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La defaunazione è il volto della civiltà globale. La vera minaccia alla biosfera sono le miriadi di estinzioni delle popolazioni animali un tempo presenti sull’intero spazio geografico della loro specie. Non la scomparsa conclamata di una specie. Ma il suo lento accomiatarsi da intere regioni su scala continentale.

A condurci al centro del problema è ancora una volta è il Gruppo di Stanford (Rodolfo Dirzo, Gerardo Ceballos, Paul Ehrlich). I tre massimi esperti di questo fenomeno firmano uno studio se possibile più incisivo dei precedenti, uscito lo scorso 27 giugno su PHILOSOPHICAL TRANSACTION B della Royal Society: “Circling the drain: the extinction crisis and the future of humanity”.

Eppure, la defaunazione rimane una emergenza globale sconosciuta all’opinione pubblica. Su Instagram ci sono circa un centinaio di persone che ne parlano. Ma la defaunazione offre la chiave di interpretazione più importante del collasso della biodiversità. Per descriverne gli effetti, infatti, l’ecologia deve allearsi con lo studio della culture umane moderne e con l’economia. 

C’è anche un altro vantaggio, quando ci si addentra nelle foreste tropicali sempre più povere di vertebrati ed invertebrati. La defaunazione è lenta e impercettibile fino a quando le sue conseguenze diventano irreversibili. È, quindi, un fenomeno biologico, ma anche una grande metafora della civiltà umana iper-moderna. Anno dopo anno, ci inoltriamo in un esperimento inedito (Antropocene) dandone per scontate le conseguenze, che filtrano come banale routine nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Ma la sesta estinzione di massa, preparata da cambiamento climatico e defaunazione, preannuncia un impoverimento radicale del nostro sentimento di umanità. 

Negli ultimi 8 anni le certezze scientifiche sulla defaunazione hanno letteralmente cambiato il modo in cui pensiamo la sesta estinzione di massa. La diversità biologica del Pianeta va scemando, perché avanza la defaunazione: lo spopolamento interno di una specie, che perde progressivamente spazio geografico. E quindi un numero incalcolabile di sottili differenze (fenotipi) e adattamenti particolari, unici, che, nella somma delle sue popolazioni, rendevano quella specie molti diversificata, plastica e resiliente. Anche la IUCN include ormai il monitoraggio della diversità genetica tra i principali strumenti di conservazione del XXI secolo. 

Non sono tempi in cui risulti poi così arduo interrogarsi sul futuro dell’umanità. Sulla PNAS – PERSPECTIVE, un gruppo di ricercatori che invece si occupano soprattutto del sistema climatico terrestre ha lanciato una provocazione (“Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios”) politicamente appropriata (forse loro malgrado). Coerente con il caos che la crisi energetica ha portato nel cuore stesso dell’Europa, messa a ferro e fuoco da incendi, siccità e temperature ben oltre i 40 gradi Celsius. Lo scenario climatico peggiore, quello da fine corsa per la biosfera e l’umanità, il “Climate Endgame”, meriterebbe ormai una agenda politica e scientifica a parte, questo sostengono gli autori. Finora considerata troppo remota, la possibilità che anche un aumento di 2 gradi Celsius di temperatura possa innescare un collasso del Pianeta e della comunità umana è invece verosimile.

Accettarlo aiuterebbe a mettere in campo l’applicazione massima del principio di precauzione. Il rischio maggiore non è tanto il riscaldamento della Terra: “particolarmente preoccupante è l’innesco di una effetto domino a cascata di processi di non ritorno, che cominciano ad interagire tra loro in modo che una soglia limite superata su un aspetto ne mette in movimento un’altra, altrove”. Questo ha a che fare prepotentemente con la defaunazione: “la crescita delle temperature dipende, in modo cruciale, dall’insieme delle dinamiche del Sistema Terra, non soltanto dalla traiettoria delle emissioni antropogeniche”. La biosfera  contribuisce infatti alla regolazione e all’equilibrio del sistema climatico. 

L’intreccio di pericoli letali comprende la disintegrazione delle reti finanziarie, il conflitto sociale violento, i tassi di mortalità e la diffusione di zoonosi favorite dal caldo torrido sempre più frequente.

Che cosa dovremmo aspettarci? “É tempo per la comunità scientifica di venire a patti con la sfida di una migliore comprensione di un cambiamento climatico catastrofico. Una valutazione del rischio dovrebbe considerare come i rischi stessi si diffondo, interagiscono e si amplificano, aggravati, anche, dalla possibile risposta umana. La pandemia da Covid-19 ha indicato l’importanza di prepararsi a pericoli non frequenti, ma di alto impatto globale, e dotati di un gradiente di rischio sistemico. Gestire in modo prudente queste eventualità implica di tenere sempre in considerazione gli scenari peggiori”. Le crisi globali del XXI secolo, infatti, si espandono attraverso “fallimenti di risposta che tendono poi a funzionare in sincrono”, come la crisi finanziaria del 2008. 

La definizione corretta per una valutazione di impatto di questo tipo è “integrated catastrophe assessment”. Uno dei capitoli riguarda il potenziale del cambiamento climatico di innescare ed accelerare eventi di estinzione di massa. 

Tra i servizi ecosistemici decimati e compromessi dalla defaunazione c’è la dispersione dei semi nei contesti tropicali garantita da numerose specie di uccelli e di mammiferi in contrazione numerica: è un tema che negli ultimi dieci anni è andato imponendosi con sempre maggiore forza sulle principali riviste scientifiche.

Il Gruppo di Stanford non usa un tono meno preoccupato. Anche perché stavolta il messaggio sulla defaunazione supera i confini delle foreste tropicali. Se vogliamo capire fino in fondo cosa è la defaunazione, dobbiamo prendere in considerazione la geografia delle specie. Ovunque. Anche dove i parchi nazionali sono spacciati come la soluzione-panacea a tutti i nostri problemi. 

Il “cantiere” dell’estinzione di massa del nostro secolo sono le migliaia di estinzioni delle popolazioni locali di una specie. La rarefazione del numero di individui che compone una specie avviene sullo spazio geografico (home range) effettivamente occupato dalla specie stessa prima che l’espansione delle attività umane cominciasse a ridurne l’estensione. 

A volte, anche un unico esemplare può fare la differenza. Invertire una rotta già scritta.

Dirzo, Ceballos ed Ehrlich, però, dicono che questa situazione, che siamo abituati a considerare circoscritta a poche specie molto minacciate, è in realtà ormai la realtà storica di moltissimi animali. Animali a cui continuiamo ad attribuire un significato speciale nel nostro immaginario del Pianeta selvaggio. 

L’analisi geografica, combinata con le proiezioni sul numero di animali che compongono una specie, rivela che elefante africano, orso grizzly, giaguaro, lupo, rinoceronte nero, ippopotamo, bisonte nordamericano, orango sono specie già defaunizzate. Gli ecosistemi (e le nazioni) che le ospitano patiscono oggi gli effetti sistemici del degrado ambientale prodotto dal loro crollo numerico. Ecco qui dove si propaga, lontano dai riflettori, il crollo della resilienza anche del Nord ricco del Pianeta al caldo rovente che verrà.

Le cinque, grandi estinzioni di massa che abbiamo alle spalle dovrebbero ricordarci una doppia lezione molto importante. La diversità biologica della Terra può recuperare e tornare, ma questo recupero richiede milioni di anni. Ma soprattutto “dopo una estinzione di questa scala l’albero della vita si evolve in una configurazione radicalmente nuova. L’identità degli organismi che, per così dire, emergeranno dalle ceneri e la struttura delle comunità e degli ecosistemi di cui saranno parte, differirà profondamente dal periodo ‘normale’ prima dell’estinzione”. 

La seconda lezione è questa. La nostra specie è comparsa in un momento della storia del Pianeta in cui la diversificazione biologica dell’età dei mammiferi raggiunse una intensità numerica e qualitativa prodigiosa, “la più varia ed intensa nell’intera storia della vita”. Questo significa che è stata la ricchezza di specie della Terra a rendere possibile tanto la nostra nascita ed evoluzione quanto le nostre caratteristiche più specifiche e stupefacenti. Non saremmo mai diventati completamente “umani” senza le specie con cui abbiamo condiviso, sin dalle proto-scimmie del Miocene (4.5 milioni di anni fa) la nostra storia evolutiva. 

Civiltà e culture possono esistere, senza animali selvatici? 

Il Gruppo di Stanford invita insomma a leggere la defaunazione nel quadro più generale dell’emergere dell’Antropocene, l’esperimento di adattamento ecologico planetario di Homo sapiens. Negli ultimi 5 secoli, la strategia di espansione delle comunità umane ha potuto contare su un fattore moltiplicativo di impatto e trasformazione di ecosistemi e risorse naturali che oggi chiamiamo “crescita”. Qui sta l’origine del cambiamento climatico (la mobilitazione della produzione netta primaria fossile, ossia petrolio e carbone) e l’inizio moderno dell’Antropocene. 

La defaunazione è il sintomo più importante della sesta estinzione di massa. Negli ultimi 520 anni si sono estinte “solo” 700 specie di vertebrati. Un numero che parrebbe confortante. In realtà, sono stati spazzati via milioni di animali. 

Una specie che prospera sulla misura del tempo lungo (secoli) conta migliaia di individui distribuiti su territori enormi, e non qualche centinaio confinato in un parco nazionale o in una area protetta. Geografia e genetica sono i due fattori fondamentali della diversificazione delle popolazioni animali in una stessa specie.

“All’interno del loro range originario, gli individui che compongono queste popolazioni sono abbastanza numerosi da rendere queste popolazioni demograficamente e geneticamente vitali. Ma poi accade che questi mosaici di popolazioni siano investiti dai alcuni fattori di impatto antropogenico, uno per volta o di più contemporaneamente, intrecciati in sinergie complesse. Ecco, allora, che sotto stress, l’abbondanza degli individui comincia e declinare, e alcune popolazioni riducono la loro densità sotto il limite di guardia della vitalità di una popolazione. In qualche caso, le popolazioni avranno un declino ancora più marcato, scivolando verso l’estinzione e la contrazione del range della specie. Mentre questo processo avanza e progrediscono le estinzioni delle singole popolazioni, si contrae e riduce anche lo spazio originale della specie, fino al punto che soltanto poche popolazioni, composte da un numero molto basso di individui, sopravviveranno in popolazioni ora non più vitali dal punto di vista demografico e genetico. Ormai, la specie certamente c’è ancora, non è estinta, e tuttavia ha fatto esperienza di un collasso interno e l’umanità ha perso i servizi ecosistemi che un tempo essa garantiva”

È un “olocausto biologico”, secondo il Gruppo di Standord. Tra i pochi che hanno colto la gravità della situazione c’è Jedediha Brodie, ecologo alla University of Montana, che nel 2021 ha pubblicato sulla PNAS un lavoro pionieristico su quanto conta la diversità evolutiva delle faune del Pianeta. “La diversità filogenetica è una misura fondamentale della biodiversità, probabilmente la migliore delle misure”, scrisse in quell’occasione Brodie. Questo è il concetto più importante dell’intero discorso sulla conservazione, almeno dopo l’uscita del 2014 di Rodolfo Dirzo sulla defaunazione stessa.

Gli ecosistemi “funzionano” e tengono quando sono popolati da migliaia di animali di migliaia di specie differenti. Se potessimo sommarne la storia evolutiva presente e passata, scopriremmo che dovremmo risalire a milioni di anni fa per rintracciare il momento in cui tutte queste specie hanno cominciato a differenziarsi le une dalle altre, attraverso i loro antenati. 

Un esempio impressionante di defaunazione è quanto accaduto alla Castiglia (Spagna) esattamente negli ultimi 5 secoli. Duarte Viana, un ecologo della Doñana Biological Station del Consiglio Nazionale per la Ricerca in Spagna, ha esaminato le registrazioni storiche di un “censimento della flora e della fauna” deciso da Filippo II di Spagna tra il 1574 e il 1578. I documenti rimasti testimoniano che all’inizio delle Guerre di Religione europee tra Cattolici e Protestanti nella Spagna centrale c’erano specie animali oggi estinte o rarissime come l’orso bruno cantrabrico e il lupo iberico. Anche l’anguilla europea (Anguilla anguilla), a quei tempi presente in tutti i corsi d’acqua del Paese, e allora fondamentale risorsa alimentare, è oggi confinata solo negli estuari dei fiumi spagnoli. Il paesaggio faunistico della Spagna è radicalmente mutato in 500 anni.

A partire dal XVI secolo i racconti di viaggio sono la fonte primaria sulla defaunazione. Pullulano di inconsapevoli esempi della decimazione in atto delle popolazioni di specie animali che generavano profitti economici.  Oppure, all’opposto, descrivono le strabilianti moltitudini di animali presenti in regioni oggi completamente spoglie di quelle specie. 

I leoni regnano in Etiopia, in Africa Settentrionale, in Persia vicino a Bassora, o anche sulla strada del nord-ovest dell’India, verso l’Afghanistan”. La Siberia, in mano ai Russi dall’inizio del ‘500, offre alla vista spettacoli analoghi. Nella primavera del 1776 una spedizione di ufficiali russi risale il fiume Ob e uno di loro annota: “ho contato almeno cinquanta isole, sulle quali il numero delle volpi, delle lepri e dei castori era tale che li vedevamo scendere fino all’acqua”. La penisola della Kamcatka diventa un paradiso per la caccia alla lontra di mare, che verso il 1786 è ormai quasi scomparsa. A nord di Pechino i cavalli selvatici sono così numerosi da essere regolarmente presi al laccio. 

Già a ridosso della Riforma, però, proliferano anche le politiche di decimazione di animali considerati nocivi. Nel 1520 Francesco I di Francia istituisce per legge la professione dei grands louvetiers, i cacciatori di lupi. Nel 1779, una fonte francese scrive, sui lupi: “sembra che se ne voglia annientare la specie in Francia, come è stato fatto da più di seicento anni in Inghilterra”. Non sono solo gli Europei a cacciare senza remore. “In Manciuria, dove viaggia on l’enorme seguito dell’Imperatore della Cina – centomila cavalli – padre Verbiest assiste nel 1682 a fantastiche cacce, alle quali partecipa suo malgrado (…) in un sol giorno vengono abbattuti un migliaio di cervi e sessanta tigri”. 

Un altro esempio di defaunazione è contenuto niente meno che nell’Urfaust di Goethe. Per indicare il gufo reale, ai versi 3273 e 3889 Goethe fa ricorso ad un sostantivo onomatopeico (“der Shuhu”), che ricreava il fruscio delle ali di questo predatore quando planava di notte fra i rami degli alberi, nei boschi tedeschi. Oggi il gufo reale è funzionalmente estinto in Germania. E con lui la parola dall’eco magica che lo descriveva.

Il fatto che la diversità filogenetica diminuisca significa che la biosfera entra in una condizione di “omogeneizzazione”. Il Pianeta diventa più omogeneo: meno specie, molto simili tra loro. 

Gli uccelli, ad esempio. Le specie più particolari, quelle endemiche di piccoli habitat, quelle più specializzate, sono a maggior rischio di estinzione rispetto ai generalisti. Il cambiamento climatico stesso è un potente fattore di omogeneizzazione perché spinge il “climate-driver shift”: le specie si spostano per insediarsi in nuovi territori con temperature simili a quelle in cui si sono evolute ed adattate. I generalisti sono meno sensibili alle caratteristiche uniche di una foresta tropicale o di un paesaggio collinare ai piedi dell’Himalaya. “L’impatto delle azioni umane è plausibile sia addirittura peggiore di quanto abbiamo pensato finora, basandoci solo sul conto delle specie”, ha commentato Brodie su SCIENCE. In totale sintonia con il Gruppo di Stanford.

Tra pochi mesi la CBD si riunirà a Montreal in Canada per definire l’accordo globale sulla protezione del Pianeta. Se la defaunazione è il sintomo principale dell’estinzione, perché se ne parla così poco? “Le domande che mi fai sono eccellenti, e vanno al cuore della questione della conservazione. Direi che la defaunazione è il secondo più importante fattore di estinzione, perché il primo rimane la perdita di habitat, che ne è il presupposto. Presto, probabilmente, il cambiamento climatico li surclasserà entrambi. Ma non dobbiamo vedere il cambiamento climatico come un fattore separato, anzi”, mi scrive Brodie. “Interagisce sia con la perdita di habitat che con la defaunazione, peggiorando entrambi. Si fa un gran parlare del cambiamento climatico, ma non c’è una sola grande nazione che si muova nella direzione adeguata a contrastarlo sul serio. È una mentalità da testa sotto la sabbia. Ci si preoccupa di più dei social media che della distruzione di interi ecosistemi e culture, una distruzione che è vicina, sulla linea del tempo”. 

Nonostante tutte le controversie e le polemiche, l’ipotesi del 30% entro il 2030 rimane la migliore opzione sul tavolo. Purtroppo. “Hai ragione quando affermi che il 30×30 non sarà sufficiente a frenare e fermare la perdita di diversità filogenetica. Credo però sia importante. Aiuterà, e forse più di qualunque altra azione attualmente percorribile. A parte, almeno in teoria, un decisionismo più forte sul cambiamento climatico”. 

Una ulteriore riflessione va aggiunta. Polarizzare l’attenzione sulle singole specie distorce il ragionamento, compromettendo la nostra capacità di comprensione. Ogni impatto ambientale è infatti la combinazione di una sinergia di fattori addizionali, ma non lineari o deterministici. Per analizzarli, serve un pensiero votato a cogliere la complessità del reale.

Siamo invece abituati a semplificare. 

Ma un pensiero rarefatto tende sempre ad essere omogeneo. Povero di dialettica e di provocazioni. Monocolore. Incapace di reggere il confronto delle proprie e altrui argomentazioni. In fondo, è proprio questo il pensiero dello status quo (non cambiare nulla per non rischiare nulla) che ancora oggi ci impedisce di prendere coscienza della nostra condizione nel XXI secolo. 

La defaunazione ci dice che, invece, la sesta estinzione è storia di economia e di cultura. Nessuna di queste due dimensioni dell’esperienza umana risponde a logiche unidirezionali. 

La biodiversità è un concetto olistico, insegna Telmo Pievani. Riguarda anche la nostra cultura. Gli hot spot di biodiversità sono anche i luoghi del Pianeta dove maggiore è la diversità culturale. 

Imparare a pensare il nostro secolo significa quindi imparare a pensare la defaunazione del Pianeta, che è un tratto caratteristico della civiltà umana globale. 

(Foto in copertina: Petis Palais, Parigi- il quadro, dipinto a metà Ottocento, rappresenta il grande ottimismo dell’umanità occidentale nel pieno dell’epoca del “progresso”, del Positivismo e dell’industrializzazione. La nostra demografia era percepita come una manifestazione di dinamismo, nonostante le condizioni di vita terribili dei ceti operai, soprattutto nelle grandi città. Questa è la Parigi raccontata da Emile Zola. Oggi, invece, l’iper-demografia umana aggrava i fronti di crisi dell’Antropocene ed è una delle cause della defaunazione del Pianeta)

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