Home » Pandemia » L’approccio alla pandemia è riduttivo

Lo scorso 29 ottobre l’IPBES ha reso pubblico per la stampa (che in Italia lo ha ignorato) un report molto dettagliato sulle pandemie da zoonosi, come il SarsCov2, e la loro correlazione con il collasso ecologico globale. La conclusione di IPBES – Workshop on biodiversity and pandemics  (un documento in peer review) è chiara: l’approccio alla pandemia è riduttivo.

Il documento è il risultato di un lavoro gigantesco messo insieme da 22 esperti di tutto il mondo a luglio di quest’anno, che hanno fatto il punto sulle cause di questa epidemia e sul perché i governi nazionali e la governance internazionale non possono più rimandare la questione dei driver ecologici che sono alla fonte di malattie come il Covid19.

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 
(Photo Credit: IPBES Press Kit)

Gli scienziati coinvolti hanno discusso i dati attualmente disponibili su 500 malattie zoonotiche di impatto globale e hanno ribadito che la comunità internazionale deve spostarsi su una visione politica “one health”, che miri, allo stesso tempo, alla salvaguardia della salute e integrità di uomini, animali ed ecosistemi. 

L’IPBES denuncia infatti che siamo intrappolati in un “approccio riduzionista”, lo stesso ampiamente impiegato dai media italiani per raccontare l’emergenza nazionale: “il nostro approccio business-as-usual alle pandemie è basato sul contenimento e sul controllo, una volta che la malattia è emersa, e si basa quindi primariamente su un modello di intervento riduzionista, che contempla il vaccino e lo sviluppo di terapie, piuttosto che sul ridurre le cause del rischio di pandemia e quindi sul prevenirle prima che esplodano”. 

Viviamo nella “era delle pandemie” e “venirne fuori richiede opzioni politiche che sostengano un cambiamento trasformativo orientato alla prevenzione”.

L’ordine di grandezza qualitativo e quantitativo di questo cambiamento è già stato illustrato dall’IPBES l’anno scorso a maggio, con il mega report che ha spiegato come 1 milione di specie sia ormai in via di estinzione e come la civiltà umana debba svoltare rispetto ad un modello economico fondato sull’espansione illimitata dei profitti e del prelievo di risorse naturali.

Nell’era delle pandemie deve essere chiaro che “le cause sottostanti le pandemie sono le stesse dei cambiamenti ambientali globali che sono alla base della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico. Includono il cambio di uso del suolo, l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura, il commercio e il consumo di specie selvatiche (…)”.

Infatti, “la recente crescita esponenziale proprio nel consumo e nel commercio, sotto la spinta della domanda dei Paesi sviluppati e delle economie emergenti, tanto quanto la pressione demografica umana, ha condotto ad una serie di malattie nuove, che originano principalmente nei Paesi in via di sviluppo ad alto tasso di biodiversità, e poi finiscono con il rientrare negli schemi di consumo globale”.

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

In questi modelli culturali ad enorme tasso di prelievo di risorse naturali ci sono la carne, le pellicce, rettili da compagnia, pelli esotiche, olio di palma per detergenti, cosmetici e alimenti, mammiferi usati come pet. 

Il rapporto IPBES, però, insiste anche sui costi di una zoonosi, di solito taciuti. Come per qualunque altro disastro ecologico, il prezzo da pagare è spalmato su più indici economici e finisce con il refluire nella categoria dell’offsetting, ossia nelle esternalizzazioni che i nostri modelli economici non tengono in considerazione, quando si decide come pianificare politiche produttive e consensi elettorali. 

Eppure, benché ignorate dai giornali e dalle televisioni mainstream, le cifre sui costi della pandemia indicano chiaramente che continuare ad ignorare la correlazione tra collasso ecologico, crisi di estinzione e rischio sanitario costa molto di più che invertire la rotta.

Stiamo quindi pagando il dazio di una miopia politica straordinaria e protratta nel tempo, non di misure estemporanee necessarie per evitare migliaia di morti: “è probabile che il Covid19 provochi danni economici di trilioni di dollari, con una stima globale di 8-16 trilioni di dollari a luglio 2020 e di 16 trilioni negli Stati Uniti, se presumiamo un contenimento dell’infezione dovuta al vaccino entro  i primi 4 mesi del 2021.

Se ipotizziamo costi simili per le altre pandemie già verificatesi negli ultimi 102 anni (l’influenza del 1918, l’HIV/AIDS e altre ancora) e vi aggiungiamo il peso su base annua di malattie emergenti su scala molto vasta (ad esempio, la SARS, Ebola e altre ancora), e inseriamo nel calcolo anche i 570 miliardi di dollari che ogni anno spendiamo per la influenza stagionale di forte intensità su scala pandemica, il costo dell’emergere di una zoonosi supera 1 trilione di dollari all’anno.

L’OCSE ha estimato che in media, nel periodo 2015-2017, ogni anno sono state allocate per la conservazione della biodiversità tra 78 e 91 miliardi di dollari, un investimento che rappresenta una frazione dell’impatto provocato da malattie zoonotiche emergenti.

Stime del costo globale di una strategia di prevenzione delle pandemie basate sulle cause che vi stanno dietro, e cioè il commercio di specie selvatiche, il cambio di uso del suolo e una migliore sorveglianza secondo l’approccio One Health, si aggirano tra i 22 e i 31.2 miliardi di dollari, che possono essere ridotti ancora (scendendo tra 17.7 e 26.9 miliardi di dollari), se si calcolano anche i benefici derivanti dalla riforestazione e quindi dal sequestro di carbonio – 2 ordini di grandezza in meno rispetto ai danni economici da pandemia”. 

Il vaccino per il SarsCov2 non chiuderà la partita, ma sarò solo il primo tempo di qualcosa di molto più grande, avverte l’IPBES: “senza strategie preventive, le pandemie emergeranno più spesso, si diffonderanno più rapidamente, uccideranno più persone e si ripercuoteranno sull’economia globale con un impatto ancora più devastante del precedente”. 

Infatti, “sin dal 1918, almeno 6 altre pandemie si sono abbattute sulla salute pubblica, 2 causate da virus influenzati, la HIV/AIDS, la SARS e adesso il Covid19.

Queste 6 sono la punta dell’iceberg delle potenziali pandemie. Oggi, una popolazione di 7.8 miliardi di persone è protagonista di progressi nel campo della medicina, dell’industria e dell’agricoltura, che, assommati ad una demografia molto rapida, alla conversione dei terreni agricoli, al cambiamento climatico e alla sostituzione della wildlife con animali da allevamento e al degrado ambientale, definisce l’Antropocene.

Il risultato è un incremento nella frequenza di interazioni tra specie selvatiche, specie allevate ed esseri umani, soprattutto nelle regioni tropicali e sub-tropicali (a basse latitudini) ricche di biodiversità selvatica con i suoi microbi. Il rischio di spillover è inoltre più alto anche in conseguenza del cambiamento climatico, che introduce perturbazioni nelle dinamiche di popolazione e nella distribuzione delle specie selvatiche”. 

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

Vediamo i numeri.   

Il 70% delle malattie emergenti (Ebola, Zika, l’encefalite da Nipah) sono zoonosi, malattie cioè causate da microbi di origine animale. Più di 400 microbi (virus, batteri, protozoi, funghi e altri microrganismi) sono passati sull’uomo negli ultimi 50 anni e la maggior parte aveva un ospite naturale in un animale selvatico. 

Ogni anno emergono oltre 5 nuove malattie che colpiscono l’uomo, e ognuna di queste ha le potenzialità per diventare una pandemia. 

Si stima che ci siano 1.7 milioni di virus ancora sconosciuti in mammiferi e uccelli che fungono da specie ospite. Di questi, 540mila-850mila potrebbero infettare gli esseri umani. 

I serbatoi più importanti dei patogeni con un potenziale sono i mammiferi (in particolare i pipistrelli, i topi e i primati) e alcuni uccelli (soprattutto gli uccelli d’acqua), e i mammiferi da allevamento (ad esempio, maiali, cammelli e polli).  

Il commercio internazionale legale di specie selvatiche è cresciuto in valore del 500% dal 2005 e del 2000% dagli anni Ottanta. Rientrano in queste percentuali il captive breeding, le wild farm e l’allevamento in ranch.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti sono i principali consumatori mondiali, perché importano animali selvatici come animali da compagnia. I soli Stati Uniti ne fanno entrare 10-20 milioni all’anno. Il numero delle spedizioni è cresciuto da 7.000 a 13.000 al mese nel periodo dal 2000 al 2015.

Per chi voglia farsi una idea di ciò di cui stiamo parlando quando parliamo di “wildlife trade”, ecco una raccolta di foto shock scattate da grandi fotografi naturalistici.

Anche il cambiamento climatico è un fattore di amplificazione del rischio di nuove pandemie come quella che stiamo vivendo da marzo: “un esempio è l’encefalite trasmessa dalle pulci diffusasi in Scandinavia e la febbre emorragica del virus Crimea-Congo, portata dagli uccelli migratori dell’Africa e delle regioni mediterranee fin nell’Europa temperata e nordica a causa di inverni più miti”.

“Il cambiamento climatico sarà una causa sostanziale del rischio di pandemie nel futuro, perché induce grandi movimenti di genti, specie selvatiche, specie ospite e vettori, e con loro la diffusione dei patogeni (…) portando ad una alterazione delle dinamiche naturali ospite/patogeno”. 

Le specie, infatti, si spostano per rispondere alle sollecitazioni climatiche: “il cambiamento nelle temperature terrestri causerà l’avanzamento geografico (shift) sia nelle zone geografiche degli ospiti che in quelle dei vettori; e anche alterazioni nei cicli vitali dei vettori e degli ospiti, perché saranno in migrazione anche gli esseri umani con i loro animali domestici”. 

Anche le alterazioni nei regimi normali delle piogge stagionali, dal momento che “alterano l’abbondanza di piante da raccolto e influiscono sui cicli biologici delle popolazioni di erbivori, come i roditori” contribuiranno “ ad ulteriori alterazioni nella distribuzione degli animali-serbatoio, alla loro densità di popolazione e al rischio patogeno complessivo”. 

Secondo i dati analizzati dall’IPBES, che, ricordiamolo, pubblica una sintesi di lavori indipendenti provenienti dai migliori centri di ricerca del mondo, “simulazioni sulla perdita di range geografico nello scenario di riscaldamento globale per più di 100mila specie di piante animali indicano, con un aumento di + 2 °C entro il 2100, una perdita di range bioclimatico di più del 50% nel 18% delle specie di insetti (oscillazione 6-35%), 8% delle specie di vertebrati (oscillazione 4-16%) e del 16% delle piante (oscillazione 9-28%)”.

Da un punto di vista biologico ed ecologico globale, dunque, si formeranno “nuove comunità di specie selvatiche e quindi nuove relazioni tra queste specie”. Sono scenari ignoti alla scienza, del tutto inesplorati. 

A cambiare è, in poche parole, l’assetto generale nella composizione di specie all’interno delle regioni ancora abbastanza wild da sostenere popolazioni animali diversificate. 

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 

Uno degli aspetti più preoccupanti di questo rapporto è che neppure le strategie di conservazione della biodiversità possono più esimersi dal tenere in considerazione il rischio epidemiologico da zoonosi.

La gravità della situazione è evidente, ad esempio, nel rischio potenziale dei corridoi ecologici, considerati indispensabili per ampliare lo spazio disponibile per gli animali, soprattutto i grandi mammiferi.

“I programmi elaborati per facilitare i movimenti della wildlife tra porzioni isolate di paesaggio, ad esempio i cosiddetti corridoi, o per creare paesaggi a mosaico che ospitino wildlife, mandrie e comunità umane, potrebbero creare più occasioni per il contatto e quindi la trasmissione microbica”. 

Una altra questione enorme, ancora una volta, è “la perdita dei predatori e quindi la conseguenze supremazia di specie sinantropiche (che vivono a stretto contatto con l’uomo), che sono anche serbatoio di specifiche malattie”. 

Allevamenti intensivi da carne, rotte commerciali che prevedono il trasporto e l’accatastamento di animali vivi a centinaia se non migliaia di capi, allevamenti di animali da pelliccia: sono tutte condizioni pericolose che aumentano il rischio di “ricombinazione virale”, ossia di mutazioni all’interno di un virus che si adatta rapidamente per colonizzare specie viventi nuove. 

Un esempio di questi giorni è la decisione del governo danese di abbattere 17 milioni di visioni da allevamento perché potrebbero essere già stati infettati da una variante del SarsCov2, che è già passata anche su alcune persone. Secondo il Primo Ministro danese, Mette Frederiksen, sussiste il rischio che “il virus mutato nel visone metta a rischio l’efficacia del vaccino”. 

Allevamenti intensivi da carne, rotte commerciali che prevedono il trasporto e l’accatastamento di animali vivi a centinaia se non migliaia di capi, allevamenti di animali da pelliccia: sono tutte condizioni pericolose che aumentano il rischio di “ricombinazione virale”, ossia di mutazioni all’interno di un virus che si adatta rapidamente per colonizzare specie viventi nuove. Per questo la Danimarca ha deciso di abbattere 17 milioni di visoni, che sono già infettati da una variante del SarsCov2

Esempi analoghi, che possono contare su dati già elaborati, vengono naturalmente anche dall’Asia, ad esempio per il pangolino (Manis javanica), che potrebbe essere stato l’animale di amplificazione per il SarsCov2, cioè la specie che ha fatto da ponte per lo spillover sull’essere umano: “uno studio lungo 10 anni condotto nel Paese di origine ha rivelato che i pangolini catturati non avevano nessun virus, mentre altri 2 gruppi, controllati alla fine della rotta commerciale, portavano tracce di materiale genetico strettamente imparentato con il SarsCov2”.  

Il ratto del bamboo, mangiato in Cina e nel sud est asiatico, secondo una ricerca condotta in Vietnam, è infetto da coronavirus nel 6% degli esemplari ancora all’interno degli allevamenti, nel 21% degli individui nei mercati di animali vivi e nel 56% degli animali ormai arrivati al ristorante.

IPBES - Workshop on biodiversity and pandemics 
Oil palm plantation at edge of rainforest where trees are logged to clear land for agriculture in Southeast Asia

Come già accaduto per il Rapporto del maggio 2019, anche stavolta l’IPBES non si limita a puntare il dito contro la civiltà umana del XXI secolo, ma suggerisce alcuni passaggi, stavolta politici, che segnerebbero una rottura, ma anche un avanzamento storico rispetto all’attuale assetto della governance globale sulla protezione della biodiversità. 

Bisogna “lanciare un consiglio intergovernativo di altro livello per la prevenzione delle pandemie, che fornisca cooperazione tra i governi e lavori sui punti di intersezione delle 3 Convenzioni di Rio (Convenzione sulla Biodiversità, accordo CITES per il commercio di specie selvatiche e Convenzione sul Clima).

Questo coordinamento internazionale dovrebbe anche creare le condizioni negoziali per arrivare ad un accordo in cui tutti i Paesi aderenti si impegnino sull’approccio ONE HEALTH. 

ONE HEALTH deve diventare parte integrante dei governi di ogni nazione.

In aggiunta, è necessario mettere in piedi anche una partnership permanente tra la World Organisation for Animal Health (OIE), la Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora (CITES), la Convention on Biological Diversity (CBD), la World Health Organization (WHO), la Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) e infine la International Union for Conservation of Nature (IUCN).

Ci sono poi misure che riguardano la vita della società civile e delle democrazie rappresentative. 

I costi delle pandemie devono essere conteggiati nei rapporti costi/benefici dei consumi di beni, della produzione, dei progetti di espansione agricola e anche dei budget e della politica in generale.

Bisogna disegnare meccanismi finanziari come i bond, sia a livello di nuove imprese a vocazione ambientalista che come titoli sovrani, per mettere in movimento e generare risorse economiche da destinare alla conservazione della natura e degli ecosistemi. In questa nuova visione potrebbero rientrare anche delle compensazioni per i Paesi con la maggior biodiversità. 

Fare di tutto per promuovere, come linea politica, la transizione a stili alimentari meno dipendenti dal consumo di carne. E quindi spingere per la riduzione dei consumi, anche di quei prodotti che hanno un impatto ambientale abnorme, correlato con le zoonosi, senza escludere, anzi, strumenti di pressione come una maggiore tassazione: olio di palma, legni esotici, pellicce. 

Non c’è dubbio che siamo entrati in una fase della civiltà umana dalle implicazioni biologiche sconvolgenti. Eppure, cercando di orientarci fra sentimenti a cui non sappiamo ancora dare neppure un nome, non è inutile rivolgersi al pensiero di coloro che, con decenni di anticipo, intuirono su quale autostrada senza vie di ritorno si fosse incamminata la modernità.

Uno di loro è un cinese, Zhang Shizao, che morì nel 1973 e fu Ministro dell’Istruzione nel governo del suo Paese: “Mentre ogni cosa sotto il cielo è caratterizzata dalla finitezza, solo gli appetiti non conoscono limiti. Quando la quantità di risorse finite viene valutata sulla base di appetiti illimitati, c’è da aspettarsi che tale disponibilità venga meno nel giro di poco. Così come l’esaurimento delle cose finite non tarderà a giungere, se esse saranno usate per soddisfare appetiti insaziabili”.

Photo Credits: IPBES Press Kit

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