Prendo la parola a Lampedusa. È notte. Non è ancora giorno, e non è più notte. È notte. La luce del giorno è vicina, anche se non la intravedo ancora filtrare nelle tenebre. Questo è il canto dell’Europa sconfitta a Lampedusa. Sin dal mio inizio notte e giorno erano separati. Le mie genti non erano solite mischiare le cose, sapevano attenersi scrupolosamente alle nette distinzioni scritte nel cosmo. Erano popoli di ferrea lucidità: la logica governava la loro visione del mondo, quando hanno cominciato a pensarlo, il Mondo. Una cosa è questo, e non può essere quest’altro.
Una via dice che è, e che non è possibile che non sia. L’altra dice che non è, e che non è possibile che sia. Qui è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno – PARMENIDE
Gente abituata a poetare, ma anche a dominare. La notte trascolora nel giorno. L’alba non è più la notte. E dove vada a finire la notte che non è ancora alba, questo non lo sappiamo. Ma ora, tanti secoli dopo, la notte ha cominciato a confondersi con il giorno, l’oscurità non è più solo il regno delle stelle. Guardando gli uomini e le donne africani giunti a Lampedusa, a migliaia in poche ore, m’è occorso di pensare che, nonostante tutto, non potevo più essere Europa. Arrivava dalle contrade dove il giorno può anche convivere con la notte la risposta che le mie genti non hanno saputo trovare nonostante i loro immani successi. C’è un luogo, ignoto, dove si rifugia la notte all’irrompere del giorno. Ma la notte c’è, anche quando non la vediamo.
Anche se nessun uomo le vedesse, non per questo le stelle brillerebbero di meno – ARISTOTELE
La dimora della notte è uno scandalo per le mie genti. Erano popoli ardimentosi, dal cuore impavido, ma ora non osano guardare là dove le loro azioni li hanno condotti. Mi hanno delusa, perché non sanno che è ora di rinunciare. Scricchiola il giorno, ma la notte è troppo limpida per il faro della coscienza. Siamo diventati timorosi di noi stessi. Riponevamo una fiducia smodata nel nostro austero principio di non-contraddizione. Il Mondo così come lo abbiamo voluto, e preteso, non è esattamente il Mondo che avevamo a disposizione, la biosfera. Non basta volere il Mondo, per averne a disposizione uno sufficiente alle nostre aspettative. Non sono qui a Lampedusa per far la morale ai miei figli e alle mie figlie. Il Mondo così come lo abbiamo ereditato non era né troppo piccolo né troppo grande. Non abbiamo voluto troppo. Ma abbiamo confuso i nostri desideri con il Mondo. Il Mondo non è un desiderio umano.
Uscire allo scoperto e stare nella presenza del Mondo. Questo i miei Europei lo hanno quasi dimenticato, al punto che non si accorgono neppure di quando qualcuno, ignoto al palcoscenico del potere, è presente a se stesso persistendo nella presenza del Pianeta e dei popoli che non sono NOI. Quella donna anziana di Lampedusa, che s’è trovata in veranda qualche decina di giovani uomini africani che chiedevano del cibo. E lei, senza una parola, senza un cenno o un versetto del Vangelo venuto a disturbare, s’è messa a cucinare pasta al pomodoro per tutti quei giovani, con la sua veste a fiori stampati, avendo cura di aggiungere del peperoncino piccante, “più simile alle tradizioni culinarie dell’Africa Occidentale”. Lei mi ha convinta a prendere la parola.
Se ci fu qualcosa di mal posto o di zoppicante, di incerto o di malvagio nel contegno delle mie genti, sin dall’inizio, allora lo voglio sapere. Voglio portare i nostri errori europei alla presenza del Mondo.
Io sono sorta con l’alba. Finora, non mi ero accorta di avere anche un tramonto, nonostante il mio nome (Occidente, la terra della sera). Io sono sempre stata innamorata dell’alba. Il primo chiarore del giorno per me fu una profezia. Lo potete intuire voi stessi, se guardate l’Altare di Pergamo, la lotta tra Dei e titani. Una interpretazione belligerante della luce in contraddizione con il buio. Il tramonto è sempre seguito da una alba. Ma l’Europa non attendeva il tramonto: aspettava l’alba. C’è sempre un alba. Chi attende la luce del sole non dedica importanza a ciò che è stato. Dovevo avere dentro l’alba, per immaginare un nuovo continente. L’alba è stata per le mie genti una opportunità, non un accadere del cosmo. Il tramonto è un intermezzo, un interludio, una ouverture.
Nel mio mondo europeo siamo stati sin dall’inizio impertinenti fino alla impudenza. Noi non stiamo semplicemente a guardare il mondo: lo interroghiamo. L’interrogare è riconoscere che esistono barriere contro di noi (la morte, il clima, la nascita delle piante e degli animali). È il non accettarlo. I muri diventano argomenti. Idee. Le genti europee hanno sempre voluto fare di ogni elemento del Mondo una argomento. Ogni domanda-risposta è così un oltre-passamento che porta la materia in un posto nuovo. Questo fu per me mio figlio Platone. Se interrogo, costruisco il Mondo, attraverso l’alternarsi delle domande e delle risposte. Quindi c’è una unica parola per produzione e poesia (POEISIS).
Gli Occidentali hanno abitato una stagione privilegiata dell’esperienza umana. Il momento dell’origine. Avete mai riflettuto sul tempo intercorso tra la nostra comparsa come specie anatomicamente moderna (250-200mila anni fa) e l’inizio della civiltà di cui menate vanto? Una distanza ancora comprensibile separava i Greci dagli antenati cacciatori-raccoglitori che dipingevano di animali le grotte dell’Europa continentale. Un abisso immensamente più contenuto rispetto al precipizio temporale che sta ormai tra noi e i primi di noi. Che cosa è la Grecia, se non il momento in cui noi occidentali, una percentuale minuscola della umanità globale, ha elaborato le sue prime idee sul Mondo?
In lingua apache la radice della parola ‘terra’ è la stessa della parola che indica la ‘mente’.
Non mi lascio ingannare da coloro che dileggiano il mio sdegno e suppongono che io rinneghi me stessa, pur di salvare ciò che non può più essere salvato. Costoro, i profeti dell’immobilità, i traditori del coraggio, i criminali dei crimini contro l’umanità, non sanno che gli organismi raggiungono la loro maturità senza neppure accorgersene. Anche noi Europei siamo diventati ciò che siamo nella incoscienza e nella insensibilità. Ci sono voluti i diritti umani, i diritti civili, i diritti francesi del Settecento, la schiavitù e il colonialismo per prender almeno un timido contatto con la necessità di un vincolo abbastanza elastico e robusto da circoscrivere il sentimento della nostra umanità. Prima dei massacri moderni, non sapevano di essere tutti uomini e donne umani nello stesso modo.
Ecco la nostra maturità di specie. Negli ultimi secoli siamo stati qualcosa che cresceva e non sapeva perché cresceva. Voi cianciate di crescita economica, ma non avete ancora compreso che la crescita, prima di essere economia purificata, è espressione di una genetica dell’esperimento. Noi siamo la specie che prova. La specie che deve entrare in contatto con il possibile e trovare in questo rischio il suo adattamento ecologico. Non sappiamo stare al mondo in un altro modo. La ricerca di una nicchia ecologica a un certo punto l’abbiamo chiamata MORALE. Ma la morale di noi Europei non è niente altro che lo stupore terreo, il sentimento del vuoto, dinanzi alla consapevolezza che non sappiamo stare fermi, mentre ripetiamo all’infinito i programmi ancestrali scritti dentro di noi dalla geografia della nostra evoluzione. L’insofferenza per noi stessi è la vera causa della morale.
Riconoscenti a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme dentro di noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino alla crudeltà, con mani senza scrupoli per l’inafferrabile, con denti e stomaco per quel che non può essere digerito, pronti a ogni mestiere che esiga perspicacia d’intelletto e di sensi, pronti a tutto osare grazie ad una sovrabbondanza di libero volere, con anime manifeste e occulte – NIETZSCHE
Noi Europei siamo diventati particolarmente bravi in questo. Gli altri non erano disposti a lasciarsi crescere fino a inglobare il Nulla. Loro sapevano fermarsi, sentivano ancora dentro il loro cuore il peso della crescita e non vollero acconsentire. Ebbero paura della virtù della crescita infinita. Dissero NO ad una delle nostre voci ancestrali.
“Quel giorno avrò visto una decina di cervi, ma sparai soltanto una volta. Il primo fece crocchiare le foglie secche scendendo a zig zag per la collina, ma era nascosto dalla boscaglia. Non mi vide nemmeno. Arrivò un esemplare giovane, muovendosi sopravvento verso di me, quindi si spostò dietro un masso. Avrei potuto seguirne le orme oltre il ruscello, ma sapevo che non era quello giusto. Porto con me soltanto un proiettile. E poi, senza nessun motivo particolare, ce ne è uno che si presenta nella radura e ti guarda negli occhi. Volge il fianco verso di te per permetterti di prendere bene la mira. So che è quello giusto, e lo sa anche lui. Ci scambiamo una specie di reciproco assenso. Ecco perché porto soltanto un proiettile. Aspetto quello giusto. Lui si consegna a me. È quello che mi hanno insegnato: prendi soltanto quello che ti viene offerto, e trattalo con rispetto” –
OREN, cacciatore della Nazione POTAWATOMI, attuali Stati Uniti d’America.
La crescita ha compromesso anche il modo in cui miei figli percepiscono il tempo. Sono incapaci di concepire la durata di un fenomeno, il tempo necessario perché una cosa giunga a compimento. Ma il protrarsi dei fenomeni scritti dentro la storia del Pianeta ha le sue stagioni, il suo ritmo, la sua lucentezza al momento opportuno. Senza il calcolo del succedersi dei giorni, la realtà scompare. La crescita infinita ha ucciso le stagioni del Mondo. L’agire trova la sua unità di misura nel tempo. Senza gli anni e i secoli tutto diventa artificiale.
Il razzismo coloniale ha approfittato della paralisi del tempo. Non capendo nulla della industrializzazione, non comprendendo la crescita dentro noi stessi, non riuscivamo a comprendere come ALTRI potessero ancora aver fede nella continuità e negli antenati o come interi mondi potessero finire estinti lasciando a NOI, e non agli sconfitti, un vuoto insondabile.
Lo sciabordio dell’acqua marina contro le chiglie delle barche che fanno rotta su Lampedusa è una delle tonalità acustiche di quel silenzio mortale. La crescita che torna indietro. La vocazione alla crescita che chiede udienza. La insistenza della crescita, che pretende di essere chiamata con il suo nome di battesimo: estinzione.
Sapremo, noi Europei, guardare ancora il volto degli antenati e dei progenitori, per reclamare una vita che non sia già estinta?
Padre antico, il tuo sguardo è ancora quello
del tempo in cui ti fu gradito vivere
tra i mortali, ma sei più riposato
ora e, come i beati, più sereno,
in questa casa dove il figlioletto
davanti a te ti chiama e gioca e ride
e sul tappeto verde del suo svago
balza come l’agnello sopra un prato.
La madre sta discosta, ed amorosa
L’osserva e meraviglia del linguaggio,
della sua mente giovane e degli occhi
Già in fiore.
(…)
Padre che taci, tu vivesti e amasti
così: per questo, come chi non muore,
soggiorni coi fanciulli, e molte volte
la vita scende sopra questa casa
da te come da un cielo silenzioso,
o uomo in pace. E quelli che sperando
trapiantasti, i tuoi alberi, maturano
E d’anno in anno crescono più nobili.
(…)
Ma al fondo della casa si riposa
Il vino che curasti e che torchiasti.
Caro a tuo figlio, che lo serba ai giorni
grandi, come un antico, schietto fuoco.
E lieto e grave, al pranzo della notte,
dopo aver raccontato con gli amici
molto, molto passato ed avvenire,
E l’ultima canzone ancora echeggia,
leva il calice, guarda la tua immagine,
Dice: “il nostro pensiero corre a te.
Si rispettino sempre i buoni Geni
della casa, da noi e in ogni luogo”.
Il suono chiaro del cristallo rende
grazie. E la madre per la prima volta
porge anche al figlio un poco del tuo vino
perché sappia che oggi è festa grande.
(Foto in copertina: Giovanni Boldini, Il ritorno dei pescatori, 1879, Petit Palais, Paris).
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