Che cosa è davvero la wilderness? La wilderness è un ecosistema che contiene ancora il potenziale evolutivo ed è quindi ricca di comunità animali altamente diversificate. Non è una regione selvaggia perché disabitata, ma perché contiene la verità più remota e profonda della vita biologica, dei suoi meccanismi fondamentali racchiusi negli alberi, nel suolo, in ogni animali e nelle civiltà indigene. Questo è uno degli interrogativi più radicali che porterò nel Kgalagadi. Quando si parla di conservazione prestiamo poca attenzione al lessico che usiamo per descrivere le terre selvagge. Ma in Antropocene, ossia nel XXI secolo, nessuna parola è innocente.
Ogni sostantivo e verbo delle nostre lingue europee sopporta il peso della nostra storia. Il linguaggio non è senza colpa. Contiene invece i progetti e i crimini di una civiltà. Al principio degli anni ’50, Martin Heidegger avvertì che “per lo più e troppo spesso ciò che è stato detto noi lo incontriamo solo come il passato di un parlare”.
Heidegger intendeva che siamo abituati ad usare parole che hanno un lungo passato di cui ci siamo dimenticati. Questo ci conduce a parlare con poca esattezza, e con molta imprecisione. Un lessico poco consapevole non riesce, però, a conoscere davvero ciò che descrive.
La wilderness è una di queste parole abusate, di cui abbiamo smarrito la profondità storica e ontologica.
Tempo e spazio
Anche il Kgalagadi Transfrontier Park è una wilderness. In quanto habitat ancora selvaggio, e parco transfrontaliero con il Kalahari meridionale in Botswana, il Kgalagadi custodisce ancora due dimensioni in rapida rarefazione, e cioè lo spazio e il tempo.
Lo spazio è l’estensione del parco nazionale (37mila Kmq) che consente alle specie migratorie, soprattutto gli erbivori, di spostarsi liberamente, e ai grossi predatori di vertice, come i leoni, di andare in dispersione. Cioè di fondare nuovi pride geograficamente lontani dalla famiglia di origine.
Il tempo è l’orologio dell’evoluzione, il crono a disposizione degli spazi selvaggi perché l’algoritmo dell’evoluzione (il cocktail di fattori genetici ed ambientali che plasmano l’aspetto e le caratteristiche adattative di una specie) faccia il suo corso.
Perciò tempo e spazio sono due fattori interdipendenti e interconnessi, che nelle megalopoli sovraffollate di esseri umani dell’Antropocene tendono a volatilizzarsi sotto gli effetti, psicologicamente massacranti, della concentrazione di persone, cose, macchine e rumori artificiali.
Tutte le domande che contiene la wilderness appartengono al nostro passato, ma anche al nostro presente.
Nei grandi parchi transfrontalieri, come il Kgalagadi, il tempo è geografia, perché è scritto dentro il paesaggio. L’ecosistema è plasmato dallo scorrere del tempo, che trascorrendo nel corso delle ere geologiche diventa habitat e determina aspetto ed ecologia delle faune che vi abitano.
La filogeografia del leone africano
Il tempo, ormai, lavora contro il leone nel continente africano, perché è diventato un tempo esclusivamente umano. Nel suo ultimo secolo di storia il leone africano ha perso il 75% del suo range originario.
Sapevamo che cosa questo avrebbe significato sin dai primi anni Duemila. Eppure, soltanto oggi i numeri ufficiali approvati da Panthera Cats suonano per quello che sono, e cioè impietosi.
Non è collassato soltanto lo spazio, inteso in senso quantitativo, della specie, ma anche parte del suo passato evolutivo. Ossia il patrimonio genetico che nel corso di decine di migliaia di anni ha reso il leone ciò che è oggi.
In un posto come il Kgalagadi è quindi ancora possibile parlare in modo appropriato del leone africano, di ciò che è, di ciò che è per noi esseri umani e di ciò che rappresenta. Qui è ancora legittimo parlare della filogeografia del leone africano.
Esplorare il concetto di filogeografia (phylogeography), e cioè il modo in cui, nello topografia del continente africano, erano disposte le diverse popolazioni di leoni, e i loro diversi adattamenti, è indispensabile per capire che cosa è la wilderness.
I sistemi a savana
Sono cifre che da sole dovrebbero indurre una riflessione sulla “geografia reale” del leone.
Oggi, al principio del XXI secolo, dedurre dalla realtà al suolo una mappa di cosa è stato il leone è cruciale per il futuro: “comprendere i processi filo-geografici che coinvolgono le specie in pericolo è determinante per interpretare la loro storia evolutiva e progettare strategie di conservazione.
Ma perché studiare la differenziazione geografica (filo-geografia, dal latino phylum, specie, razza ) del leone?
La storia della specie, ricostruita tanto sulle fonti storiche quanto sul materiale genetico – compresi campioni raccolti nei reperti dei musei di storia naturale di Africa ed Europa – ci mostra a che punto siamo nella parabola di questa stessa specie. Cosa è già perduto per sempre, quanto è rimasto e infine quali possibilità ha di sopravvivere ciò che è rimasto.
Dal confronto parallelo con le testimonianze storiche (diari, taccuini, compendi tassonomici) e con le rilevazioni genetiche possiamo mettere a fuoco la verità sullo status dei leoni e il posto che le popolazioni odierne hanno nel quadro economico del turismo come strategia di conservazione.
Homo sapiens è un rifugiato
Karl Jaspers sosteneva che l’uomo contemporaneo è bodenlos, non ha più una terra che lo ospiti, nonostante abbia conquistato tutto il Pianeta. Homo sapiens ha infatti trasformato lo spazio in una risorsa, mettendo in secondo piano, cioè al di fuori da schemi di sfruttamento orientati al profitto, lo spazio come fonte (source).
Lo spazio come “fonte” è il contesto ecologico in cui si muovono il pensiero e l’immaginazione degli uomini. Quando lo spazio è una fonte, non c’è contrapposizione tra uomini e animali. C’è, invece, collaborazione, compartecipazione e convivenza. Abbiamo vissuto così per 250mila anni, noi Sapiens.
Heidegger pensa qualcosa di simile a Jaspers. Per lui l’uomo della seconda metà del Novecento è heimatlos, privo di una patria. Un uomo senza patria vive una condizione esistenziale e psicologica da rifugiato. Non trova più “corrispondenza e riscontro” nel mondo. Usa il mondo, ma non lo conosce e se sente alienato.
Gli habitat abitati dalle altre specie sono lo spazio perduto alla civiltà. Lo spazio da cui Homo sapiens si è consapevolmente tirato fuori: sono contesto ecologico, ma anche contesto esistenziale.
Lo spazio geografico, il nostro Pianeta, non è quindi solo una contrada dove organizzare le nostre attività economiche. Lo spazio è una questione esistenziale per Homo sapiens.
Per questo Jaspers definiva ciò che ci sta attorno, il nostro ambiente e il nostro essere sul Pianeta, con la parola Umgreifende, che in tedesco significa “ciò che raccoglie attorno”.
Anche la coscienza umana è Umgreifende: “l’Umgreifende che noi siamo (das Umgreifende das wir selbst sind) dischiuso a quell’Umgreifende che è l’essere stesso (das Umgreifende das Sein selbst ist)”, spiega Umberto Galimberti.
Per Jaspers, l’essere umano si trova in un ambiente che accoglie ed avvolge, ma anche che si mostra (che esiste) a prescindere da ogni progetto di utilizzo. Ogni uomo è dunque immerso in uno spazio che è orizzonte, paesaggio, geografia.
Una consapevolezza piena e appagante dell’esistenza non può dunque accadere in mancanza del sentimento di appartenenza spaziale ad un luogo (Ort) che definisce la posizione dell’essere umano rispetto alla vita, intesa come evento biologico e psichico.
La wilderness come luogo del possibile
Anche nel pensiero di Heidegger la riflessione sull’alienazione moderna della civiltà umana è legata ad un linguaggio spaziale. Lo scenario costante da cui la storia prende avvio è per Heidegger la verità dell’essere.
La storia umana su questo Pianeta è Geschichte, ossia ciò che è “mandato” (dal verbo schicken, mandare, da cui anche Schicksal e Geschickt, destino ) e quindi “venuto ad essere”, non soltanto perché è accaduto, ma anche perché è stato possibile.
Per Heidegger c’è non solo l’evidenza di ciò che è già accaduto, ma anche la possibilità che dall’orizzonte amplissimo della vita qualcosa possa accadere (es gibt, la forma impersonale per dire “c’è” che letteralmente però suona “si dà”).
La imprevedibilità dell’accadere, di ogni accadimento biologico, si fonde così con la comprensione filosofica della nostra realtà. La storia del nostro Pianeta non è solo storia della specie Homo sapiens, ma soprattutto storia della evoluzione delle specie in sincrono con le trasformazioni geologiche del Pianeta stesso.
L’evoluzione come fondamento primo dell’evento biologico è la verità dell’essere, è es gibt. E sappiamo bene, da Darwin in avanti, come l’evento biologico su larga scala dipenda dal caso e cioè dalla non deterministica contingenza della mutazione.
Nel linguaggio heideggeriano l’evoluzione biologica e das Verborgene: ciò che in quanto ancora non accaduto potrebbe anche non accadere e sussiste come possibilità. Nei confronti della nostra specie, Homo sapiens, il Pianeta è nella posizione eterna del es gibt.
La wilderness come rischio
Per questo motivo, la verità dell’essere (e cioè della vita) è per Heidegger soprattutto rischio.
“Ogni ente è arrischiato. L’essere è il puro semplice rischio. Esso arrischia noi: gli uomini. Arrischia i viventi. L’ente è, in quanto è di volta in volta affidato al rischio. Ma l’ente rimane rischiato nell’essere, cioè in un rischio.
Di conseguenza l’ente è esso stesso arrischiante, cioè rimesso al rischio. L’ente è in quanto va nel rischio in cui è lasciato andare. L’essere dell’ente è il rischio”.
Nella wilderness questo rischio si dà. Si mostra come rischio della vita nella possibilità del suo accadere. Secondo processi evolutivi non pianificati dalla civiltà antropocenica. La wilderness è quindi spazio per la vita animale e vegetale (physis, come la chiamavano i Greci: ciò che emerge alla vita). Ed è spazio per il pensiero umano libero dalle logiche produttive della civiltà tecnologica.
Qualunque rischio esistenziale è infatti sempre libertà e per questo anche Jaspers può affermare che l’esistenza è tale solo in quanto “esistenza possibile (moegliche Existenz).
Sotto il sole aspro della savana c’è la wilderness come physis, come accadere biologico. Un habitat ecologicamente intatti non fa che rispecchiare le condizioni basiche della vita sul Pianeta.
Il fatto che invece consideriamo gli habitat selvaggi qualcosa di straordinario dipende dalla alienazione contemporanea dall’evento biologico.
Scrive Umberto Galimberti: “Rompendo ogni confine Homo sapiens ha fondato la polis, ma fondando la polis è divenuto apolis, solitario, senza frontiere”.
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