Le analogie storiche sono una grande tentazione. Il loro scopo è portare conforto in un presente disordinato, e angosciato. Ma, anche quando una analogia funziona, non sempre il prisma delle somiglianze viene colto nella sua ampiezza.
Da marzo circolano su YouTube alcune lezioni del professor Alessandro Barbero sulla “crisi del Trecento”, il brusco cambio di passo nella cultura, e nell’economia, medievali che, nell’immaginario collettivo, è identificato con l’epidemia di peste del 1348, quella del Boccaccio e del Decameron fiorentino.
A questo punto della nostra epidemia globale, non è però tanto l’analisi delle cause della frattura del Trecento discusse da Barbero che dovrebbe attirare la nostra ansiosa attenzione, quanto piuttosto la sua disamina dell’atteggiamento psicologico che dominava l’Europa in un momento in cui, a partire dal 1315, con il primo fallimento nei raccolti a causa di una stagione insolitamente piovosa e fredda, cominciò a prendere corpo la consapevolezza che il mondo era diverso da come era stato descritto e percepito per secoli. Pur tra mille sfumature, l’Occidente era una civiltà sicura di sé.
L’Europa, argomenta Barbero, usciva da un lunghissimo periodo di crescita economica e il Medioevo stesso, fino ad allora, si configurava come un arco di tempo di enorme durata.
È questa coscienza inconscia di una continuità ormai solida, consolidata, che rende lo shock del 1315 (e poi dei successivi raccolti di grano finiti marciti, nel 1316 e nel 1317) così sorprendente, devastante e cupo.
“Da secoli gli uomini in Europa sentono di vivere in un mondo razionale, che funziona, un mondo dove un uomo può vivere bene usando la sua intelligenza. L’Europa era ottimista – spiega Alessandro Barbero – ed abituata a crescere, ma questa crescita, ad un certo punto, si inceppa”.
Quando una civiltà si sente sicura delle proprie premesse, quando avverte nella propria struttura economica e produttiva una conferma delle sue convinzioni culturali e religiose, nutre e sostiene una società che pensa se stessa come definitiva e forte.
Per quanto la tradizione possa dunque fornire esempi di brusche interruzioni, una civiltà capace di una notevole solidità interna non è più abituata ad ipotizzare una catastrofe collettiva.
La percezione di avere alle spalle un tempo lunghissimo in cui “è sempre andata così” diventa quindi un fattore di coesione sociale robustissimo, che però disarma le intelligenze dinanzi alla imprevedibilità dell’accadere storico, e delle faccende naturali. Questa è una prima, impressionante somiglianza tra il nostro 2020 e la frattura del Trecento.
Anche noi, come gli uomini e le donne del Trecento, siamo infatti avvezzi a pensare alla civiltà contemporanea come ad un blocco di convenzioni, idee, modi di produzione sbozzato e levigato una volta per tutte.
Non solo il migliore mai progettato da mente umana, ma soprattutto l’apogeo di un processo di conquista di diritti fondamentali (divorzio, aborto, riscaldamento domestico, frutta esotica in inverno, aria condizionata, carne in tavola tre volte la settimana, voli aerei intercontinentali).
Che tutto questo possa franare perché si regge su premesse ecologiche e biologiche altamente misconosciute o sottostimate, è considerato un pensiero disfattista, sciocco e insensato. Della vita moderna la gente comune non coglie più le fondamenta, ma soltanto il comfort e la bellezza.
E infatti, ciò che risalta con maggiore e negletta evidenza in questo ultimo mese del 2020 è il silenzio sulle cause ecologiche, e quindi il valore ecologico, della pandemia. Stregati e ammaliati da un velo di Maja ricamato ad arte, sembriamo parlare di tutto fuorché di ciò che realmente è accaduto e sta accadendo. Lasciamo che i fatti stessi (una aberrante intrusione nella vita animale non addomesticata) sfumino, lasciando spazio ad una suggestione politica e sanitaria.
Ci salverà un vaccino, e poi torneremo alla vita di prima. Nessuno, o poco più, nemmeno negli ambienti dove si discute di un reset verde degli assist economici europei, pare accorgersi della enormità e della scala del sintomo globale che il SarsCov2 ha potentemente sbattuto in faccia a quasi 8 miliardi di esseri umani.
Secondo Barbero, il cambiamento climatico del XIV secolo (che ora i climatologi definiscono “Piccola Età Glaciale” e che era destinato a durare per 5 secoli, fino alle soglie della Rivoluzione Industriale) e una generale condizione di sovrappopolazione furono tra le cause del disastro continentale.
In un primo tempo, dinanzi alla penuria alimentare si pensò “se dobbiamo produrre di più, metteremo a coltura più terra”, ma “anche se semini cereali a 1000 metri di altezza, come la segala, queste terre renderanno pochissimo e presto il suolo si esaurirà”. Al volgere della metà del secolo è chiaro quindi l’impensabile: “non ci si può più allargare: è stato raggiunto un limite”.
La grande illusione del volgere del 2020 è la rimozione di una consapevolezza analoga.
Che cioè noi si sia giunti ad una frattura epocale, oltre la quale non c’è più il bengodi di un benessere sognato e politicizzato sino all’esasperazione, ma una fatica di vivere di nuovo stampo, esausta: l’effetto rebound di una interpretazione scorretta e fuorviante di noi stessi che va avanti, questa sì, da alcuni secoli ormai.
In altre parole, ciò che nei prossimi anni a noi vicini diverrà sempre più manifesto è che la modernità stessa è entrata in crisi, per il semplice fatto che non è più in grado di reggersi da sola senza riforlumarsi al cento per cento.
È questa riformulazione il senso ultimo della retorica della sostenibilità economica, che tuttavia, come si vede, si spinge ben oltre, per l’ampiezza dei valori culturali e sociali in gioco, un impianto solare o qualche pala eolica.
Ma il sentimento, perché di una affezione emotiva si tratta, di appartenere ad una civiltà definitiva e ormai solida è radicato in un paradosso. Max Weber lo chiamava disincantamento del mondo.
Ossia l’affermazione del pensiero razionale con metodo scientifico, che, facendo forza sulla leva di Archimede del calcolo matematico, è capace di spiegare le forze naturali, di usarle a suo vantaggio e di progettare tecnologicamente.
Il disincanto del mondo ci ha regalato, secondo Weber, un formidabile ottimismo e una inusitata fiducia nella infinita ricchezza della vita.
Come la scienza è eterna nel suo sorpassare con nuove scoperte quelle del passato, così la nostra esistenza è aperta, nella solidità fornita dal pensiero intellettualistico, ad una sperimentazione infinita: “la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel ‘progresso’, nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un processo ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito”.
“Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva ‘vecchio e sazio della vita’ poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portata alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse rivolvere ed egli poteva perciò ‘averne abbastanza’. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì ‘stanco della vita’, ma non sazio della vita.
Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che, proprio in virtù della sua ‘progressività’ priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità”.
Non c’è dubbio che queste figure culturali ormai congenite nella nostra civiltà umana siano a fondamento di molti dei nostri atteggiamenti pubblici, sfruttati dalla pubblicità come amplificatori del senso della vita, ad esempio nella interpretazione della vecchiaia, della progettazione narcisistica di se stessi e, infine, nella rimozione della catastrofe ecologica dell’orizzonte del possibile.
Se siamo convinti, e lo siamo, che il senso della vita stia in un miglioramento progressivo dell’ordine materiale delle cose, allora per noi la constatazione della impossibilità di mantenere efficace e produttivo questo processo coincide con il crollo di certezze psicologiche profonde.
Il lavoro di rafforzamento e di consolidamento della presa umana sul Pianeta e le sue risorse naturali ha richiesto una costanza e una dedizione inimmaginabili per noi, che veniamo alla fine di questo percorso storico.
Ma questo lavoro non è avvenuto in sordina, ha invece continuamente emanato, come prodotto di scarto, una assuefazione sempre più insensibile ai suoi risultati e ai suoi successi.
L’assuefazione è un genere di illusione. Inganna, froda e manipola.
E maschera la realtà di finzione, facendo invece di questa finzione una realtà alternativa. Questo è lo scenario comune di un 2020 che non si chiude “senza il Natale”, ma senza neppure l’ombra di un principio di realtà.
(Foto in copertina: Schönau im Mühlkreis, Oberösterreich, Österreich).
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