La pandemia è una esternalità del capitalismo. E’ cioè un effetto collaterale altamente prevedibile di un certo modo di usare il Pianeta. Questo fatto è talmente conclamato che nessuno ne parla, quasi si avesse paura di ammettere che il sistema ordinato e regolamentato che regola le nostre vite ci sta uccidendo.
Si parla pochissimo dell’origine di questa malattia, dei pipistrelli e dei pangolini (specie in via di estinzione, ricordiamolo) che probabilmente sono i numeri uno nella catena di trasmissione di questa zoonosi. Molti di noi sono cioè molto impegnati a discutere delle conseguenze positive di uno stop forzato ( a Milano, secondo Ispra, i particolati da combustione sono già crollati del 30%), ma dimenticano che i protagonisti occulti dell’emergenza sono le 42 specie animali selvatiche vendute fino a poco tempo fa nei mercati alimentari come quello di Wuhan.
Dietro tutto questo c’è il commercio di specie selvatiche e, quindi, lo svuotamento delle foreste del Pianeta (la empty forest sindrome, su cui i ricercatori lanciano l’allarme dagli anni Ottanta).
Non una parola sul ruolo dello sfruttamento delle faune, in questa crisi globale, è venuta da Stefano Massini, nel suo lungo editoriale a PIAZZA PULITA che ha condensato in 10 punti cosa non sarà più come prima, a emergenza finita. E non una parola si trova, su questo aspetto, neppure nel pur ottimo editoriale di Marco Revelli su IL MANIFESTO: “Il fatto che il provvedimento preso appaia al tempo stesso terribile e ragionevole – un ossimoro – ci dice quanto a fondo in effetti il male sia arrivato a toccarci «nell’osso e nella carne» (per usare le parole che nel libro di Giobbe il satana rivolge a dio), polverizzando d’un colpo ogni nostra consolidata abitudine.
In questa luce anche il virus probabilmente si «umanizzerebbe». Non nel senso di diventare meno feroce. Ma di rivelare quella specifica ferocia tipica di noi «ultimi uomini». Di offrire davvero, come aveva intuito Susan Sontag, la malattia come metafora di una condizione umana e sociale.
In fondo, la sua logica selettivamente darwiniana in base alle chances di sopravvivenza, non è la stessa che almeno un paio di decenni di egemonia neoliberista ci hanno inculcato con il principio di prestazione, dichiarando inutili gli improduttivi (i «vecchi», in primis) e meritevoli i vincenti?”.
Le due questioni, enormi, che abbiamo davanti sono allora due. La tenuta del capitalismo e la sua pertinenza con la crisi ecologica del XXI secolo, la eventualità cioè che il capitalismo non sia fisiologicamente in grado di rispondere ad una emergenza di questa portata, come ha proposto il New York Times nella sua nota editoriale The Interpreter (When efficiency isn’t enough).
E, in seconda battuta, la nostra relazione storica con le faune della Terra, cioè l’atteggiamento che abbiamo tenuto nei confronti delle altre specie negli ultimi 75 anni.
Una pandemia sprigionatasi dalla trasmissione animale-uomo di una zoonosi sconosciuta è una esternalità, nel linguaggio del capitalismo. Cioè un effetto collaterale della produzione di profitto. Anche il cambiamento climatico e le estinzioni sono una esternalità, del resto.
Ma come ha scritto lo scorso 11 marzo Yanis Varoufakis “é impossibile riconoscere il pericolo del cambiamento climatico, impegnarsi a fronteggiarlo e continuare a pensare al capitalismo come a un sistema naturale che è in grado di svoltare rapidamente per diffondere e condividere una prosperità green.
Trump ha ragione: il cambiamento climatico è la Waterloo del capitalismo. Semplicemente non c’è un percorso verosimile verso la stabilizzazione del clima che possa mantenersi coerente con i principali pilastri del capitalismo. Il sistema in cui viviamo, a differenza di quello raccontato dai libri di testo delle facoltà di economia, si trasforma in un meccanismo patologico, in un meccanismo che ha una dinamica interna di riciclo di se stesso.
Gli oligopoli estraggono valore deperibile dagli esseri umani e dalla natura ad una velocità pazzesca, finanziati dalla finanzializzazione che produce debito, e che, a sua volta, alimenta gli oligopoli che accaparrano risorse”.
Dobbiamo riflettere quindi, adesso che il tempo per pensare, comodi sul divano, non manca, che l’ossatura dell’organismo socio-economico in cui riponevamo tutta la nostra fiducia, lo stesso che ha tagliato migliaia di posti letto negli ospedali in nome della spending review, “non accetterà mai i limiti della crescita fisica e i limiti del prelievo necessari per contenere il cambiamento climatico, perché non sopravvivrebbe”.
Questo non è solo il tempo della zoonosi di Wuhan.
Ci troviamo in una condizione planetaria di ciò che gli ecologi chiamano “shift”: un passaggio di livello, nella struttura ecologica e biologica del Pianeta, attraverso un cambiamento brusco, più o meno rapido, che prima altera e poi modifica in modo permanente i biomi.
La velocità con cui avviene questa trasformazione degli ecosistemi (tipo di vegetazione, catene trofiche e ciclo dei nutrienti, composizione delle specie animali presenti) varia, ma è indubbio che l’intero Pianeta sia ormai entrato in una fase di “regime shifts” per azione diretta e combinata dei cambiamenti climatici, della defaunazione, dell’estinzione e dello sfruttamento delle risorse naturali per le attività umane.
Gli shift rapidi sono fuori dal nostro controllo e coinvolgono l’organizzazione fondamentale del fenomeno biologico sul nostro Pianeta. Il data base internazionale REGIMESHIFT.ORG ne conta, già in corso, 28.
Questo è il contesto geografico, storico, ecologico e di conseguenza economico in cui la pandemia si espande, conquistando ogni aspetto della nostra esistenza.
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