La storia globale incarna l’estinzione: la porta dentro e attraverso i corpi degli uomini e delle donne, aprendo ad una nuova comprensione del destino delle specie animali, senza i quali quelle storie umane non sarebbero mai state possibili. La storia globale è la storia totale: ricostruisce i modi in cui, durante gli ultimi cinque secoli, ha preso forma la interdipendenza tra uomini ed ecosistemi. Non possiamo capire che cosa è successo agli animali, finché non capiamo che cosa è successo a noi. Ma abbiamo anche bisogno di capire che cosa sia la sesta estinzione. E per farlo servono nuovi significati. I significati sono frammenti del Mondo: fatti, accadimenti, esperienze, opere d’arte, infrastrutture, collisioni, conflitti armati, materiali, colori, tempeste, oggetti. Non dati scientifici nudi e crudi: ma le personificazioni e le scarificazioni di chi (esseri umani, specie animali, habitat) ha visto la propria esistenza completamente modificata e alterata, compromessa e sfregiata dall’uso sistematico dell’estinzione. La storia globale si inserisce qui. È la “verkörperte Geschichte” (storia incarnata) su cui lavora l’artista australiano Daniel Boyd.
Nelle arti visuali la storia globale è diventata una caratteristica dominante. Le arti visuali danno oggi un contributo essenziale alla comprensione di cosa significa vivere nel tempo della sesta estinzione di massa, invadendo (fortunatamente) tutti i campi finora recintati dei saperi ecologici tradizionali. Queste ispirazioni artistiche lavorano sul tempo storico. Un tempo che, essendo planetario, è un tempo lungo, anzi lunghissimo: copre interi secoli. Siamo da molto a stretto contatto con l’estinzione. L’estinzione è diventata storia globale. La cancellazione di interi gruppi di viventi è quindi intrecciata con le storie di migliaia di generazioni di uomini e donne, attraverso le epoche, le rivoluzioni tecniche e tecnologiche, i rivolgimenti politici, le guerre mondiali e le rivoluzioni. La nostra familiarità con la morte programmata è antica.
Berlino è uno dei luoghi in cui fare esperienza di questi significati. Berlino è una delle capitali del pensiero sull’estinzione. Berlino è, insieme a Parigi, la capitale europea della diaspora africana. È uno dei luoghi in cui le contraddizioni mortali del nostro secolo rimangono allo scoperto, senza che nessuno si preoccupi di nasconderle. Sono lì, sotto il sole. Chiunque le può guardare. Provando vergogna o fame di giustizia.
Al GROPIUS BAU (Niederkirchnerstraße, Kreuzberg) è in corso una mostra comprensiva del lavoro di Daniel Boyd, RAINBOW SERPENT (VERSION), che non poteva cadere in momento più propizio. Bussavamo da troppo tempo alla porta del colonialismo, senza neppure sapere perché vi fossimo giunti davanti. Adesso qualcuno è venuto ad aprirci. Eravamo attesi! Siamo nel pieno della disintegrazione degli equilibri ecologici-politici successivi alla primavera del 1945. Non c’è occasione migliore per parlare di quanto coloniale sia la società europea attuale.
Boyd pensa la storia coloniale del suo Paese natale, l’Australia, da vent’anni. “I suoi lavori interrogano le tradizionali prospettive euro-centriche. Rendono visibili i metodi coloniali della ricerca naturalistica e l’annientamento culturale imposto dal colonialismo, che erano profondamente simili. Boyd mette in discussione questa impostazione contrapponendole i legami delle Prime Nazioni con la natura, l’ambiente-habitat e le pratiche di cura e responsabilità di quelle genti. Attraverso una lettura critica dell’arte e della storia dell’immagine occidentali, Boyd pone le sue immagini in contrasto con gli schemi e i codici dell’arte antica, dell’iconografia antropologica e degli effetti che tutto questo ha avuto sulla cultura iconografica più recente. Le scelte di Boyd sono diventate anche una tecnica pittorica, una estetica, che poggia sulla opacità”.
(RAINBOW SERPENT : la prima immagine è Gemälde, Archivkleber und Siebdruck auf Polyester, 41 x 31 cm – Foto: der Künstler und STATION, Melbourne; le successive Daniel Boyd, RAINBOW SERPENT (VERSION), Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto Luca Girardini)
L’opacità è l’ambiguità di fondo delle categorie del pensiero occidentale. Il mondo, con tutti i suoi viventi, viene catalogato e omologato alle strutture economiche che hanno preso il sopravvento su ogni altra alternativa. L’economia diventa bio-politica e la bio-politica si trasforma, nel corso dei secoli, in una impressionante e sempre più potente forma di livellamento, di adeguamento, di accordo. Nel quadro “Sir No Beard” Boyd riassume la circolarità oceanica delle politiche coloniali e delle politiche di estinzione (innestate dentro gli apparati di conoscenza scientifica) nella figura di Joseph Banks. Chi era Banks? “Fu colui che finanziò ed accompagnò il viaggio di Cook sulla HMS Endeavour (1768-1771) da Londra all’Oceania, fino in Australia. Banks era amico di Giorgio III, re di Gran Bretagna e di Irlanda, e quindi utilizzò le sue conoscenze botaniche per consolidare e costruire l’impero britannico. Avviò le piantagioni di tè in India e fece trapiantare l’albero del pane da Tahiti alla Giamaica, perché potesse essere utilizzato come alimento a buon mercato per la popolazione di schiavi dell’isola caraibica”.
Nella storia globale le similitudini tra colonialismo ed estinzione sono evidenti. Nel colonialismo la negazione del passato altrui (come ebbe a dire il britannico Hugh Trevor-Roper, uno dei più eminenti studiosi del Nazismo, “gli africani non hanno storia”) funziona come legittimazione della espropriazione territoriale e dello sterminio fisico. Ma non solo lì: gli ecosistemi sbranati e svuotati fino al midollo, estinti, sono privati del loro passato ecologico (la diversità di specie). La memoria evolutiva degli habitat e delle comunità animali è trattata esattamente come il patrimonio linguistico e culturale delle nazioni native. Ripristinare il diritto a ricordare è quindi essenziale per recuperare dignità. Non c’è giustizia riparativa (“restorative justice”) quando il patrimonio naturalistico e culturale è soggiogato da politiche di oblio e di annientamento.
Questa spinta post-coloniale ha una sostanziale connotazione politica, perché va in contro tendenza rispetto alla predilezione della nostra epoca per ciò che Peter Sloterdijk ha definito la morte del passato: “il rigetto delle nostre memorie oscure e cariche di pathos” nel “Lete del Capitalismo”. Osteggiare e contrastare questa indolenza è un compito che spetta alle periferie del Mondo, a quei gruppi di pensatori (non fa differenza se artisti o scrittori) che conoscono l’isolamento e l’emarginazione come esercizio di potere, di conformismo imposto per via ereditaria, di semplificazione del reale per cementificare lo status quo.
Del resto, escludendo i nessi tra colonialismo ed estinzione la storia ufficiale non può che ridursi ad una storia politicizzata. Distorta, in altre parole, dalle logiche di potere che presiedono alla organizzazione-mondo in cui viviamo oggi. Più è dato per scontato lo status quo, come prodotto perfetto e inevitabile del “progresso” occidentale, maggiore sarà l’impatto della continua procrastinazione nell’affrontare la crisi ecologica globale. Nessuno si preoccupa dell’estinzione, se non sa che estinguere il Pianeta è un elemento costitutivo del benessere sociale. Perciò il colonialismo e l’uso sistematico dell’estinzione si assomigliano anche nelle pratiche di strumentalizzazione della responsabilità storica. I crimini (ecocidio e genocidio) vengono presentati come fattori indipendenti dalla coscienza sociale collettiva, come “deus ex machina” di forze politiche estranee alla cristiana moralità pubblica, come volontà storicamente circoscritte, del cui lascito liberarsi il più in fretta possibile. Nella storia globale incarnata, invece, la responsabilità storica è sulla scena come domanda della coscienza, come voce interna alla cultura occidentale. È, quindi, una partecipazione totale alla vita della comunità, nelle sue eredità culturali e nelle sue prospettive sul futuro.
“Voglio che la gente comprenda che la crisi ambientale è legata a doppio filo alla cultura del nostro mondo, a come ci poniamo gli uni nei confronti degli altri”, ha detto Wendy Nālani E Ikemoto, curatrice della mostra NATURE, CRISIS, CONSEQUENCE, in corso alla Historical Society di New York, che mette a confronto le tele più famose del naturalismo americano (la pittura della wilderness) con le opere degli artisti dimenticati appartenenti alle comunità spazzate via dal Sogno Americano nel Nuovo Mondo. “Non è soltanto un problema di scienza e numeri, è una questione che non possiamo scindere dall’atteggiamento sociale. Perché la crisi ambientale è in definitiva anche una crisi dei diritti civili?”.
La storia globale è corpo di uomini e donne nella vita quotidiana. Anche quando questi uomini e queste donne, a milioni, sono scomparsi negli abissi oceanici e nel buio della economia-mondo. Questo occorre capire per capire la sesta estinzione, la sua normalità, la sua consequenzialità, la sua ovvietà. La nostra conclamata storia europea è fatta delle esistenze di culture escluse dalla idea che pretendiamo di avere di noi stessi.
Le storie globali possono essere utili anche nel de-mitizzare le strutture coloniali. Su questo c’è al GROPIUS BAU una seconda mostra, INDIGO WAVES AND OTHER STORIES: RE-NAVIGATING THE AFRASIAN SEA AND NOTIONS OF DIASPORA, che riunisce i contributi di artisti, cineasti, musicisti, scrittori e scienziati. “Il gruppo descrive i legami tra Africa e Asia e restituisce un significato alle sovrapposizioni prodotte dai trasferimenti e dalla diaspora tra questi due continenti. L’Oceano Indiano è l’orizzonte comune di queste storie”. Sono le “sotto-correnti di un intero organismo acquatico, l’Oceano”, come hanno detto i due curatori, Natasha Ginwala e Bonaventure Ndikung. Ndikung è di origine camerunese e il 16 marzo scorso è stato nominato Direttore della HKW di Berlino, il tempio delle arti visuali contemporanee e della ricerca artistica sull’Antropocene, il primo accademico non europeo a ricoprire una carica così importante per il futuro dell’Europa e dell’Africa.
(Shiraz Bayjoo, Installationsansicht – Foto: Luca Girardini; Rossella Biscotti, Jack Beng-Thi, Sim Chi Yin, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini; Adama Delphine Fawundu, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini; Lavanya Mani, Spectral Objects (aus dem Buch der Wunder), 2019. – Natürliche Farbstoffe und Handstickerei auf Baumwolle, Stoff, Bildende Kunst / Textilmalerei, 183 x 305 cm (Triptychon) -Foto: Anil Rane, courtesy: die Künstlerin und Chemould Prescott; Jasmine Nilani Joseph, Kelani Abass, Installationsansicht, Gropius Bau (2023)- Foto: Luca Girardini)
“Questo progetto riconosce secoli di incremento culturale attraverso gli scambi, che risuonavano da una costa all’altra. Tecnologie maturate nello stomaco della creatività, geografie sacre elaborate dal cosmopolitismo oceanico, lingue ibride e lingue ormai perdute, onde acustiche e musicali finite sulle spiagge, che trovarono cantanti e autori anche loro spiaggiati, finendo uniti in uno spazio fluido”, spiegano Ginwala e Ndikung. Onde in viaggio “dal Gujarat a Mombasa, fino a Sumatra e al Madagascar”.
Le geografie oceaniche indiane sono oggi il contesto di storie di Antropocene. Mauritius, ad esempio, isola tropicale che cominciò la sua storia coloniale nel XVI secolo, contesa tra Olandesi ed Inglesi. Nel 1974 il gheppio delle Mauritius (Falco punctatus) era ridotto a soli 4 esemplari. Un programma intensivo di allevamento in cattività è riuscito a riportare oggi la specie a 350 individui. Ma le nuove popolazioni di gheppio, forse già in inbreeding, quasi estinte dagli uomini e riportate indietro da sforzi umani in un ecosistema profondamente mutato, hanno la loro chance di sopravvivenza grazie ad un albero che all’inizio della loro storia ancestrale a Mauritius non esisteva: un tipo di palma chiamata “albero del viaggiatore” o “ravenala”, originaria del Madagascar e introdotto a Mauritius nel 1751. Il ravenala è una specie invasiva, che compromette in modo irreparabile il ciclo di vita di almeno altre 1000 specie endemiche, ma è diventato un habitat ideale per i gechi dalla coda blu, la preda prediletta dai gheppi. Tutte le specie di alberi con profonde cavità che nei secoli passati ospitavano i gheppi e i gechi sono scomparse, falcidiate dalla deforestazione. Che fare, allora? A quale specie dare la priorità? Ogni biografia di uomini e animali è intrisa di storicità coloniali e antropoceniche.
INDIGO WAVES si sposta molto lontano rispetto alle comuni prospettive sulla traversata atlantica, il passaggio di mezzo, la triangolazione dall’Africa Occidentale ai Caraibi, “per allargare lo sguardo e incrociare anche le traiettorie di coloro che si misero in mare per amore, per lavoro, perché erano dei pellegrini o sognavano di conquistare qualcosa”.
Ma “navigare a ritroso significa anche cartografare di nuovo, e cioè riflettere sui limiti e le falsificazioni dell’avventura cartografica come epistemologia. Ci sono da disegnare nuove mappe che non facciano più affidamento su dinamiche di potere, il cui scopo finale era sempre lo sfruttamento di massa e atrocità varie. Nuove mappe vuol dire creare relazioni in più direzioni, strutture ricavate da nuovi modelli di affinità piuttosto che inimicizia piantate nel terreno dall’immaginario coloniale”.
Anche noi Europei dobbiamo essere stanchi dei vecchi racconti, e delle mappe consunte e stropicciate. Possiamo progettarne di completamente diverse, non importa quanto traballanti e imprecise. Si può anche navigare alla deriva, per qualche giorno. Anche la deriva ha qualcosa da insegnare. Ad esempio, come prendere commiato dal pregiudizio più atroce inscritto nelle logiche di estinzione ormai assorbite insieme al latte materno, nella vecchia Europa: non c’è un altro Mondo possibile !
Capire il nostro secolo significa capire che cosa è la sesta estinzione di massa.
(Foto in copetina, credits: (Jasmine Nilani Joseph, Kelani Abass, Installationsansicht, Gropius Bau (2023) – Foto: Luca Girardini)
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