Il commercio legale di specie selvatiche provoca una emorragia lenta e costante sulle specie che hanno un valore di mercato. Le popolazioni di animali selvatici crollano in media del 62%, che arriva al 76% su scala nazionale nei Paesi in cui il wildlife trade è una attività economica consolidata. La conseguenza più evidente è che il wildlife trade è un acceleratore del rischio di estinzione, su cui tuttavia c’è una impressionante carenza di dati disponibili per ciascuna delle specie coinvolte.
Questi i ragionamenti e i dati appena pubblicati su NATURE Ecology & Evolution (“Impacts of wildlife trade on terrestrial biodiversity”) in uno studio che ha preso in esame la letteratura recente e i report della ong TRAFFIC (specialista dell’Asia) per fare il punto sul volume del commercio di mammiferi, uccelli e anfibi, in rampante espansione, che vale 20 miliardi di dollari all’anno.
Va aggiunto che la ricerca non comprende la carne selvatica (bushmeat) cacciata soltanto per la sussistenza, e cioè probabilmente 150 milioni di persone che abitano in comunità rurali nel mondo. Sono stati invece analizzati gli studi che hanno quantificato il bushmeat come pratica finalizzata al profitto, cioè a rivendere la carne per ricavarne denaro.
Quel che emerge, tuttavia, è la carenza di informazioni necessarie a capire come e se il wildlife trade possa essere sostenibile sui prossimi decenni, in un Pianeta in rapido cambiamento: “un assessment globale, quantitativo degli impatti del commercio su singole specie e, quindi, la prevalenza e la forza di effetti positivi e negativi è dolorosamente mancante”.
Nel complesso, il declino delle specie selvatiche commercializzate è “del 61.6%, con specie ormai estirpate a livello locale nel 16.4% dei casi”. Benché i mammiferi siano la maggior parte delle specie (il 76% di 145 specie) prese in considerazione, inoltre, “il declino attraversa tutti gli ordini”. E riguarda anche le aree protette.
Determinante per il destino di una specie di interesse commerciale è la scala spaziale, ossia le ore di viaggio necessarie per catturare un animale e tornare in un contesto urbano che ne permetta la vendita. “Il declino di una specie è tanto più grande quanto più è breve il tragitto verso un centro abitato con più di 5000 abitanti”. Di contro, quando il viaggio supera le 100 ore crolla il rischio che un animale finisca nella rete dei cacciatori. Spedizioni costose e su grandi distanze scoraggiano il consumo locale e i piccoli imprenditori.
Ma la scala spaziale dice anche una altra cosa, che le regioni selvagge e remote, il mantenimento dei loro confini, sono un fattore di protezione indispensabile per le faune, che però è sempre più in bilico a causa dell’espansione di infrastrutture e ferrovie: “gli impatti del commercio su scale internazionale scendono rapidamente con l’aumentare della distanza, fino a raggiungere il rischio zero a 5 ore dal primo insediamento”.
Ecco perché il wildlife trade è un accelerate di estinzione. Il commercio enfatizza gli effetti collaterali impliciti in molte situazioni ecologiche critiche già consolidate, che però coinvolgono la vita sociale ed economica delle comunità locali.
In Asia, la China’s Belt and Road Initiative (BRI), che collegherà il 62% della popolazione mondiale, potrebbe riscrivere questo scenario molto in fretta: “questa espansione è una minaccia riconosciuta alla biodiversità, perché darà accesso, e quindi potenzialmente ne alimenterà la domanda, a specie che hanno un alto valore per la medicina tradizionale, inclusi l’orso bruno (Ursus arctos) e il leopardo delle nevi (Panthera uncia).
Gli autori fanno riferimento ad un paper uscito nel 2019 sempre su NATURE (“Belt and Road Initiative may create new supplies for illegal wildlife trade in large carnivores”): “Il progetto della BRI e il suo tributario meridionale, cioè il Corridoio Economico Cina-Pakistan, attraversano habitat fondamentali per i grandi carnivori, che sono specie di alto valore di mercato in Cina e nel Sud Est Asia”.
Il rischio non è solo che il traffico illegale prosperi meglio e con maggiore successo, ma anche che “una maggiore domanda possa incoraggiare una transizione da un mercato governato dalla disponibilità di approvvigionamento (supply-driven) ad una domanda regolata dal mercato (market driven), attraverso una conversione del bracconaggio opportunistico in crimine organizzato”.
Il mercato cinese ha già assorbito, grazie alla forza centripeta della medicina tradizionale, i grandi felini: il giaguaro è l’ultimo arrivato nel traffico di ossa di leoni africani e leopardi e tigri. Alle sottospecie di leopardi asiatici potrebbe ora aggiungersi il Panthera pardus saxicolor, ossia il rarissimo leopardo persiano.
La questione riguarda evidentemente l’intera biodiversità del Pianeta e la fattibilità di un suo sfruttamento economico entro limiti certi e attendibili. “Non abbiamo usato nel modo corrente i termini sostenibile e insostenibile nel nostro lavoro, perché questo implica l’avere a disposizione una comprensione di come un tale tipo di impatto ha effetti sulle specie nel corso del tempo.
E, invece, proprio questa è la più grande preoccupazione riguardo al commercio, non abbiamo abbastanza evidenze per sapere con esattezza se un tale prelievo sia sostenibile”, spiega Oscar Morton, tra gli autori dello studio.
“Ci mancano dati su quanti individui di ciascuna specie vengono catturati ogni anno, da quali popolazioni, e non sappiano che cosa accade a quelle popolazioni sui tempi lunghi. Non credo si possa definire l’uso sostenibile un ossimoro, credo piuttosto che ci siano poche prove scientifiche che mostrino che è un commercio sostenibile. Ma dobbiamo comunque accettare che l’assenza di prove è in sé anch’essa una prova”.
La scala del problema chiama in causa anche l’attuale cornice giuridica all’interno della quale queste specie vengono catturate e vendute legalmente. E cioè CITES.
“CITES prende in considerazione soltanto una porzione del commercio e regola soltanto il commercio legale, ossia il commercio internazionale legale delle specie listate. Di conseguenza, rimane scoperta una vasta area fuori del suo mandato, che corrisponde al commercio illegale, il commercio all’interno di un Paese o il commercio di specie che non sono listate”.
“Concordo sul fatto che CITES è il miglior strumento attualmente disponibile per il commercio internazionale legale, ma di certo non è perfetto e non riesce a comprendere tutto il commercio. Ancora di più rimane da tre per gestire i fattori che regolano la domanda di prodotti derivati da animali selvatici a scopo non alimentare e per capire se la domanda possa essere ridotta in modo efficace”.
È chiaro che il commercio muove sentimenti profondi nell’opinione pubblica occidentale, soprattutto ora, a causa dell’epidemia da SarsCov2. Ma, secondo Morton, bisogna essere molto cauti nel non favorire una risposta emotiva priva di solido fondamento scientifico: “Vediamo in giro ritratti davvero pessimi del commercio, veicolati da organizzazioni caritatevoli (charities) e qualche volta anche dai media, che tentano di influenzare la politica senza però una robusta base scientifica”.
“Il discorso principale tra questo tipo di impostazioni è di sicuro il biasimo che ha investito la pandemia e gli appelli dell’anno scorso per mettere al bando gli wet market e l’interno commercio della carne in certi Paesi. Questi appelli ignorano che milioni di persone dipendono dal commercio di carne per sbarcare il lunario. Ma ignorano anche la solidità delle prove scientifiche che ci dicono che un divieto di questo genere creerebbe molto probabilmente un mercato illegale ancora peggio regolato”.
PER APPROFONDIRE: WILDLIFE ECONOMY – Dove e perché mangiamo specie in via di estinzione.
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