Tag: Grandi felini

Tutte le specie di grandi felini (tigre, leone, leopardo, leopardo delle nevi, leopardo nebuloso, ghepardo, giaguaro, puma) sono in estinzione. La causa principale è la drammatica perdita di habitat.

A dispetto della notevole attenzione mediatica, la tigre non è il grande felino su cui è concentrata l’attenzione dei ricercatori in questo momento. Il destino del leone africano è diventato emblematico del conflitto ecologico sempre più grave e inquietante tra i predatori di vertice e noi umani.

Cancellato dal 75% del suo habitat originario in un secolo, il leone africano sopravvive oggi in forse 25mila esemplari, confinati in “roccaforti” protette: parchi nazionali, riserve e parchi transfrontalieri, come il Kgalagadi Transfrontier Park e il Kavango-Zambesi.

In pochi lo intuiscono. Ma il leone è in estinzione.

Il rischio di un collasso nella diversità genetica della specie è immenso. Sull’altra sponda dell’Atlantico, si lotta per evitare che anche il giaguaro finisca nelle identica spirale di frammentazione dell’habitat e di isolamento delle popolazioni rimaste in cui è scivolato il leone.

Perdere i grandi felini significa perdere l’anima selvaggia del Pianeta.

Amazzonia in fiamme: dispersi 500 giaguari

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(Marsh Deer)

Si aggrava la situazione in Brasile. A causa degli incendi che da oltre un mese imperversano nella foresta tropicale amazzonica, sarebbero almeno 500 i giaguari rimasti senza un habitat in Bolivia e Brasile, riferisce Panthera Cats. Un pericolo di incalcolabile portata per il futuro di popolazioni già frammentate e per una specie che ha già perso il 40% del suo habitat ed è ora anche minacciata dalla ripresa della caccia di frodo. Sui mercati asiatici anche questo gatto, come il leone, comincia ad essere considerato un valido sostituto delle tigre nella medicina tradizionale cinese.

Il 23 agosto le stime erano di 100 giaguari dispersi, ma anche la cifra attuale di 500 esemplari è destinato probabilmente a salire. 

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Spiega Esteban Payan, Panthera South America Regional Director: “Gli incendi sono un grave colpo ad una wildlife estremamente preziosa, alle terre ancora selvagge e alle comunità umane che trovano riparo e sostentamento nelle foreste. I numeri ci dicono che almeno 500 giaguari sono rimasti senza home range o sono anche morti, insieme ad un quantità non definibile di specie più piccole, più diffuse e ancora più vulnerabili. Purtroppo, almeno finché non arriveranno le piogge, la situazione generale è destinata a peggiorare”. 

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(Armadillo gigante)

In Bolivia soprattutto gli incendi hanno divorato una parte consistente di un habitat insostituibile per diverse specie di felini del continente sudamericano. Una ricognizione recente dell’area di Santa Cruz, riferisce Panthera, ha permesso di comparare e sovrapporre le mappe delle porzioni di foresta divorate dal fuoco e quelle degli home range dei felini del cosiddetto “catscape”, un territorio unico di 2 milioni di ettari in cui coesistono 8 specie di gatti: giaguaro, puma, ocelotto, margay, oncilla, jaguarundi, gatto di Geoffrey e gatto delle pampas.

A parte il giaguaro, gli altri sono tutti “small cats”, specie magnifiche di cui tuttavia sappiamo ancora molto poco, tutte già estremamente rare. Ocelotto e margay sono stati decimati dalla caccia per via della loro pelliccia maculata fino al principio degli Ottanta. L’oncilla, il jaguarundi e il Geoffrey sono talmente difficili da avvisare che ne esistono solo un manciata di fotografie rintracciabili su Google. 

Il quartiere generale di Panthera, il San Miguelito Ranch, si trova proprio a ridosso delle aree in fiamme. Le stime dei giaguari dispersi sono basate sull’assessment del Brazilian National Institute for Space Research (INPE, su 4.281 chilometri quadrati di foresta) e sui dati dello Environmental Secretariat of the Governor’s office of Santa Cruz (raccolti su 2.440.000 ettari di foresta). 

L’estate in cui finì l’Olocene

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(Photo Credit: @Museo Egizio, Torino)

È cominciata con una confusione in cielo, sotto le nuvole. È cominciata con la notte che scende giù di botto, in pochi minuti, e cancella il nome della stagione scritta sul calendario. In una sorta di rappresentazione biblica, senza un Dio irato a cui appellarsi con speranzose suppliche, le tenebre soppiantano la luce dell’estate.

E poi tutto il calore abnorme accumulato in giorni e giorni a quaranta gradi si tramuta in grandine, pioggia, e sgomento. Nell’estate che ha segnato la fine dell’Olocene – luglio è stato il mese più caldo mai registrato, come hanno confermato le rilevazioni satellitari europee del Copernicus Climate Change Service  il cielo sopra di noi s’è fatto impudico. È un impostore, perché ci parla dell’autunno, ma siamo invece in una estate che non abbiamo più il diritto di chiamare estate. 

Non è solo ansia climatica, depressione da global warming, o come preferiscono definirla i gruppi scelti di psichiatri di lingua inglese che s’affanno a spiegarci, guarda un po’, come il collasso del Pianeta indurrà sentimenti di scoramento estremi nelle nostre anime esauste.

È il nuovo tipo di tifoni improvvisi che scende come una nemesi sulle città torride con una frequenza sempre più ravvicinata ed imprevedibile. Primo agosto, stazione centrale di Milano, regionale veloce delle ore 8 per Torino Porta Susa. Nella seconda heat wave di questo 2019, il sapore della desolazione è una noia impotente. Ovunque si respira l’aria viziata della disfatta climatica. 

Il fatto è che questa è l’estate del climate apartheid. Qui a Milano, mentre l’amministrazione comunale di Beppe Sala acclamava l’assegnazione delle Olimpiadi Invernali senza neve del 2026, la differenza razziale tra chi vive con un condizionatore e chi non vede l’ora di salire sulla metropolitana per stare almeno venti minuti al fresco la prima decade di luglio l’aveva già rivelata agli occhi indiscreti dei poveri.

Quando il buio di un tifone tropicale a 415 ppm di CO2 si abbatte sulla città, il sottosuolo dei precari, dei sottopagati, degli scarti di vario genere e grado che prendono i mezzi pubblici, e la sera tornano nei loro appartamenti in affitto, non ha solo paura. Avverte gli insani scricchiolii della solitudine climatica totale. Perché non abbiamo tutti gli stessi diritti, nel post Olocene.

Nel pieno di un tifone, dai finestrini del bus ATM,  le ville di Viale Lombardia, chiuse per ferie, annegate nei loro giardini privati, raccontano la storia meneghina di Milano a cui il sottosuolo non potrà mai accedere. La gente che sta sull’autobus ci va a fare le pulizie, in quelle dimore. Il clima, è solo soldi.

Quelli che ti servirebbero per comprare un condizionatore, e succhiare energia, e aggravare il riscaldamento del globo, ma tu hai una vita di sette-otto decadi da consumare su questo Pianeta, mica una eternità per sentirti in colpa o inventare soluzioni alle sofferenze collettive. La gente che sta sull’autobus non ci va in vacanza. E allora sotto con gli effetti collaterali del tifone, che costringe i coloured del regime di apartheid energetico a diventare testimoni della catastrofe.

Soldati richiamati alle armi. Soldati che non possono disertare, come fanno i ricchi, e che devono invece scivolare nelle retrovie della sconfitta sociale. Non lo avevamo ancora capito, ma è il cielo sopra di noi, da cui proviene il tifone, a sapere bene che cosa fare delle nostre vite. 

Questi programmi scritti da altri, e però ormai impliciti nelle esistenze degli uomini, e peggio va per i peggio messi quanto a risorse economiche, sono lo schema di massima della fine dei tempi. L’epoca attuale esaurisce se stessa nelle proprie rovine; poco assomiglia al tramonto dell’occidente di Oswald Spengler, Ludwig Klages e Max Scheler, se non altro perché nessuno si aspetta più un nuovo avvento o una rinascita dello spirito.

Siamo nel punto preciso individuato da Cioran al principio degli anni ’50 del secolo scorso: “Per amore o per forza, subiremo l’esperienza di una eclisse storica, l’imperativo della confusione”. Gli ambientalisti stanno ovviamente dalla parte del per forza, pur tentando di non cedere alla forza delle cose già in atto, e di sottrarre alla forza un po’ del suo impeto a effetto domino. 

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(Photo Credit: Extinction Rebellion Twitter, Summer Uprising July 2019, Wales)

La nostra auto-rappresentazione del presente oscilla tra un ripiegamento totale ed egoistico sull’impresa personale, meschina od eroica che sia, e un titanismo della sconfitta, che può mirare solo ad una mutilata sopravvivenza. Con habitat ridotti a frammenti di un Pianeta che non esiste più, e specie condannate a smarrire nell’impronta ecologica umana il loro potenziale evolutivo.

In fondo, è questo panorama artificiale, e cioè artefatto, che Extinction Rebellion consegna ai cuori puri e rivoltosi dell’Europa. Facciamo esperienza della fine di un sogno durato cinque secoli, diciamo addio al miracolo consegnato all’umanità dall’atto assoluto di Magellano, salutiamo la fatica immane, per seguire Peter Sloderdijk, con cui in millenni di storia abbiamo tentato di emanciparci dalla rassegnazione, dalla miseria e dalla morte, trovando nella economia globale del Pianeta il carburante che ci occorreva per smettere di sottomettersi a tutto in nome della imitato Christi.

Adesso torniamo a subire, subiamo come bestie da soma, a milioni, il caldo invincibile e vendicativo dei 40 gradi Celsius: “le questioni onto-storiche decisive sono perciò: che cosa è propriamente ciò che viene verso di noi? – scrive Sloterdijk parafrasando gli anni Venti del secolo scorso – Che cosa avrà abbastanza forza da trascinarci con sé per una nuova convinzione?”. Nessuna ONG ha una risposta a questa domanda. 

Siamo in una guerra, una guerra nuova, è vero, ma pur sempre un conflitto. E forse è per questo che l’ode alla guerra del monumento ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, in Piazza Castello, a Torino, è così brutale agli occhi di un moderno. Il fondamentale spirito guerriero che ha forgiato le nostre comodità, l’adorabile sensazione di conforto che proviamo verso le conquiste energetiche della vita quotidiana, come il condizionatore e l’acqua calda della doccia, ci imbarazza. Noi siamo per i diritti civili e umani.

Eppure, ecco che la tendenza aborrita a far la guerra per far pagare a qualcun altro la fame fondamentale dell’Occidente (la bio-economia europea, come la definisce lo Stockholm Resilience Centre di Stoccolma) torna a spuntare nei centri storici delle nostre città heritage, cioè in quei centri urbani che meglio raccontano lo spirito artistico e mitopoietico del nostro carattere.

Le figure giganti di questo monumento hanno qualcosa di mostruoso e di dissonante, che ricorda, senza averlo mai voluto, la rassegnazione del tempo andato. Questa piazza si espone ai passanti e ai cittadini come un fantasma spogliato della vita trascorsa. I tanto decantati beni heritage si stanno trasformando in demoni muti, nonostante le campagne di marketizzazione del patrimonio. Non è rimasto quasi nessuno a conoscere la loro lingua, anche se tutti subiscono le conseguenze della loro ambizione. 

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Sono anche loro antenati di cui non importa più niente a nessuno. E così, scivolando dentro via Accademia delle Scienze, direzione Museo Egizio, mi viene in mente Toni Morrison: “La storia al confronto con la memoria, e la memoria a confronto con l’amnesia. Ricordare significa rimettere insieme, in collezione, i ricordi, ma anche restituire una forma alle parti di un corpo, di una famiglia e di un popolo che appartengono al passato. Ed era questa la immane e vischiosa fatica tra dimenticare e ricordare”. La morte del passato – condannare all’oblio la filogenesi delle specie che popolano il Pianeta – è un atteggiamento psicologico sostanziale della nostra epoca. E informa di sé pure la disinvoltura con cui abbiamo ridotto monumenti, opere d’arte e reperti a gadget di intrattenimento.

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Non c’è dunque da stupirsi se l’English Bookshop Rosa Luxemburg, e le sue vetrine zeppe di romanzi meravigliosi e di saggi illuminanti, qui nel cuore di Torino, abbia il fascino di una apparizione numinosa. Il posto di ritrovo perfetto per i sopravvissuti che godono ancora del privilegio di saper leggere, quel genere di persone che per moltissimo tempo si sono battuti, si sono aspettati un risveglio, una rottura con lo schema, un qualche tipo di risposta civile al disastro ecologico incombente, e che poi non hanno potuto che dichiararsi sconfitti.

Già, ma sconfitti da cosa? Se gli uomini sono questo (edonisti forsennati privi ormai di un orizzonte ontologico realistico), possiamo essere sconfitti dal nostro stesso DNA? C’è ormai da chiedersi se possa essere sufficiente il principio guida delle nascenti scienze paleo-antropologiche del ‘700, che Stephen J. Gould usava ricordare contro ogni fanatismo metafisico: “Noi viviamo in una tensione essenziale e irresolubile fra la nostra unità con la natura e la nostra pericolosa unicità (…) Non possiamo fare niente di meglio che seguire il consiglio di Linneo, incarnato nella sua descrizione di Homo sapiens all’interno del suo sistema. Egli descrisse altre specie fondandosi sul numero delle dita, sulla mole corporea e sul colore. Per noi, in luogo dell’anatomia, scrisse semplicemente il precetto socratico: nosce te ipsum (conosci te stesso)”. 

Concedendo spazio ad un filo d’ironia, è il Libro dei Morti a dare il benvenuto ai visitatori dell’Egizio. Pur essendo una atea convinta, ho sempre percepito un inquietante disagio dinanzi alle manifestazioni scritte di una religiosità votata a tenere vigile il legame tra morti e vivi. Almeno in teoria, chiunque potrebbe leggere questo testo e ripetere il rito antico, spalancando la porta al tribunale di Anubi.

La maledizione della scrittura, come nel film La Mummia, analoga però pure alle perplessità di Platone su uno stratagemma grafico dalle imprevedibili conseguenze sulle capacità mnemoniche degli eruditi, dubbi esternati dall’Ateniese nelle pagine del Fedro sull’Egitto e il mito di Theut. Rischi sconosciuti ai Papi che nel XV secolo cominciarono a concepire le collezioni, per meglio studiare e scrutare le cose del mondo.

Presto eruditi ed aristocratici seguirono il loro esempio, costruendo da subito quella intimità pericolosa tra carabattole di un qualche pregio artistico e animali essiccati che in qualche secolo divenne una sconcertante impudicizia classificatoria: “Furono dei marinai portoghesi a portare in Europa, verso la fine del quindicesimo secolo, i primi feiticos, oggetti africani che si supponeva possedessero poteri misteriosi. Li troviamo soprattutto nelle camere delle meraviglie, assieme alle asce tomahawk o alle frecce indiane, a manufatti egiziani e a tamburi del Siam”, sintetizza Valentin Y. Mudimbe. 

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Ed ecco che collezionare anticaglie, oggetti preziosi e naturalistici divenne così importante per la incipiente modernità che Diderot, nell’Enciclopedia, ammise che i musei completano l’opera dell’uomo. Andò in modo simile anche a Torino, tant’è che dalla metà del ‘600 divenne motivo di vanto regale disporre di manufatti artistici concepiti altrove. Nel 1824 vennero esposte le prime antichità della Collezione Drovetti, ma, fatto ancora più significativo, accanto ai reperti egizi si dispose una sezione di storia naturale.

È così, dai suoi albori, che l’Egizio siglò il vincolo estetico e storico fondamentale del pensiero moderno e scientifico, che dura ancora oggi. Le collezioni artistiche, del pari di quelle naturalistiche, raccontano il Mondo perché lo traducono in oggetto. Isolando il reperto diviene possibile costruire narrazioni storiche, che non hanno solo obiettivi ricostruttivi, e quindi archeologici o tassonomici, ma sono soprattutto funzionali ad appropriarsi del Pianeta e delle sue epoche geologiche secondo paradigmi epistemologici del tutto inediti.

Nel XXI secolo il museo, qualunque museo, è uno dei simboli viventi più possenti e dinamici dell’estinzione. Assonanze prodigiose si intrecciano sulla mappa dell’Europa, quando ci si azzardi a ragionare sulla somiglianza originaria tra collezione artistica e collezione naturalistica.

Il 1 settembre del 1948, il Consiglio Parlamentare incaricato di redigere la Costituzione della Germania Federale si riunì nel Museum Alexander Koenig di Bonn, che era un museo di scienze naturali, ma fu requisito e trasformato in ospedale militare già nel 1914. Nell’atrio stava una giraffa imbalsamata, coperta con drappi, in quel fatidico 1948, per la solennità dell’occasione che, solo apparentemente, non c’entrava nulla con la guerra civile europea e il dominio sul mondo naturale. 

Ma la frizione crescente, o, all’opposto, l’incontro poroso con le faune è un filo rosso, ancorché visibile, che i musei custodiscono in vista della nostra eternità. All’Egizio di Torino, ben introdotti dai vasi canopi del salone di ingresso, al primo piano, subito dopo la biglietteria, sono i felini a recitare per noi il ruolo che ebbero specie estinte nella porzione di Africa del Nord dipinta di geroglifici e bagnata dal Nilo.

Le loro impronte, il profilo squadrato e astuto dei loro musi, sono tracce, avvolte nel silenzio, di una geografica che non esiste più. Questa pista sabbiosa, africana, raggiunge la sua destinazione finale dinanzi al letto di Kha, un letto in legno massello appartenente al tesoro di Kha, facoltoso architetto della 18° Dinastia ( 1425-1353 a.C. circa) che si fece seppellire con una maschera funebre in oro simile a quella di Tutankhamon.

Ma Kha scelse di essere inumato anche con il suo letto, che ha le zampe di leone. Una Panthera leo persica, cioè la sottospecie di leone africana oggi estinta nella porzione nord orientale dell’Africa, nel Medio Oriente e in Grecia. Ridotta a 400-500 individui confinati nella foresta del Gir in India. Il vento dell’estinzione non aveva ancora cominciato a soffiare sulle popolazioni di leoni nel tempo della vita mortale di Kha.

I leoni non popolavano solo il suo pantheon religioso, colonizzavano anche il suo tempo, il suo landscape, le sue giornate. Seguendo fin qui le orme di leone asiatico sulla pista sabbiosa si prova la desolante sensazione che Kha avesse conosciuto una specie di grande gatto vicina al punto di origine.

L’epoca preistorica della nostra parabola umana, in altre parole, in cui convivevamo con le faune selvatiche, che erano soggetti della nostra esistenza, una epoca che anche per noi è ormai solo una memoria archetipica. Ipnotizzati e ammaliati dal potere dei numeri e delle analisi genetiche, ci siamo dimenticati che nei reperti archeologici e nelle opere d’arte dei musei stanno – dannatamente visibili – indizi concreti, icone, fissate sul mappamondo della storia, delle faune che abbiamo spazzato via dalla faccia della Terra.

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(Photo Credit: Panthera Press Office)

In questa estate di addii e di abbandoni, l’estate in cui abbiamo salutato per sempre il clima dell’Olocene, anche i gatti hanno il loro tardivo momento di agnizione e gloria. Il 7 giugno la Saudi Arabia’s Royal Commission for AlUla (RCU) e Panthera, il più importante network al mondo per la protezione dei big cats, hanno firmato un accordo che non ha precedenti per riportare indietro dall’abisso dell’estinzione ormai imminente il leopardo arabico (Panthera pardus nimr), una sottospecie di Panthera pardus che solo pochi decenni fa abitava l’intera penisola arabica.

Venti milioni di dollari, una cifra che da sola è una follia, verranno investiti nei prossimi dieci anni in un programma di allevamento in cattività (nella captive breeding facility di Taif, Saudi Arabia) e di reinserimento allo stato selvaggio nella Saharaan Nature Reserve, 925 chilometri quadrati di habitat “restored” e cioè recuperato dalla desertificazione tagliando fuori le greggi di ovini e reinserendo le prede naturali del leopardo.

I discendenti di questa popolazione, se mai ce ne saranno, se mai avranno imparato, dopo essere nati in gabbia, a cacciare, costituiranno il bacino genetico della specie rediviva human-design. Ma gli dei possono tornare indietro? Possono accettare di tornare, dopo che li abbiamo scacciati consapevolmente? O non hanno invece altra opzione che raggiungere gli antenati, i nostri e i loro, nei cimiteri del tempo profondo?

Perché nel Pianeta reale, nelle radiose mattine africane, gli dei – leopardi e leoni – giungono senza preavviso, volendolo, tradendo ogni aspettativa e ogni programma scientifico. Nei musei, dove le loro effigie ammoniscono il visitatore che ogni specie persa è andata per sempre, gli dei non possono più presentarsi al nostro sguardo nell’aura del sorgere del sole. Sono diventati ricordo, frammento, libro, cultura. Non possiamo più parlare con loro. 

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(T-shirt fotografata sulla Metropolitana Lilla di Milano)

Mentre cominceremo presto a parlare, volenti o nolenti, con i giovani di origine africana che aspettano il tramonto seduti a bere birra sull’erba dei Giardini Sambuy, di fronte alla stazione di Porta Nuova. I pensionati, prosciugati dall’afa, sono usciti per una passeggiata e sembrano inebetiti da qualcosa che non riescono a comprendere, ma di cui hanno paura.

Sui loro volti pallidi si legge una preoccupazione sorda a qualunque politica del cambiamento, la fragilità venuta fuori dalla consunzione ecologica delle risorse naturali che una manciata di decenni fa essi davano per scontate, come le pesche bianche sulle bancarelle dei mercati rionali di Torino, che ora sono quasi introvabili. 

Quando ancora esistevano le stagioni, non era possibile mangiare il tempo. Subivamo il vincolo del freddo e del caldo, scrutando il consesso degli astri notturni, come usava fare, in una epoca non troppo distante dagli anni mortali di Kha, la scolta dell’Agamennone di Eschilo. Nell’estate dei tifoni tropicali sotto un cielo autunnale, il cielo ci osserva impietrito.

E intanto, il 2 agosto, il Pasta a Gogò di viale Abruzzi, Milano, ormai a due passi da Piazzale Loreto, offre ai suoi avventori, in un non più di due metri quadrati, dei quali uno sul marciapiede nella nube di particolati del traffico cittadino, il conforto fugace di una vaschetta di pasta made in Italy ridicolmente minuscola e americanizzata.

Bisogna imparare a divorare qualunque cosa, per essere socialmente dotati di urbano buon senso, in questa disintegrazione dell’equilibrio atmosferico. Altrimenti, sei un estremista, un romantico, un poeta, un giornalista ambientale, tutti rompicoglioni per cui, vivaddio, la legislazione del climate apartheid ha già designato una collocazione giuridica adeguata insieme a extracomunitari, migranti, poveri, locatori e disoccupati. 

Piazzare ovunque rivenditori di cibo a buon prezzo, stipare le strade di occasioni per divorare le ore così come si metabolizza una forchettata di carbonara. Fino ad un certo punto, ci ha creduto fino in fondo, a questa dieta, anche Alex Peroni di RadioNumerOne, che, con una ironia non troppo simpatica, per mesi ha elogiato l’estate perenne dei trenta gradi ad ottobre.

RadioNumerOne non ha mai fatto trasmissioni sul clima, anzi, grazie a Peroni, l’appuntamento quotidiano con le previsioni meteo delle 17.30, al timone della nave di Paolino Corazzon, è diventato un circo intitolato “domenica vogliamo il sole a qualunque costo, anche se non piove da tre mesi”.

Eppure, la squadra della emittente di Bergamo ha cambiato direzione, alzando il naso, forse, al tipo di cielo che in questo 2 agosto si annuvola su Piazzale Loreto e assomiglia al grumo di vapore acqueo incattivito dei tifoni del sud est asiatico.  Adesso Peroni, alle 17.30, prega, tra il faceto e l’ironico, che non ci attendano altri giorni caldi alla Bangkok.

La squadra di Peroni è probabile non lo sappia, ma ha inaugurato la stagione del cambiamento climatico definitivo, del limite meteorologico alla battuta, allo scherzo, alla sdrammatizzazione continua. Quel tempo, insomma, in cui a metà pomeriggio, come in un giallo horror-climatico alla Fred Vargas, c’è da aspettarsi il calare delle tenebre e si teme per la propria vita, e si agogna al ritorno a casa, dalla propria famiglia, o dal proprio gatto, che è poi la stessa cosa, non per vedere Netflix, ma per sentirsi al sicuro dal cielo sopra di noi. Il tempo del coprifuoco da grandine e diluvio, non del fine settimana e del ristorante su Grupon. Il tempo della paura e della colpa. 

Ma intanto, sono su un autobus che ci fa scendere al capolinea proprio nel preciso secondo in cui le 415 ppm di CO2 danno mostra di cosa siamo stati in grado di imporre al nostro Pianeta. Insieme a un gruppo di donne filippine come me vestite alla maniera della estate antica (t-shirt, per intenderci) sprofondo in un crollo termico di 10 Celsius.

Raffiche spietate di vento e pioggia tagliente si abbattono sulla pensilina sotto cui cerchiamo di sfuggire all’aggressione del tifone. È l’urlo del Pianeta. Un grido senza più appelli, corti di giustizia, tribunale speciale per i diritti umani dell’Aja, panel IPCC, balle buoniste dei Verdi e di Legambiente e via discorrendo.

C’è solo questa eruzione di energia termica, convertita in potenza sonora, ritrasformata in diluvio sull’asfalto caldo, e poi evaporata in una malinconia infinita che, nonostante tutto, raggiunge le parole profetiche di Felwine Sarr lette di ritorno da Torino: “Comincia un giorno nuovo, come sempre, sulla vita e il cammino della società. Una luce incerta cresce e illumina progressivamente i sentieri di chi cammina all’alba.

Nelle ore diurne brillerà di molti fuochi sulle loro opere e sui loro fallimenti. Questo tempo di chiaroscuro è di innovazione, chi si impegna ha solo bisogno di un piccolo barlume di luce per intraprendere il viaggio, sono uomini di mezzo, intermediari.

Conoscono la marcia necessaria, scolpiscono pietre per la stabilità degli edifici che verranno, e di cui non vedranno il compimento. Sanno di dover essere, adesso, all’altezza dei bisogni necessari all’avvento di un mondo che cercano di far accadere”.

Il Belize proteggerà il Maya Forest Corridor

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(Credits: Jayro Bardales)

Il governo del Belize proteggerà il Maya Corridor. Si tratta du un lembo di foresta tropicale cruciale per la sopravvivenza di specie iconiche della regione, come il giaguaro (Panthera Onca), la tartaruga di fiume (Dermatemys marwii), già sull’orlo dell’estinzione, e la scimmia-ragno (un primate della famiglia degli Ateli ormai criticamente minacciata) e il tapiro di Baird.

Tutte queste specie hanno bisogno di spostarsi su distese enormi, in poche parole su aree protette che abbiano l’ambizione di raggiungere una scala continentale. La decisione del Belize è stata quindi salutata con particolare soddisfazione dalle organizzazioni maggiormente impegnate nello studio e nel monitoraggio di questo hotspot di biodiversità tropicale: Panthera (per il giaguaro), Global Wildflife Conservation, WCS (World Conservation Society, che sta già facendo un lavoro immane in Africa con il Lion Recovery Fund per tirare su i numeri del leone in due-tre decenni), WWF, Monkey Bay Wildlife Sanctuary and Field School, e la University of Belize. 

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La caratteristica fondamentale del Maya Forest Corridor è la sua posizione geografica. Il Maya è nel centro del Brasile, che lo rende  un punto di passaggio e di connessione tra due altre aree di enorme valore ecologico: la Selva Maya, a nord, e le Maya Mountains, a sud.

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(le piantagioni di canna da zucchero. Credits: Tony Rath)

“Senza protezione, il Maya Corridor è in una condizione critica di rischio, perché è già stato ampiamente ridotto di almeno il 65% negli ultimi dieci anni, soprattutto a causa della deforestazione per l’agricoltura estensiva, inclusa la canna da zucchero”, si legge in una nota ufficiale di Panthera.

“Dal 2011, il Maya Corridor ha dovuto fronteggiare un tasso di deforestazione di almeno 4 volte superiore alla media nazionale e grossi disboscamenti negli ultimi mesi indicano che, senza una azione diretta come quella annunciata questa settimana, il più esteso blocco di foresta tropicale del Centro America rimarrà tagliato fuori dalla unità geografica più importante sul lato meridionale, e cioè il massiccio delle Maya Mountains”. 

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Secondo Panthera,  “Il corridoio è lungo solo 5-6 miglia, eppure è uno degli ultimi pertugi rimasti ai giaguari per entrare in Selva Maya a nord, e spostarsi verso il Centro e il Sud America”. E per quanto riguarda il giaguaro, una specie che ha uno home range immenso, che copre tutta l’America del Sud e arriva fino al Texas, negli Stati Uniti, questo è il punto essenziale.

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(Credits: Panthera)

La connettività dei suoi habitat è il tassello strategico decisivo per portare la specie nel XXII secolo: “Il Maya Corridor è l’unica area che mette in comunicazione le due Jaguar Conservation Unit del Belize: il massiccio delle Maya Mountains e la Selva Maya a a nord, che si estende sin dentro il Messico e il Guatemala. Perdere la connettività genetica del Corridoio segnerebbe un passo in avanti verso l’estinzione del giaguaro e di molte altre specie terrestri di significato culturale del Belize”. 

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(Il corridoio Maya e le piantagioni di canna da zucchero, Credits: Tony Rath)

Una nitida consapevolezza della posta in gioco sembra pervadere le istituzioni governative del Paese.

“Riconosciamo che la finestra di opportunità per assicurare la connettività nel Maya Forest Corridor si sta rapidamente chiudendo – ha detto il dottor Omar Figueroa, Ministro del Governo del Belize responsabile per l’Agricoltura, la Pesca, le Foreste, l’Ambiente e lo Sviluppo Sostenibile – Una squadra locale e internazionale di biologi esperti di conservazione, e di professionisti, si rende conto dell’importanza di tutto questo e collabora l’uno accanto all’altro per fornire un supporto valido alla protezione dell’integrità geografica di questa regione”.

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(il tapiro di Baird. Credits: Nick Hawkins)

Nella costruzione di un sistema di aree protette ogni lembo di habitat conta. La Runaway Creek Nature Reserve si trova all’interno del corridoio e partecipa a questa visione condivisa. Gil Boese, fondatore della riserva per The Foundation for Wildlife Conservation, ha riassunto perfettamente i termini della questione: “un mondo con corridoi che connettono le aree protette dando agli animali l’opzione di spostarsi e di prosperare è fondamentale per la sopravvivenza delle specie.

Tutti questi piccoli puntini sulla mappa, se ne puoi salvarne uno, be’ è fantastico. Ma se riesci a salvare abbastanza di questi frammenti unici, in modo da legarli insieme, allora avrai creato un sistema. E se altri, in altri Paesi e continenti, faranno lo stesso, avremo allora un network per la sopravvivenza delle specie rimaste su questo Pianeta”. 

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(Un giaguaro in una piantagione di canna da zucchero. Credits: Panthera)

In Mongolia leopardi delle nevi e pastori convivono

Parco nazionale Siilkhem, in Mongolia (Monti Altai): habitat del leopardo delle nevi
(lo straordinario habitat del leopardo delle nevi nel parco nazionale Siilkhem, in Mongolia)

In Mongolia leopardi delle nevi e pastori convivono. Per capire il futuro del leopardo delle nevi (Panthera uncia) è indispensabile studiare le interazioni tra questo imperscrutabile predatore, le mandrie di pecore e capre che sempre più affollano i suoi habitat remoti e gelidi, e l’ibex (stambecco siberiano), la sua preda naturale.

Questo il compito di un lavoro di raccolta dati iniziato a marzo e concluso a giugno del 2015 dal gruppo di ricercatori del MUSE di Trento, guidati da Francesco Rovero e Simone Tenan, nel parco nazionale Siilkhem, in Mongolia, sui Monti Altai. I risultati dello studio, reso possibile da 49 fototrappole disposte su una area di 513 chilometri quadrati, sono stati pubblicati su ORYX, la prestigiosa rivista scientifica edita dalla Università di Cambridge.

Lo scopo della spedizione nel Siilkhem – a quasi 4000 metri di altitudine – era di meglio definire il livello di compatibilità tra il pastoralismo all’interno dell’habitat del leopardo delle nevi e le esigenze di conservazione.

La presenza di numeri consistenti di animali da allevamento (mandrie e greggi) in un ecosistema ancora integro ha effetti ecologici importanti: riduzione delle prede disponibili e uccisioni dei predatori da parte dei pastori, che perdono capi di bestiame.

Il sovraffollamento, infatti, peggiora il conflitto tra gli esseri umani e i predatori, soprattutto quelli di vertice, come i grossi felini. Produce quella che viene definita una “esclusione competitiva”, che finisce con il danneggiare gli erbivori selvatici e dirottare i carnivori sugli animali da allevamento.

Nell’Asia centrale, sotto la spinta di una “corsa al cashmere” a basso costo sui mercati occidentali, spiegano dal MUSE, è in corso da qualche anno un incremento esponenziale delle capre, fin dentro le aree protette di Mongolia e Cina: nel 1970 c’erano 21.937 capre, che nel 2015 erano diventate 105.376.

Impronte di leopardo nelle nevi in Mongolia
(impronta di leopardo delle nevi)

Le fototrappole del MUSE hanno registrato 494 intercettazioni di animali selvatici, e ben 912 di ungulati domestici, cani ed esseri umani (168 capre, 163 vacche e yak, 105 persone), 33 passaggi di ibex e 14 del leopardo delle nevi. La lettura di questi dati, per quanto limitati, non è del tutto negativa.

Le greggi hanno sicuramente un indice di presenza (occupancy) più alto dell’ibex (0,65), che è meno frequente quando deve fare i conti con animali allevati (0,11) rispetto a condizioni più selvagge (0,34-0,35).

Eppure, le interviste condotte con i pastori delle montagne dal team di Francesco Rovero descrivono una rapporto di convivenza culturale con il leopardo piuttosto variegato. I pastori tendono a riferire l’uccisione delle loro bestie, che avviene regolarmente, ai lupi e non ai leopardi.

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(il parco nazionale Siilkhem in Mongolia)

Nelle loro izbe i pastori tengono pellicce di lupo, ma non di leopardo, e non ci sono tracce di bracconieri. Se dunque è vero che sugli Altai l’allevamento è diventato un fattore di disturbo ambientale cospicuo (pecore e greggi nel 43% dei siti di osservazione) non esistono per ora correlazioni solide su un declino del leopardo e le attività economiche umane.

È presto per definire gli Altai un paradiso per questo felino unico al mondo, ma lo studio del MUSE conferma che il punto di frizione tra i bisogni dei gruppi umani e i grandi predatori è ormai transnazionale. Sono le nostre abitudini, anche di acquisto, a decidere la qualità ecologica e l’estensione degli spazi selvaggi.

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(la spedizione del MUSE di Trento in Mongolia)

Il programma di ricerca del MUSE in Mongolia è condotto in collaborazione con la Ong Green Initiative (Mongolia), il Museo Danese di Storia Naturale di Copenhagen e l’Università di Losanna. Una terza fase di ricerca è programmata per il 2018/2019.

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(pastori e gente locale che ha collaborato con il MUSE per la ricerca sul leopardo delle nevi)

(Photo Credits: MUSE Trento)

Quasi estinti i leopardi della Cambogia

Quasi estinti i leopardi della Cambogia. Questa la condizione dell’ultima popolazione delle Eastern Plains ancora in grado di riprodursi, secondo una recente ricerca di Panthera Cats e WildCru Oxford. Negli ultimi 5 anni il loro numero è crollato del 72%.

Stiamo parlando degli ultimi 20-30 leopardi (Panthera pardus delacouri) dell’intera Indocina orientale e cioè dell Cambogia, del Laos e del Vietnam. La loro densità è la più bassa mai registrata in Asia per i leopardi: 1 individuo ogni 100 Km.

Il 95% dello home range originario della specie è ormai perso. La notizia, di impatto catastrofico per la tenuta di questi ecosistemi a foresta tropicale, non giunge purtroppo inaspettata. Già si sapeva della estrema frammentazione degli habitat e della scomparsa progressiva di grossi erbivori che sono la preda naturale del leopardo. I cacciatori di frodo riforniscono infatti i mercati rurali di carne selvatica (bushmeat) contribuendo ad una crisi ecologica in progressione, la defaunazione della Cambogia.

I leopardo della Cambogia è una sottospecie di leopardo e la sua scomparsa segna una semplificazione nella famiglia dei felidi irrecuperabile dal punto di vista evolutivo.

I dati sono usciti sul giornale ufficiale del gruppo WildCru di Oxford (University’s Wildlife Conservation Research Unit, lo stesso che aveva monitorato Cecil the Lion in Zimbabwe ), il Royal Society Open Science journal. Hanno collaborato WWF-Cambodia, l’American Museum of Natural History, e il Forestry Administration of the Ministry of Agriculture Forestry and Fisheries of Cambodia.

Jan Kamler è il coordinatore del Panthera Southeast Asia Leopard Program: “questa popolazione rappresenta l’ultimo barlume di speranza per i leopardi di tutto il Laos, la Cambogia e il Vietnam – una sottospecie sul punto di scomparire.

Questo conferma quanto sta emergendo dagli studi più aggiornati sui grandi felini che un tempo coesistevano in tutti i loro habitat, e cioè che i predatori di vertice compongono reti trofiche complesse e interdipendenti.

La fine della tigre in Asia orienta poi i bracconieri sui leopardi nebulosi e i leopardi, senza contare le ossa di giaguari importate illegalmente, e soprattutto quelle dei leoni africani. I bracconieri mettono trappole dappertutto per catturare maiali selvatici e cervi da destinare alle macellerie di bushmeat e puntano ai felini per rivendere a prezzi altissimi denti e pelli.

Da molto tempo ormai il sud est asiatico è diventato un laboratorio per il cocktail di defaunazione, demografia umana e cambiamenti climatici che segneranno il futuro della regione già in questo secolo.

Come comunità internazionale non possiamo più permetterci di trascurare la protezione di un felino assolutamente unico. Dobbiamo unire le forze per agire e non soltanto a parole. Con l’obiettivo di stroncare la diffusione epidemica del bracconaggio che minaccia questo animale meraviglioso”.

Nuove speranze per il leopardo in Nigeria

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Nuove speranze per il leopardo in Nigeria. Si densava che il leopardo fosse stato ormai estirpato dalla Yankari Game Reserve, un habitat a savana e alberi nella parte nord occidentale della Nigeria. L’area protetta più importante del Paese. Recentemente, però, la fototrappole hanno catturato immagini del felino, restituendo speranza per questa specie nella nazione più densamente popolata dell’Africa centro-occidentale.

Andrew Dunn lavora per la WCS NIGERIA e commenta la notizia al telefono con un cauto ottimismo: “eravamo semplicemente convinti che qui il leopardo fosse ormai estinto, e che però non lo fosse in tutto il paese. A Yankari l’ultimo avvistamento era stato nel 1986. E’ una buona notizia per il leopardo, eppure non siamo sorpresi. E’ una specie molto adattabile, notturna. Io credo che in tutti questi anni ci sia stato sempre a Yankari.

La caccia al leopardo è in declino da qualche tempo in questa regione, ma è stata consistente per parecchio. La pelle del leopardo è ancora molto ricercata più a sud per le cerimonie rituali. Qui, come. in molti altri Paesi africani, il tragico declino dei felini è dovuto alla catastrofica perdita di habitat adatto alla loro ecologia”.

Nel 2016 il censimento globale del leopardo pubblicato dalla rivista PEERJ ha rivelato che questo big cat (considerando tutte le sottospecie) occupa ormai soltanto il 25-35% del suo storico home range, calcolato a partire dal 1750. Soltanto 3 sottospecie (e tra queste il leopardo di Yankari) valgono per il 97% di ciò che resta di uno home range continentale.

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Andrew Dunn: “in Nigeria la popolazione umana sta esplodendo e non c’è quindi molta wildlife al di fuori delle aree protette. La caccia per la carne selvatica (bushmeat) e il conseguente impoverimento del numero di prede disponibili è una questione pesantissima come nella maggior parte dei Paesi dell’Africa centrale. E tuttavia, cosa ancora più decisiva, Yankari è una riserva isolata. E’ soltanto una grande isola verde. Fattorie e campi di mais attorno, sino ai margini del parco. Non so quanti leopardi ci siano adesso, ma se ben protetta questa isola potrebbe migliorare. Yankari è infatti abbastanza essa per supportare nei prossimi decenni una popolazione vitale di leopardi”. E qui ci sono ancora forse 25 leoni. Iene maculate, iene striate e caracal.

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“La conservazione non è facile in Nigeria. La popolazione umana è tanta e i parchi nazionali ricevono pochi fondi. La Nigeria ha inoltre una reputazione di nazione ricca e quindi non ha gli aiuti economici che finiscono sulla protezione della natura che finiscono, ad esempio, al Cameron. E’ una battaglia, non c’è che dire, ed è per questo che abbiamo piccole storie di grandi successi”.

Eppure, il ritorno del leopardo potrebbe cambiare il modo in cui le persone comuni guardano alla wildlife. Le classi medie hanno più opportunità di guadare i documentari e il National Geographic Channel è ancora una opzione per molte persone. Per la prima volta il leopardo di Yankari ha fatto la sua comparsa anche sui social media.

In un prossimo futuro, la questione sulla sopravvivenza degli ecosistemi ancora selvaggi, non solo per Yankari, sarà il numero delle mandrie di animali da allevamento. Secondo Dunn, le recinzioni (fence) potrebbero una soluzione ragionevole per proteggere la wildlife e tenere le vacche fuori dalla riserva. Per la Nigeria, come per il resto dell’Africa e del mondo, la visione Half Earth è ancora troppo ambiziosa.

(photos: thanks to Andrew Dunn)