Hostiles è un film sull’Antropocene

Hostiles è un film sull’Antropocene. Il film del 2017 di Scott Cooper ( con un eccezionale Chistian Bale) racconta l’abisso spirituale dell’Età dell’Uomo e centra il bersaglio del nostro presente, perché mette in scena l’ambivalenza morale di una intera civiltà. Questo è, in definitiva, un buon film per cominciare a capire che cosa è l’Antropocene. Non si tratta infatti di un dibattito storiografico o di una disputa geologica. Ma, almeno in parte, di un “censimento morale” della civiltà moderna.

Non soltanto su suolo americano nel 1898, l’anno in cui si svolge la vicenda, successiva alla Guerra Civile (1861-1865) e al conseguente genocidio delle Grandi Pianure (1865-1890). Questa ambivalenza morale Cooper la smaschera negli uomini di discendenza europea, che, portando il loro sangue europeo e la loro vocazione europea con sé oltre Atlantico, proprio perché Europei, sterminarono i Nativi.

Il prisma narrativo di Cooper gli consente, sin dall’inizio, di far vibrare la sua storia della eco della nostra storia, del colonialismo, del capitalismo predatorio nei confronti del Pianeta, della concezione della schiavitù come risorsa economica occidentale. Ecce, Homo sapiens.

New Mexico, 1898. Il capitano Joe Blocker, un militare di carriera e di fama, riceve l’incarico di scortare il capo Cheyenne Falco Giallo nella sua terra natia, in Montana. Blocker è un macellaio. Ha partecipato con convinzione alla guerra di sterminio contro i Nativi, cui rimprovera una ferocia sadica incompatibile con l’umanità dei coloni bianchi. L’esercito sa che Blocker ha sventrato, sgozzato, fucilato, per disgusto verso il Nativo, per senso del dovere. Ma anche gli uomini di Falco Giallo non hanno risparmiato al nemico nessuna profanazione bellica, facendo dell’omicidio in guerra uno strumento di mutilazione sistematica di corpi. Entrambi questi uomini sono anime finite, caratteri esausti, a cui la propria epoca ha chiesto tutto per poi lasciarli soli con la memoria dei propri delitti, e con un indefinito sentimento di fallimento.

Nulla è servito, nessuna ha vinto, neppure i vincitori, che d’ora in poi dovranno sapersi per sempre assassini. Poco dopo l’inizio della missione, la truppa di Blocker si imbatte in Rosalie, una donna a cui un gruppo di Comanche ha ucciso il marito e quattro figli, il più piccolo di pochi giorni. Anche i Cheyenne sono diventati dei mostri, costretti dalle circostanze, ma comunque mostri. Falco Giallo è una vittima, perché l’uomo bianco gli ha portato via ogni cosa. Ma è anche un carnefice, perché ha ucciso senza pietà, neppure per i bambini.

Il capitano Blocker è un razzista, ma si accorge di essere una vittima quando comprende che gli hanno inculcato una morale disumana per aggiungere la frontiera ad Ovest agli Stati Uniti. Blocker e Falco Giallo si riconoscono l’uno nell’altro ed è solo così che arrivano a comprendersi. Entrambi si accorgono che l’origine della sventura a cui non potranno mai più porre rimedio è la loro appartenenza al genere umano. E così Blocker potrà dire a Falco Giallo: “Con la tua morte, una parte di me morirà per sempre”. Soltanto in questa ammissione di co-responsabilità è per loro ancora possibile, nonostante tutto, perdonarsi e trovare una pace reale, muta, distorta, disperata, ma viva.

Gli artefici degli eventi che hanno cambiato, e stuprato, la faccia del mondo quasi sempre non avevano né la misura né la proporzione delle proprie azioni. E questo perché agivano rispondendo ad una forza di espansione tipica degli esseri umani, dotata quasi di una sua autonomia spontanea e automatica. La conquista delle Grandi Pianure americane, e della frontiera, e la volontà di eliminare i Nativi, è un esempio mastodontico, almeno in parte, del modo di procedere di Homo sapiens. I crimini contro l’umanità, in epoca moderna, non sono solo quelli del Novecento. Sono anzi stati una componente fondamentale della civiltà. In Hostiles questa prospettiva è raccontata in linguaggio cinematografico, tramite il destino di Rosalie e dei suoi figli, che erano coloni e quindi anche beneficiari del genocidio indiano. Milioni di innocenti hanno preso il posto di milioni di vittime, prosperando al posto loro. 

Tutto questo non riguarda solo gli Americani. Questo film è una delle sceneggiature possibili dell’Antropocene.

Secondo il gruppo di ricercatori che collaborano con Mark Maslin della UCL di Londra, uno dei massimi esperti del “sistema terrestre”, e cioè degli effetti combinati di climatologia e antropologia, dall’inizio del 1600 le Americhe perdono il 60% della loro popolazione nativa, il 10% della popolazione del Pianeta. È il “great dying”, la grande moria: una emorragia di perdite umane seconda solo alla Seconda Guerra Mondiale, che fece 80 milioni di morti, il 3% della popolazione della Terra. Le conseguenze di questo sterminio sono state globali ed hanno coinvolto il clima della Terra. Il genocidio, o meglio i genocidi, dei popoli nativi comportarono una brusca interruzione delle attività agricole e quindi una eccezionale ripresa delle foreste in tutto il continente nord-americano. La conseguenza ecologica diretta fu un sequestro massivo di CO2 dall’atmosfera che, secondo alcuni ricercatori, raffreddò il clima dell’intero Pianeta. Lo sterminio dei nativi americani potrebbe quindi concorrere a spiegare il “grande freddo” della “piccola era glaciale” che strinse l’Europa nella sua morsa dalla fine del ‘500 agli inizi del ‘700. Perciò, ritiene Mark Maslin, l’inizio stesso dell’Antropocene stesso deve essere datato al 1610, anno dell’evidenza scientifica, nel ghiaccio artico, di un cambiamento eco-antropologico definitivo.

La lettura degli avvenimenti del XVII secolo fornita dal gruppo di Maslin è così importante perché valorizza un fatto di cui si discute troppo poco. L’annientamento delle culture native significò l’inizio di un nuovo regime biologico sul Pianeta. Il cambiamento nella composizione biologica degli ecosistemi continentali “è un indicatore dell’Antropocene”. E in che cosa consiste questo spartiacque tra il prima (la civiltà medievale e rinascimentale) e il dopo (la civiltà proto-moderna e moderna organizzata su una economia globale)? “A prescindere dal numero di specie estinte (con un tasso di estinzione superiore a quello degli ultimi miilioni di anni proprio a partire dal 1500), sono state le comunità di specie (species assemblage) e la abbondanza di specie ad essere alterate massicciamente da quel momento in poi”. Prende avvio nel XVI secolo un processo che dura ancora oggi e che ha raggiunto una intensità travolgente: “questo è specialmente vero negli ultimi decenni se guardiamo alle specie invasive e alle modifiche apportate ai gruppi di specie originari, attraverso l’agricoltura sulle terre emerse e tramite la pesca intensiva nei mari e negli oceani.” Rispetto a quanto registrato dalla stratigrafia e dalla paleontologia per l’Olocene, la frattura del ‘500 è il battesimo di “ben riconoscibili e nuove zone bio-stratigrafiche“. E per farcene una idea, basti pensare alle ossa dei miliardi di animali da allevamento che nutrono oggi l’umanità.

Aggiunge Telmo Pievani: “le carote di ghiaccio raccontano insomma una storia di saccheggio, di colonialismo, di imperialismo e di schiavitù. Dopo il 1610, i profitti dell’economia mondiale capitalistica detteranno l’agenda e avrà inizio il vero Antropocene, l’epoca in cui l’uomo si sente il padrone (…)  quindi Lewis e Maslin hanno scelto la seconda transizione ( ndr, la prima è l’invenzione dell’agricoltura) come spartiacque geologico sicuro, la transizione scatenata dall’arrivo degli Europei ai Caraibi alla fine del Quattrocento (quando due estremità del popolamento umano dell’Eurasia, quella occidentale e quella orientale, tornarono a toccarsi, a guardarsi negli occhi e a scambiarsi i germi dopo 40mila anni), con tutto ciò che ne conseguì: l’apertura del mondo, le rotte oceaniche, il capitalismo mercantile, le sue regole spietate, i profitti che generano altri profitti, le conoscenze scientifiche che aumentano, la megaciviltà connessa su tutto il Pianeta, la spoliazione sistematica delle risorse dei Paesi colonizzati”. 

Hostiles è un film che, proprio per tutti questi motivi, racconta anche la cronaca degli Stati Uniti di oggi. I genocidi trasformati in ecocidi sono diventati un trauma intergenerazionale, che perpetua diseguaglianze e ingiustizie. Eppure, l’uso programmatico e sistematico dell’estinzione come strumento di espansione difficilmente diventa linguaggio politico, dibattito parlamentare, negoziato alle Nazioni Unite.

Nell’estate del 2020, BLACK LIVES MATTER ha combattuto per collocare l’esperienza umana degli afro-americani nella giusta cornice storica di una discriminazione consustanziale alla storia della fondazione degli Stati Uniti e di un sistema economico completamente nuovo, il capitalismo coloniale del Cinquecento.

Anche l’Europa manca di una coscienza comune sulle origini della nostra riccherzza. Afua Hirsch ha scritto: “i 4 secoli di messa in schiavitù degli Africani per mano Europea rimangono una storia astratta”. In Brasile, c’è un luogo famigerato che tutti dovremmo conoscere, Valongo: “un porto rudimentale che ebbe un ruolo monumentale nella tratta degli schiavi, ma che è stato a lungo dimenticato. Quattro milioni di Africani schiavi furono venduti e portati in Brasile, 10 volte il numero di quanti vennero deportati negli Stati Uniti. Molti arrivarono in questo porto. La storica afro-americana Sadakne Baroudi, che ha dedicato molta della sua vita a diffondere consapevolezza tra le persone su quanto accadde qui, mi ha detto che questo nome dovrebbe essere conosciuto e compreso nella stessa misura in cui parliamo di Hiroshima e di Auschwitz”. 

La riscoperta di una “storiografia ecologica” dell’estinzione di popoli e comunità animali (genocidio insieme ad ecocidio) non può fare a meno di una nuova concezione del passato, che include, come disse Sylvia Wynter, “di traformare la nostra concezione del passato”. E questo significa trasformare anche noi stessi. Questo è il senso del nuovo “umanismo di battaglia” intrinseco al dibattito ecologista del XXI secolo. “La relazione di potere e di subordinazione non è più quella tra una popolazione di coloni colonizzatori e i discendenti dei colonizzati (…) non possiamo più voltare le spalle a ciò che l’Occidente ha portato nelle Americhe nel ‘500. Ma quell’umanesimo (l’Europa!) è anche la forma di umanismo contro cui tuonò Fanon, quando scrisse, ne I dannati della Terra, gli Europei parlano dell’Uomo, e tuttavia lo massacrano ovunque”. L’umanista del secolo dell’estinzione – il nostro – “è in battaglia, ed ha una relazione intima, profondamente agonistica, con la sua aspirazione ad essere un uomo tra altri uomini”.

E’ l’uomo, per intero, che deve essere decolonizzato.

La storia degli Stati Uniti è una storia globale con una infanzia europea, cominciata qui nel Vecchio Mondo al momento dell’allestimento della spedizione di Colombo. Noi ereditiamo la storia. La ereditiamo sotto forma di cultura e di tradizione, ma anche di ecosistemi ingegnerizzati e di comunità animali sfoltite e alterate. Ci muoviamo così, senza posa, tra colpa e rinnovamento. Il paesaggio della Terra è il volto della Storia. I nostri corpi e la nostra coscienza ne sono la linfa vitale.

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