Home » Tracce » Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane

Il Musée du Quai Branly e il futuro delle foreste tropicali africane: questo è il posto migliore di Parigi per parlare di cosa accadrà alle primarie rimaste dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo. Nel racconto artistico e culturale delle sue opere, già avvolte da controversie e polemiche sempre più accese da quando Emmanuel Macron commissionò una investigazione speciale sulla loro provenienza alla storica francese Bénédicte Savoy e al filosofo senegalese Felwine Sarr, queste collezioni sono diventate centrali nel dibattito sulla sopravvivenza di alcuni degli ecosistemi più importanti del nostro Pianeta. 

(La facciata esterna del Museo fotografata dal Quai Branly annuncia la Special Exhibition sul Cameroon)

Il fronte alternativo della conservazione (che include i rappresentanti dei cosiddetti popoli indigeni) si batte contro i metodi di misurazione degli habitat ancora selvaggi. Questi ricercatori, e questi attivisti, ritengono infatti che i criteri per definire gli ecosistemi “ricchi di biodiversità” siano di fatto riconducibili ad un concetto errato di integrità ecologica. Ottocentesco e coloniale: una natura svuotata della presenza di qualsivoglia comunità umana. In realtà, anche questa posizione rischia di assumere un carattere prepotentemente ideologico e politico. Negli ultimi 7 anni, infatti, la ricerca scientifica ha rivisto il concetto di “intactness” e di “pristine wilderness”. Non solo includendo nel discorso sul futuro di questi ecosistemi le popolazioni native delle regioni ancora oggi ricchissime di specie vegetali e animali. Ma anche articolando in modo decisamente più dettagliato che in passato la definizione stessa di habitat selvaggio. 

Che cosa si intende, oggi, per natura selvaggia? Ormai lo sappiamo: non basta che un ecosistema sia ricco di un certo numero di specie, e cioè biologicamente diversificato. Bisogna capirne la funzionalità ecologica: sono presenti tutte le tipologie di specie che permettono gli scambi di sostanze nutritive, i flussi di sostanze chimiche di rilevanza biologica e addirittura la riproduzione di numerosi alberi e piante? Vale a dire, questo ecosistema ospita i frugivori, i carnivori e gli onnivori in gruppi abbastanza numerosi da interagire tra loro? Questo ecosistema contiene dunque una diversità filogenetica tra le sue specie, ossia una lunga storia evolutiva di tutte queste specie messe insieme tale da aver definito nel tempo lungo il ruolo di ciascuna, e le une rispetto alle altre?

Ecco quindi che nel 2016 la IUCN ha proposto un set di nuovi criteri per identificare le aree più importanti del mondo pullulanti di biodiversità. L’integrità ecologica è il più importante, perché somma tutte queste caratteristiche in una sola: l’integrità biologica di un ecosistema. Le aree selvagge devono essere abbastanza estese da ospitare la maggior parte dei processi ecologici, compresa la presenza dei grandi predatori altamente mobili (che si spostano cioè su larghe distanze). E dei grandi mammiferi: erbivori di media-grossa taglia e frugivori esperti nel disperdere i semi delle specie di alberi a legno duro, come quelli endemici delle foreste tropicali primarie che stoccano anche più carbonio.

(Il giardino del Musée du Quai Branly con il Café Jacques e la biglietteria)

I luoghi da cui provengono (spesso attraverso la violenza coloniale) le opere d’arte dell’Africa Occidentale e del Bacino del Congo custodite nel Quai Branly non sono più, a oltre un secolo di distanza, quelli che erano al tempo del dominio straniero. Molto spesso, non hanno più queste caratteristiche ecologiche. Moltissime delle specie che avevano un ruolo nel pantheon simbolico, demonologico e religioso delle civiltà indigene sono ormai scomparse, o molto rare. Le figure religiose, gli antenati e i protagonisti della vita spirituale di queste nazioni oggi al Quai Branly sono dunque testimoni silenziosi di estinzioni già avvenute (è il caso del leone occidentale) o ancora in corso. Senza le specie animali che oggi è difficile incontrare o anche ricordare, quelle opere d’arte non sarebbero mai state pensate, nel loro simbolismo e nel loro significato sociale. Nel legame che stringeva uomini, donne, animali e foreste in una unica civiltà

Oggi queste regioni sono infatti drammaticamente defaunizzate. In Africa occidentale i mammiferi sono crollati del 70%. In Cameroon, Costa d’Avorio, Benin, Gabon le specie animali sono sempre più sfoltite, sempre meno numerose. Qui, come in ogni altra parte del mondo, si è sempre cacciato, però la pressione della caccia oggi è oltre il limite di recupero delle specie. Ma, al declinare della complessità e della diversità delle comunità di mammiferi, in queste che sono le foreste – insieme al Congo Basin – tropicali primarie tra le ultime rimaste cominciano a collassare gli interi ecosistemi, perché con gli animali scompaiono le loro funzioni ecologiche. Foreste ricche di animali sono anche una garanzia per la tenuta del sistema climatico terrestre. La defaunazione è quindi una minaccia globale. 

Nonostante le dimensioni, e la scala di impatto, della “crisi del bushmeat” in Africa, nel mondo scientifico cresce il consenso su una valutazione positiva della caccia tradizionale. Anche in Africa. “Quando è parte dell’economia dei popoli indigeni, la caccia è per lo più coerente con un modello fondamentale: definire un perimetro circolare con un raggio di 10-15 chilometri attorno agli insediamenti umani, che viene progressivamente colonizzato da animali che si spostano e arrivano qui dalle aree delle foresta dove non si caccia. Queste aree geografiche escluse dal prelievo animale sono spesso paesaggi sacri”. È una dinamica detta a “sink”, che garantisce una pressione costante e accettabile anche su specie sensibili e minacciate, come i primati. Oggi gli ecologi definiscono queste strategie “natural mechanism of species recovery”. 

Non c’è altro contesto per capire direttamente quanto la crisi di estinzione coincida con l’evaporazione delle condizioni ecologiche storiche che resero possibile l’emergere delle civiltà africane. Ma questa situazione è anche una conseguenza diretta del colonialismo. È stato il colonialismo (dall’impianto del traffico di schiavi neri a partire dalla fine del XVII secolo) a mettere fuori equilibrio l’Africa Occidentale e Tropicale, agganciando l’Africa al disegno capitalistico europeo ed americano. Ecco perché, ora, la defaunazione dell’Africa Occidentale e del Congo Basin è una responsabilità storica globale. 

Per saperne di più sulle collezione etnografiche europee e la crisi di estinzione: MUSEO ANTROPOCENE. Per capire di più sui processi di estinzione in corso: CAPIRE LA SESTA ESTINZIONE.

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MONDO ED ESTINZIONE

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