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Nazismo e sovrappopolazione sembrano diventati sinonimi. Anche la London Review of Books cede alla tentazione di un paragone azzardato. Simili affermazioni sono di una enormità inaudita. Giornalisti e intellettuali che denunciano i rischi di una demografia insostenibile e l’inferno ecologico che attende i milioni di persone su un Pianeta con estati a 50 gradi risponde ad una ideologia politica di tipo nazista, e per questo simpatica ai suprematisti bianchi. Il nazionalnalsocialismo viene spesso chiamato in causa per screditare coloro che propongono analogie storiche inedite, tentando di andare a fondo della “fame di distruzione” di cui l’Occidente sempre essere capace senza soluzione di continuità. E’ successo, ad esempio, con Roger Hallam di Extinction Rebellion.

Il diritto alla nascita, i diritti riproduttivi e i diritti umani sono da secoli al centro della violenza coloniale. Per questo il dibattito sulla demografia umana è percepito dal sud globale come una interferenza brutale, che perpetua atteggiamenti di vecchia data. Spesso i governi coloniali hanno usato anche pratiche di sterilizzazione sulle popolazioni native. E’ successo negli Stati Uniti e anche in Canada.

Ma la tesi pubblicata dalla London Review of Books lo scorso 6 settembre nell’articolo Green and White Nationalism? firmato da Elizabeth Chatterjee è sconcertante. In questo editoriale l’autrice si dichiara convinta che anche l’attenzione per i gruppo etnici in minoranza  – come gli Indios dell’Amazzonia, gli Hadzabe della Tanzania, i San del Kalahari – sia per gli ambientalisti un abile trucco per mascherare un primitivismo più vicino al Nazismo che al riconoscimento di civiltà non occidentali. 

La London Review of Books non è nuova a operazioni politiche di questo tipo.

La Chatterjee compila infatti un elenco di nefandezze storiche l’ambientalismo avrebbe commesso alleandosi con il razzismo istituzionalizzato, e quindi considerando gli ecosistemi ancora integri (wilderness) un privilegio dei soli bianchi ai danno dei nativi. Sicuramente il dibattito sulle origini syoriche del concetto di “natura selvaggia” ha raggiunto un punto di conflagrazione. E’ infatti vero che il sistema delle aree protette poggia su una idea di “natura” uscita dal capitalismo bianco a fine Ottocento.

Che la netta separazione tra terre selvagge da conservare a qualunque costo, previa espulsione delle popolazioni indigene, sia stato un capitolo nella costruzione di “ecologie coloniali scientificamente obiettive” non è in discussione. Ma fermarsi qui è riduttivo.

“Il legame tra ambientalismo e razzismo non è nuovo. I romantici avvocati della wilderness antica spesso cercavano di escluderne le popolazioni native in stato di povertà – scrive la Chatterjee – Madison Grant, che collaborò alla fondazione del Bronx Zoo, del Glacier National Park e della Save the Redwoods Leaugue, era anche autore di un trattato sulla eugenetica intitolato The Passing of the Great Race (1916)”. 

Il problema demografico, emerso negli anni Sessanta e Settanta, sarebbe quindi un corollario del razzismo eugenetico, e ancora una volta il nemico numero uno è Paul Ehrlich, professore emerito a Stanford, che nel 1968 pubblicò The Population Bomb e “dipinse New Dehli come un inferno, predicendo che centinaia di milioni di persone sarebbero morte di stenti”.

Le conseguenze della sovrappopolazione ( e il prezzo di sofferenza che comporta ) sono state esplorate da un valido documentario scritto e prodotto dalla cineasta italo-americana Valentina Canavesio.

Evidentemente Elizabeth Chatterjee ignora la siccità devastante che non solo questa estate ha ridotto in ginocchio il Chennai, in India, ma che ormai, come ha spiegato il World Resources Institute, è solo un sintomo di un gravissimo stress idrico che ormai affligge 17 nazioni del mondo: “attraverso una nuova modellistica idrogeologica, il WRI ha scoperto che il prelievo di acqua, su scala globale, è più che raddoppiato dagli anni ’60 a causa del crescere della domanda – e che non ci sono segnali di un rallentamento di questa domanda”. Siamo oltre 4 miliardi in più rispetto agli anni ’60.

Il corrente tasso di estinzione delle specie superiore di 10mila volte al normale livello di scomparsa ( il background extinction rate) non è sufficiente, per la London Review of Books, per considerare seriamente la proporzione tra il numero di esseri umani che nascono e muoiono sulla Terra e la relazione di continuità tra lo spazio che accaparriamo per noi e quello che rimane per gli animali.

Chatterjee cita poi con disgusto il saggio di Garrett Hardin The Tragedy of the Commons, che Science pubblicò nel dicembre del 1968. Hardin “dichiarava che la libertà di riprodursi è intollerabile e che quindi solo la coercizione avrebbe potuto prevenire il collasso ecologico”.

I limiti della libertà sono ormai oggetto di investigazione filosofica, come ho scritto qualche giorno fa commentando il lungo editoriale uscito su Die Zeit domenica scorsa (Teufel traegt Oeko). Anche un intellettuale altrimenti piuttosto avverso alla sensibilità di sinistra come Peter Sloderdijk ha espresso platealmente la tesi, nel saggio Cosa è successo nel XX secolo ? secondo cui l’approdo finale della crisi climatica, ormai irreversibile, potrebbe essere una dittatura nera e verde al tempo stesso.

Nera, perché un regime è pur sempre un regime; verde, perché quando arriveremo al punto di non ritorno, non avremo più possibilità alcuna di scelta. A quel punto, sarà allora chiaro che il prezzo della libertà assoluta è la perdita radicale della libertà in nome della sopravvivenza.

La questione della coercizione, e del necessario arretramento della democrazia, non ha dunque nulla a che vedere con gli estremismi, i fascismi, il Nazismo o chissà quale altra tendenza politica genocidiaria, come invece sembra suggerire l’autrice.

Si tratta invece di inquadrare storicamente il rischio di dover rinunciare alla democrazia sotto la pressione insostenibile degli esiti ultimi del nostro esercizio della libertà. E’ la critica della ragione razionale che già Adorno, nel lontanissimo 1946, pose come problema centrale della modernità. Nell’epoca della razionalità la ragione (far quadrare i bilanci, non fermare l’industria, non decrescere, ottimizzare i costi) può essere il principio della più irrazionale delle condotte.

Per Chatterjee, invece, “ il mainstream verde ha un problema: ha stretto alleanza con l’ideologia senza radici del globalismo, esemplificata dall’accordo di Parigi”. E quindi i partiti ambientalisti si sarebbero trovati di fronte alla necessità di rafforzare “il sentimento del luogo e dell’appartenenza”, sposando le popolazioni indigene non bianche un tempo lasciate ai loro ghetti.

Ecco allora che vanno finalmente bene i Lakota Sioux di StandingRock, come fonte di rinnovata ispirazione. La prova di queste affiliazioni sarebbe che anche uno psicopatico come Anders Behring Breivik, che nel 2011, in una isola vicino Oslo, uccise 77 persone, si disse d’accordo con il ritorno alla natura.

Ma non basta: anche Marine Le Pen sarebbe a suo modo una ambientalista, perché ha dichiarato, a ridosso delle elezioni europee dello scorso maggio, che “i confini sono il più grande alleato dell’ambiente (…) e che chi ha radici nella propria casa è un ecologista, mentre il nomade non si cura dell’ambiente perché non ha patria”.

Un simile pressappochismo intellettuale fa buon gioco ai negazionisti del collasso ecologico. Spesso coloro che negano che la demografia umana sia una faccenda delle più scottanti sottovaluta anche il riscaldamento del Pianeta.

Ma forse qui c’è anche dell’altro. La London Review of Books è una rivista di raffinata cultura letteraria. Quanti, di coloro che vi scrivono, non abitano a Islington o Kensigton, lontani anni luce nelle baraccopoli sul Golfo di Guinea o in India? Forse il vero imbarazzo lo dovremmo provare dinanzi al fatto che su questi argomenti a scrivere non è mai uno scrittore o un accademico con la pelle nera.

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MONDO ED ESTINZIONE

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