“Non c’è posto per il fuoco dove c’è il progresso”. L’accusa più spietata e dolorosa che abbia sentito contro noi Europei al Kgalagadi. Ma il fuoco non era il dono di Prometeo all’umanità intera? Il fuoco non era l’origine della nostra civiltà millenaria?
L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina nel suo ritmo il materiale che va prendendo forma. Così Walter Benjamin intendeva il posto che il nuovo ha nello scorrere delle cose.

La potenzialità dirompente a scompigliare le carte in tavola è una caratteristica del mondo in quanto tale, che si reinventa originando nuovi inizi in stagioni inaspettate.
L’origine, il punto zero di un fenomeno naturale, o di una condizione esistenziale. Non sono mai perdute per sempre. Il loro ritorno è scritto nello sviluppo e nella fisiologia degli organismi viventi. Nei paesaggi scolpiti dal tempo geologico e dal clima.
Anche il principio di ciò che ci circonda lo possiamo incontrare di nuovo.
Questa epifania dell’origine accade a Kamqua, mentre ci apprestiamo a tornare a Gemsbokplein, puntando ad est, verso Kij, in Botswana.
Un ghepardo femmina esce dai cespugli, seguita da due piccoli di 5-6 mesi. Innervosita dalla presenza umana, si allontana sul contrafforte sabbioso, lasciando dietro di sé la sensazione evanescente di qualcosa che presto scomparirà per sempre.
In tutto il continente, i ghepardi in età adulta rimasti allo stato selvaggio sono circa 7000. Secondo le stime del SanParks, nel Kgalagadi ce ne sono 200. Silenziosi e accigliati, sono uno di quei miracoli in estinzione che l’Africa regala senza preavviso. Magnifici, eppure anche molto tristi.
Arriviamo a Rooiputs a metà pomeriggio, dopo ore di pista fatta solo di ghiaia grigia. Non vediamo animali da interminabili ore. Da qui si susseguono, in direzione nord est, i luoghi di avvistamento dei leoni criniera nera. Su questo lato del parco osano avvicinarsi ai campi tendati e annusare l’essere umano da vicino.
Se mai si era scherzato, non si scherza più. Rientro tassativo, di legge, alle 18 e allerta massima. Non si può lasciare il proprio veicolo neppure in caso di incidente. Bisogna chiamare i soccorsi al telefono, se prende, o aspettare che passi qualcuno. E non improvvisare nulla.
Lui ti vede, ma tu non lo vedi. Mai dare le spalle ad un ghepardo.
E a noi un incidente succede. Si buca una gomma. Nei cinque minuti di valutazione del danno, mentre calcoliamo la distanza che ci separa da Rooiputs, una tartaruga attraversa la pista di sabbia.

Siamo in Botswana. Nuovo palinsesto. Nuove aspettative. Adesso il paesaggio assomiglia a una boscaglia con intervalli di savana gialla. Le acacie erioloba e mellifera sono assiepate in gruppi rigogliosi. Il cielo, invece, è in balia di una termodinamica fuori controllo.
Verso le cinque, per un paio di minuti, la pioggia del deserto, a grosse gocce, batte sulle tende di Rooiputs. Poi le nuvole scompaiono e l’aria turchese assorbe la luce solare generando uno scintillio dorato. Stormi di canarini gialli volteggiano sui cespugli. Prendiamo una tazza di tè sulla terrazza centrale. Alle pareti, le foto dei leoni che frequentano Rooiputs da diverse stagioni.





L’ambiente circostante è totalmente cambiato. E anche la lingua è cambiata (il sestwana al posto dell’afrikaans). Il Kgalagadi ha cambiato nome e faccia. Vuole di più.
La lunga mattinata senza avvistare animali mi ha fatto pensare ai musei europei.
Per la prima volta li ho ricordati non come degli scrigni dell’esperienza umana e del genio, ma come delle tombe, dei luoghi di tenebra, dove giacciono ormai spenti, in Antropocene, i tesori del tempo passato. Anche i musei europei raccontano che cosa è la sesta estinzione.
Sbagliato voler puntare tutto sui leoni. Forse, al punto in cui siamo con i predatori di vertice, sopravviveranno i generalisti opportunisti e versatili. Come lo sciacallo.
Insieme a noi a Rooiputs ci sono un paio di uomini d’affari con passaporto del Bostwana. Il più giovane è ben vestito, con jeans e giacca a vento, il suo collega ha un cappotto color cammello, decisamente troppo elegante e fuori posto.
Entrambi chattano senza sosta su costosi cellulari Huawei. Mi dicono di essere di etnia Katanga, un gruppo Bantu linguisticamente affine agli Shona dello Zimbabwe; lavorano nel commercio di pelli di pecora karakul di razza Swakara. Le comprano in Botswana, le fanno conciare in Namibia e le esportano in Danimarca.

Sembrano personaggi non troppo affidabili e può anche darsi che le foto di pellame pregiato che mi mostra il più giovane siano appena state scaricate da Google per mascherare chissà quale altro traffico. Sediamo sulla sabbia attorno al fuoco, nella notte gelida.
Il fumo del legno di acacia è denso e penetrante, gli occhi bruciano. Ma non si può fare altro che asciugarsi le lacrime, per non congelare. I due sono a loro agio, e sorseggiano birra. Poi quello col cappotto di cammello mi chiede: “da voi, lassù in Italia, si sta così davanti al fuoco?”.
Ha un tono ironico, investigativo. Sa già la risposta, probabilmente. E non è lì che vuole arrivare. Gli rispondo di no e allora lui, come se avesse sentito l’odore di una strana, ingrata malinconia, dichiara: “non c’è spazio per il fuoco dove c’è il progresso”.
Il fuoco è lontananza. Il fuoco porta lontano, perché è lontano. E’ sempre altrove, pur essendo sempre presente. E’ il nostro prodigio ancestrale.
La nostra prima malinconia. Il nostro ricordo perenne. La memoria di chi abbiamo perduto e di chi vorremmo poter amare. Il Kagalagadi è il fuoco. Colonna sonora: Always Gold dei Radical Face.
(Nota: le foto dei ghepardi scattate da Davide Cisterna saranno pubblicate su La Stampa).
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