Home » Pandemia » Il virus rivela la disfunzione ecologica

La sorpresa e il terrore dinanzi al propagarsi dell’epidemia da SarsCov2 è piuttosto ridicola. Siamo primati relativamente da poco sulla scena ecologica mondiale. Non c’è stato ancora il tempo per venire a contatto con tutti i virus sconosciuti che albergano nelle ultime foreste primarie del mondo o in alcune specie animali. Il discorso è semmai un altro. Il virus rivela la disfunzione ecologica. Una caratteristica portante della nostra epoca.

Le zoonosi sono una sorta di specchio anche di noi stessi: testimoniano l’antica, ancestrale connessione tra la nostra specie e i virus, oppure i batteri, per il semplice fatto che ci siamo co-evoluti con il Pianeta e le altre specie. Tutte. Anche quelle microbiche. Siamo stati a contatto per un tempo lunghissimo, magari a distanza, ma i nemici sconosciuti sono sempre stati lì, nell’ombra, pronti a farci visita, con le giuste opportunità. 

Insomma, come in un film di fantascienza dove gli astronauti atterrano su un Pianeta apparentemente disabitato, non siamo soli. La nostra non è mai stata una navigazione in solitaria, e non lo è neppure adesso, nonostante la potenza dispiegata sul Pianeta. Il nostro destino è quello dei virus, e viceversa.

Il danno recato alla nostra specie da una qualunque zoonosi non è dunque un evento straordinario o fuori scala. È invece un indizio storico dell’epoca ecologica in cui ci troviamo, un’epoca in cui la nostra specie si è sviluppata sino a raggiungere una soglia-limite. Oltre questa soglia ci sono incroci pericolosi con altre specie, lo scontro contro l’equilibrio climatico terrestre e la distruzione dell’integrità ecologica e genetica degli ecosistemi.

La sesta estinzione si massa si colloca in questo contesto. Il punto di frizione tra la nostra maturità di specie e condizioni “cosmologiche” che sono in conflitto con noi. Un paradosso, una gigantesca sfida al pensiero.

Quello che noi chiamiamo “successo di un patogeno” e quindi “patogenicità” risponde soltanto a logiche evolutive. È una logica evolutiva, del tutto consequenziale e razionale, che una specie (noi) che ha raggiunto i 7 miliardi e 800 milioni di individui sconfini in foreste un tempo intatte e inaccessibili in cerca di minerali preziosi, legname e carne.

È logico anche che questa specie, classificata come super-predatore, pianifichi di servirsi a scopo alimentare di specie non addomesticate, ma costrette a riprodursi in cattività. Ed è perfettamente logico che un patogeno abituato al suo ospite sfrutti le occasioni che ha a disposizione, interagendo con il super predatore e giocando alle sue stesse regole. E cioè: mutazione, adattabilità, selezione naturale, proliferazione.

Perché, allora, siamo così sconvolti dal comportamento del virus?

L’aspetto più inquietante del superamento della soglia-limite è la defaunazione. Se ancora poco sappiamo del SarsCov2 e di come cambierà la sua interazione con noi, il suo nuovo ospite, ancora meno ci è noto che cosa sta accadendo agli habitat considerati più pericolosi per i futuri spillover.

Un articolo uscito su NATURE Communications nel 2019 e discusso da CARBON BRIEF avverte che, all’aumentare delle temperature medie globali, è concreto il rischio di allargamento dell’area di contagio di ebola, che potrebbe raggiungere il Kenya e la Tanzania.

“Con temperature più calde, i pipistrelli e altri animali che si suppone trasmettano il virus agli esseri umani, si prevede si sposteranno verso nuove aree, portandosi appresso la malattia. Il nuovo modello suggerisce che entro il 2070 le epidemie scoppieranno, in media, ogni 10 anni, se la rapida crescita demografica e il lento sviluppo saranno accompagnate da una sostanziale inazione sul fronte del cambiamento climatico.

Nelle attuali condizioni, la media di esplosione delle epidemie è di una 1 volta ogni 17 anni (…) lo studio conclude che con gli attuali tassi di crescita economica e di alte emissioni l’area totale suscettibile alla epidemia potrebbe espandersi di 1/5”, riporta CARBON BRIEF. 

Il comportamento dei pipistrelli rientra in uno schema molto più vasto, e cioè la defaunazione: la diminuzione lenta ma progressiva del numero di individui che compongono le popolazioni di una specie distribuite in un certo habitat. Era il 25 luglio del 2014 quando usciva su SCIENCE uno studio sulla defaunazione firmato da Rodolfo Dirzo della Stanford University che ha fatto scuola: la defaunazione è la condizione ecologica ormai predominante del nostro Pianeta, anche là dove resistono aree protette di enorme valore biologico.

Da allora, la consapevolezza che gli ecosistemi impoveriti di specie animali sono una bomba ad orologeria è cresciuta considerevolmente. Ciò che più conta nei processi di defaunazione, come disse John Epstein della ECOHEALTH ALLIANCE a David Quammen al tempo della stesura di Spillover è questo: “la chiave di tutto è l’interconnessione. Si tratta di capire in che modo uomini e animali sono interconnessi”.

Questa rete di rapporti reciproci tra specie funziona su più livelli: noi e gli animali, gli animali tra loro e noi e gli animali rimasti dopo che alcune specie si sono estinte o sono diminuite tanto da non interagire più, in un ecosistema, come facevano in passato.

Questo è il livello basico della defaunazione: che cosa succede agli equilibri interni di un ecosistema, quando uno dei suoi abitanti scompare ? Se le colonie di pipistrelli del Sierra Leone, del Gabon, del Ghana o della Repubblica Democratica del Congo si sposteranno, e se nel frattempo altre comunità di specie di quelle foreste tropicali, soprattutto i mammiferi, decimati dalla caccia a scopo alimentare, collasseranno al punto da compromettere la dispersione dei semi di alcune piante, la capacità di stoccaggio dell’anidride carbonica della foresta e il numero di predatori di media taglia, se tutto questo si verificherà quali saranno le conseguenze complessive?

Non lo sappiamo.

Ma sappiamo che la defaunazione erode la tenuta biologica ed ecologica di questi ecosistemi, fino al punto di non ritorno. Sappiamo che un ecosistema è integro quando mantiene la sua “diversità filogenetica”, cioè una composizione di specie abbastanza ricca da rappresentare la somma di storie evolutive molto diverse e molto lontane nel tempo tra loro.

Potremmo quindi fronteggiare, già in questo secolo, le conseguenze combinate, sistemiche e interdipendenti, di diversi fattori: la defaunazione e le conseguenti estinzioni, il cambiamento di schemi climatici consolidati e quindi un rischio maggiore di imbattersi in zoonosi.

La storia delle epidemie zoonotiche più note degli ultimi 20 anni conferma questa diagnosi: i virus sono integrati negli ecosistemi e se togli qualcosa (specie animali, lembi di foresta abbattuti per piantagioni di cash crop come soia, olio di palma, caffè, cacao), o aumenti qualcosa (il numero esponenziale di umani in circolazione), anche i virus rispondono. 

Anche se noi Sapiens tendiamo a correre ai ripari solo a disastro avvenuto, la prevenzione delle future pandemie è diventato un discorso comune, avvertito come una priorità. Qualcuno ha proposto di spendere milioni di dollari per catalogare tutti i virus potenzialmente letali presenti in specie selvatiche (si calcola ce ne sia 1 milione e 600mila ancora ignoti alla scienza), come ha documentato Yale360, il blog della Università di Yale.

Ma non tutti sono d’accordo. Uno studio di grande interesse (cioè ricco di interrogativi ad ampio potenziale) uscito su OPEN BIOLOGY nel settembre 2017, sostiene che “gli sforzi per predire l’emergenza di malattie combinano scale evolutive ed epidemiologiche fondamentalmente differenti”.

Infatti “sappiamo molto sugli schemi e i processi di evoluzione dei virus su scale temporali evolutive così come sono descritte negli alberi filogenetici che descrivono le famiglie di virus, ma questi dati hanno poco potere predittivo per rivelarci i processi micro-evolutivi a breve termine che sono alla base della trasmissione tra specie e della emergenza della malattia”.

In parole più semplici, bisogna capire che cosa succede ad un virus nel breve spazio temporale in cui entra in contatto con un possibile nuovo ospite, giocandosi la sua chance di trovare una nuova casa (come accaduto ad ebola), e quali fattori, nelle caratteristiche di questo ospite e del suo ambiente, possono spianargli la strada permettendogli di stabilirsi con successo (come non è avvenuto con l’influenza aviaria H5N1).

Quello che in definitiva c’è da capire bene per avanzare previsioni sensate, più che avere una lista dei nomi e dei cognomi dei nostri nemici, è, secondo gli autori, la dinamica di interazione tra specie diverse, nel momento fatale in cui si incontrano per la prima volta. Conoscere il livello di biodiversità dei virus ci aiuta poco, mentre sarebbe molto utile approfondire la “fittness evolutiva” dei migliori di loro a contatto con l’uomo. 

In un altro intervento su NATURE alcuni degli autori hanno ribadito la loro posizione, che contiene un consapevolmente alto margine di incertezza per il semplice motivo che non sappiamo ancora un mucchio di cose sui virus: “determinare chi tra più di 1 milione e 600mila virus animali è capace di replicarsi dentro gli esseri umani e di trasmettersi tra loro richiederebbe decenni di lavoro di laboratorio, per coltivare le cellule in vitro e poi negli animali.

Anche nel caso che i ricercatori riuscissero a collegare ogni sequenza di genoma virale a dati sperimentali concreti, ci sono poi ogni sorta di altri fattori che decidono se un virus fa il salto di specie emergendo in una popolazione umana, come ad esempio la distribuzione e la densità degli ospiti. I virus dell’influenza sono circolati nei cavalli sin dagli Cinquanta e nei cani dai primi anni Duemila.

Non sono mai comparsi nelle popolazioni umane, e forse non lo faranno mai, per ragioni sconosciute”. Il fattore-chiave della densità di popolazione dei possibili ospiti riporta il ragionamento sul fronte ecologico: “Allo stato delle cose, il modo più efficace e realistico per combattere l’esplosione di epidemie è monitorare le popolazioni umane nei paesi e nelle località più vulnerabili alle infezioni”. 

Questo ci riporta alla domanda iniziale. Che cosa ci sconvolge tanto nel comportamento del SarsCov2, che non sapevamo in anticipo? Che non avremmo potuto accettare come probabile un bel po’ di tempo fa?

La risposta sta probabilmente nella facilità con cui abbiamo scelto di ignorare chi siamo. La nostra espansione sul Pianeta ci ha posti in una condizione ecologica inedita: con il nostro successo evolutivo siamo entrati in conflitto con i meccanismi ecologici, genetici e biologici fondamentali del Pianeta.

Questo significa trovarsi ormai in una condizione di “disfunzione ecologica permanente”, che espone a rischi originali e sensazionali, ma non imprevedibili. I patogeni emergenti hanno convissuto per migliaia di anni con i loro ospiti abituali, e sono vivi e vegeti da milioni di anni. Pericolosi per noi, ma solo in relazione al tipo di civiltà che abbiamo edificato con convinzione ed orgoglio.

Sono domande esistenziali e filosofiche, non soltanto biologiche.

Il modo disfunzionale con cui ci serviamo delle risorse naturali è permanente, non occasionale o temporaneo. É un punto di rottura storico, che ha ormai definito condizioni ecologiche tossiche o alterate destinate a rafforzarsi se non ad ampliarsi nei prossimi decenni. Per questo è molto azzardato sostenere che, un giorno, usciremo dalla crisi innescata dal SarsCov2. In realtà potremo soltanto attraversare differenti fasi di difficoltà di gestione di una ben più generale crisi biologica, globale e pervasiva. 

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MONDO ED ESTINZIONE

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