A dispetto delle stupefacenti immagini di animali che si lanciano in solitarie esplorazioni delle nostre città deserte, cresce il numero di studi scientifici a conferma del fatto che il nostro Pianeta è ormai entrato in una fase di trasformazione irreversibile. Il termine inglese è molto appropriato, perché spiega meglio di cosa parliamo: self-transformative. Gli effetti retroattivi e i meccanismi di feedback innescati dalle alterazioni sistemiche a biosfera ed atmosfera funzionano, per così dire, in autonomia. Ci muoviamo insomma su uno scenario che mostra già importanti indicatori di cambiamenti su scala biologica e climatica epocali. Ovunque nel mondo.
Un team di ricercatori della UCL di Londra ha lavorato sui depositi fossili di foraminiferi( i protozoi che formano il plancton e che fluttuano nelle acque oceaniche e quelli che vivono invece a stretto contatto con la superficie dei fondali), microrganismi molto sensibili alle variazioni delle temperature, a sud dell’Islanda. L’obiettivo era quindi capire, attraverso questi fossili, come è cambiato l’Atlantico nord orientale nel corso dei millenni.
I risultati sono impressionanti: “siamo riusciti a fornire la prima prova che nel ventesimo secolo la circolazione delle acque di superficie nell’oceano nell’Atlantico nord orientale è stata anomala rispetto agli ultimi 10mila anni. Questo cambiamento ha causato una sostituzione delle acque sub-polari fredde con acque sub-tropicali più calde, con conseguenze dirette sulla distribuzione dei microrganismi marini”.
Il brusco cambio di passo è registrato nei foraminiferi ormai fossili del secolo scorso.
L’impronunciabile Turborotalita quinqueloba, ad esempio, una specie appartenente al plancton che predilige le acque fredde, è stata la protagonista dei sedimenti oceanici di foraminiferi durante tutto l’Olocene, occupando fino al 40% dello spazio disponibile. Ma a partire da circa il 1750 la Turborotalita è crollata. E dall’inizio del Novecento hanno cominciato a stare sempre peggio anche i foraminiferi bentonici, quelli cioè che vivono direttamente sulla superficie dei fondali oceanici in questa porzioni di Atlantico.
“I trend del ventesimo secolo superano di gran lunga il tasso di variabilità osservato nelle registrazioni fossili di questo sito negli ultimi 10mila anni”, concludono gli autori, “la struttura spaziale di questi cambiamenti e ulteriori ricostruzioni della circolazione atlantica sublocare (la cosiddetta North Atlantic Sub Polar Gyre) suggeriscono un passaggio di livello nelle dinamiche oceaniche della regione del Nord Atlantico sull’intero bacino, avvenuto nel ventesimo secolo. Benché rimangano delle incertezze, noi suggeriamo che l’accresciuto ingresso di acqua dolce nella circolazione nord atlantica sia stata la probabile causa di questa alterazione”.
I cambiamenti climatici agiscono come pressione selettiva sui gruppi di specie che occupano un certo ecosistema, ma lo fanno su scala differente rispetto alle normali pressioni ambientali. Quello che non è ancora chiaro è se eventi come enormi siccità, inondazioni e tempeste agiscano su una selezione di breve periodo, immediata, degli individui di una specie o se invece possano modificare interi gruppi di specie tra loro affini su spazi temporali e geografici estesi.
Questo campo di indagine incrocia la climatologia con la biologia evolutiva e quindi con un altro processo ecologico già in corso, di cui intravediamo soltanto i contorni: lo spostamento dei biomi verso latitudini più elevate a causa dell’innalzarsi delle temperature.
Un improvviso e devastante evento climatico può agire all’interno di una singola popolazione delle stessa specie. È quanto emerge da uno studio appena pubblicato sia su NATURE che sulla PNAS, che ha preso in considerazione gli uragani dell’area caraibica.
Secondo gli autori, gli uragani potrebbero essere un fattore di modificazione dei tratti fenotipici di una popolazione animale perché funzionano rapidamente come agente di selezione naturale. Lo studio, anche questo pionieristico, è stato condotto nel minuscolo arcipelago caraibico di Turks and Caicos, tra le Bahamas (a nord) e Haiti (a sud), su una specie comune di lucertola locale, la Anolis scriptus.
Queste isole sono state colpite di recente, nel 2017, da due uragani, Maria e Irma. Nelle sei settimane successive a questi shock estremi, i ricercatori hanno verificato che “le popolazioni di lucertole sopravvissute differivano nella misura del corpo, nella lunghezza relativa delle zampe e nella grandezza dei polpastrelli delle dita rispetto a quelle attive prima della tempesta”. I polpastrelli servono a queste lucertole per arrampicarsi e per tenersi alle rocce sotto lo sferzare dei venti.
La conclusione è che “gli uragani possono indurre un cambiamento fenotipico in una popolazione perché implicano una selezione naturale. Nei prossimi decenni, mentre gli eventi climatici estremi diventeranno più intensi e frequenti, la nostra comprensione di queste dinamiche evolutive deve essere integrata negli effetti di episodi potenzialmente capaci di una severa azione selettiva”.
Scrivono sulla PNAS: “Abbiamo dimostrato un effetto trans-generazionale di selezione estrema sulla grandezza dei polpastrelli delle zampe per 2 popolazioni nel 2017. Data la brevità degli effetti imposti dagli uragani, ci siamo chiesti se le popolazioni e le specie che subivano più spesso gli uragani avessero polpastrelli più grandi. Abbiamo usato 70 anni di registrazioni storiche sugli uragani dimostrando che la misura dei polpastrelli è positivamente correlata alla attività degli uragani sia per le 12 popolazioni insulari di Anolis scriptus che per le 188 specie di Anolis nei Neo Tropici. Gli eventi climatici estremi si stanno intensificando e potrebbero essere dei fattori sottostimati di schemi bio-geografici di ampio raggio che coinvolgono la biodiversità”.
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