vistosa continuità è anche la segregazione razziale: già in Namibia, infatti, i tedeschi avevano tentato, di erigere uno stato su base razziale”.
Esattamente come nel 1945, in quanto esseri umani, siamo tutti coinvolti della piega presa dalla nostra civiltà. Con differenti gradi di colpevolezza, ma comunque coinvolti. Per questo rinunciare al pregiudizio di innocenza è così importante. L’innocenza, come la speranza, è una idealizzazione. E le idealizzazioni, spesso, uccidono.
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