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Il Covid tempesta perfetta per l’Africa

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L’Africa è a un bivio. La crisi globale innescata dalla pandemia ha portato allo scoperto il lento declino della biodiversità del continente e potrebbe rivelarsi un fattore di amplificazione esponenziale per le minacce di matrice umana alla più spettacolare wildlife rimasta sulla Terra. Il covid è una tempesta perfetta per l’Africa. Ossia: come finanziare la conservazione in Africa senza il turismo di lusso?

Questa la denuncia di uno studio di eccezionale importanza, ed estremamente accurato, uscito a metà agosto su NATURE Ecology & Evolution, Conserving Africa’s wildlife and wildlands through the Covid-19 crisis and beyond, firmato da un team di ricercatori di punta, tutti esperti di spazi selvaggi e di megafauna africana.

Lo studio analizza i due principali fattori di “collasso interno” della conservazione così come finora è stata disegnata e pianificata sul continente: l’enorme dipendenza dal turismo internazionale, che genera proventi di 29 miliardi di dollari all’anno e ha finora funzionato come generatore di posti di lavoro ben qualificati e come supporto alle economie locali; e le donazioni internazionali, provenienti da una costellazione di soggetti, come organizzazioni non governative, filantropi, fondazioni, i quali, tutti insieme, arrivano a coprire il 32% dei costi delle aree protette, fino addirittura al 90% in alcuni Paesi.

Entrambe queste fonti di sostentamento si sono prosciugate a causa del freno sull’economia globale dovuto all’emergenza sanitaria. All’incirca il 90% dei tour operator ha messo in conto una contrazione di affari del 75%. Le donazioni saranno al minimo per almeno i prossimi due anni. Durante la crisi del 2008, riporta lo studio, le transizioni di questo comparto crollarono del 40%. Forse per il 2020 e il 2021 andrà anche peggio. È quindi indispensabile rivedere e riformulare i flussi di finanziamento che garantiscono le aree protette, e inventarne di nuovi, per rendere il “sistema della conservazione” più autonomo. 

La conservazione è una questione globale

La conservazione della biodiversità africana è una questione globale, e non periferica o secondaria. Allo stato attuale delle cose, il futuro appare quanto mai incerto, e fosco, considerato che “l’Africa ha 2000 Key Biodiversity Areas e supporta le popolazioni di grandi mammiferi più diversificate e abbondanti del mondo”.

E infatti questo studio contiene alcune riflessioni di svolta rispetto al modo tradizionale in cui, anche nel contesto scientifico, viene analizzata l’importanza dell’Africa negli scenari ecologici a venire del nostro Pianeta. Gli autori affermano che “la wildlife africana ha anche un considerevole valore esistenziale, il valore che le persone ricavano dal semplice sapere che essa esiste”.

Le società civili delle nazioni più ricche dovrebbero sentirsi coinvolte dal destino della wilderness africana anche per un altro motivo: gli habitat del continente forniscono “servizi ecosistemici” di cui tutti beneficiamo: “il mondo intero beneficia dei servizi eco-sistemici forniti dall’Africa attraverso il sequestro di carbonio; gli ecosistemi africani giocano un ruolo critico nel salvaguardare la salute mentale e fisica dell’umanità”.

In gioco non c’è quindi solo una svolta nella struttura internazionale che regge la conservazione (finanziamenti, regolamentazioni globali come gli accordi CITES, collaborazioni tra Ngo, Università e istituti di ricerca e progetti sul campo, turismo, donazioni da privati), ma, forse con ancora maggiore urgenza, una svolta morale da parte dell’opinione pubblica nelle nazioni più benestanti. Una svolta morale che diventi pressione politica. 

Il Covid tempesta perfetta in Africa occidentale

Alcuni degli esempi di questa “tempesta perfetta” sono particolarmente preoccupanti. L’Arli National Park in Burkina Faso, che è transfrontaliero con il Benin e il Niger, l’ultima roccaforte degli ultimi leoni dell’Africa occidentale, ha dovuto sospendere tutte le attività finanziate attraverso un grant di 1 milione e mezzo di euro pagato dall’Unione Europea.

È probabile che alla fine del periodo di investimento previsto dal piano di finanziamento il Parco dovrà restituire tutti i fondi. In Sudafrica, il SanParks, l’entità para-statale che è incaricata di gestire tutti i parchi nazionali del Paese e può cercare finanziamenti in modo indipendente, dipende quasi esclusivamente dal turismo (l’84% del budget nel 2018) e questo significa, adesso, casse quasi vuote.

La Zimbabwe Parks and Wildlife Management Autorithy, nel secondo quadrimestre di quest’anno, ha subito un taglio del 50% dei fondi (3.8 miliardi di dollari), a causa del crollo del turismo. Anche la Ol Pejeta Conservancy in Kenya, che ospita gli ultimi rinoceronti bianchi e gode di una certa popolarità mediatica, è sotto scacco: meno 1.8 miliardi di dollari.

In Namibia, per molti motivi un Eden per la wildlife e modello di successo, le Communal Conservancies, ossia le terre di proprietà comune convertite alla protezione delle fauna e talvolta alla caccia da trofeo, hanno subito una contrazione di profitti da turismo di 4.5 milioni di dollari. La tempesta rischia di rallentare e compromettere anche un trend efficace di collaborazione pubblico/privato ( e cioè tra Ngo e le autorità governative preposte alla gestione dei parchi ) che negli anni ha ottenuto notevoli risultati nel valorizzare il “potenziale ecologico” delle aree protette, e, soprattutto, di fondarne di nuove. 

Il ruolo delle ONG

Secondo una ricerca (Models for the collaborative management of Africa’s protected areas) uscita nel 2018 su BIOLOGICAL CONSERVATION, la proliferazione, in tutto il continente, di partnership tra Ngo e governi “rispecchia un trend globale verso una ridotta dipendenza del finanziamento e della gestione statale sulle aree protette a favore invece di una crescente partecipazione di stakeholder nella amministrazione di queste stesse aree, in aggiunta ai cambiamenti giuridici connessi”.

Il ruolo delle Ngo private è quindi strategico per rafforzare i territori sotto protezione. L’interruzione del flusso di denaro dalle organizzazioni non governative ha ripercussioni dirette sul potenziale di protezione della geografia selvaggia, e delle faune selvagge. Gli autori hanno analizzato 43 aree protette in 16 nazioni africane, individuando tre modelli pubblico/privato: “la delega totale di gestione (management) dallo Stato ad una Ngo; la co-gestione al 50%; il supporto finanziario e tecnico fornito”.

La delega completa è un modello che sta funzionando in un certo numero di aree protette in Repubblica Centro Africana (CAR), Repubblica Democratica del Congo (DRC), Congo Brazzaville e Chad, Paesi poco conosciuti tra i clienti dei grandi safari di lusso, ma che hanno ancora spettacolari risorse faunistiche e paesaggistiche; ma questo modello è attivo anche in Zambia, Madagascar e Malawi. Il parco nazionale Zakouma in Chad è uno di questi esempi positivi (reintroduzione della giraffa di Kordofan, una spe

cie ormai criticamente minacciata) e lo è pure Akagera, in Rwanda, al centro di eccezionali sforzi di ripopolamento faunistico dopo il genocidio del 1994. Quando c’è co-gestione, le Ngo riescono a portare sul campo un ottimo know-how: funziona così il Virunga National Park. Ma il modello in assoluto più diffuso è l’importazione di competenze finanziarie e tecnico scientifiche. All’interno di questo schema, il personale esterno mantiene un cruciale ruolo di “advisory” in parchi di enorme importanza, e fama, come il Kafue (Zambia), il Ruaha (Tanzania) e la W-Arly. Il supporto tecnico è ormai strutturale allo Tsavo est (Kenya) e al Luangwa (Zambia). 

Quanto costa la conservazione in Africa?

Ma di quanti soldi stiamo parlando? Queste collaborazioni consentono di coprire costi che possono arrivare a quasi 3000 dollari al chilometro quadrato. In una Lettera pubblicata nel 2013 su ECOLOGY LETTERS (Conserving large carnivores: dollars and fence), le cifre discusse necessarie a garantire gli home range dei grandi predatori africani come i leoni e i leopardi sono da capogiro.

Le enormi aree protette transfrontaliere senza recinzioni hanno popolazioni di leoni che tendono a non raggiungere la loro “carrying capacity”, e cioè il limite di individui che un habitat può sostenere (numero di prede disponibili, opportunità riproduttive): queste porzioni di Africa richiedono qualcosa come 2000 dollari americani al chilometro quadrato. Il budget scende a 500 dollari al chilometro quadrato nelle riserve chiuse da recinzioni (fenced), i cui leoni sono costantemente sulla soglia della capacità di carico.

Nelle game reserve che consentono la caccia da trofeo ci si assesta, sempre secondo queste stime del 2013, attorno ai 1000 dollari a chilometro quadrato. Secondo una ricerca più recente pubblicata dalla PNAS a ottobre del 2018 ( More than $1 billion needed annually to secure Africa’s protected areas with lions ), la presenza del leone può funzionare come un indicatore (proxy) per capire lo stato di salute di una area protetta in relazione al budget richiesto per mantenere quella popolazioni di leoni.

Confrontando i finanziamenti di 282 aree protette di proprietà statale nell’anno 2015, gli autori hanno stimato che “il finanziamento minimo annuale per un chilometro quadrato è, stando all’African Park Network, di 978 dollari, di circa 1.271 dollari per chilometro quadrato in 115 aree protette in cui i leoni siano ad una capacità di carico del 50% e di circa 2.030 dollari per chilometro quadrato in 22 aree senza recinzioni”. In conclusione, occorre “un totale che va da 1.2 a 2.4 miliardi di dollari all’anno” per proteggere le geografie africane con gli ultimi 20-25mila leoni del continente. Oggi, a prescindere dalla pandemia da SarsCov2, attraverso i canali di finanziamento consolidati arrivano in Africa solo 381 milioni di dollari all’anno, che equivalgono a soli 200 dollari per chilometro quadrato. 

La struttura portante della conservazione è insomma largamente insufficiente. 

Appoggiarsi alle Ngo significa quanto meno provare ad intervenire su problemi cronici, perché l’inefficienza non sempre dipende dalla corruzione. Spesso manca il personale e i funzionari necessari a indirizzare il denaro dove più serve. Anche in Paesi che già fanno molto per i propri parchi nazionali, il supporto tecnico e finanziario “ha un senso dove c’è una minaccia specifica o una sfida o anche una opportunità che il governo non è in grado di affrontare da solo”. Questo contesto, economico ed ecologico, apre virtuosamente la porta al coinvolgimento dei privati stranieri. Una strada che, nonostante gli inevitabili pregiudizi e i timori post-coloniali, nessuno si può più permettere di non intraprendere. 

Peter Lindsey : “serve una semplificazione giuridica”

Raggiunto ad Harare, Zimbabwe, via Zoom, Peter Lindsey di Lion Recovery Fund e Wildlife Conservation Network, che lavora anche per il Dipartimento di Zoologia della Università di Pretoria, leading dello studio su NATURE: “La collaborazione tra soggetti del settore privato e i governi sta sicuramente crescendo, ma è ancora una piccola porzione rispetto al suo enorme potenziale. Possiamo dire che in Africa è piuttosto comune, perché è uno strumento importante per i governi, consolidato.

Ciò che serve davvero ora è semplificare e rendere più chiare le modalità giuridiche con cui far entrate i privati, perché il potenziale di efficacia di queste partnership è altissimo, come dimostrano molte storie di successo degne di nota in cui i finanziamenti da fonte privata si sono sommate ad un forte know how. La chiarezza interna dell’intero processo legale è la questione-chiave.

Il turismo fotografico è senz’altro una fonte di fondi molto rilevante ed è una componente in crescita, che non solo fornisce posti di lavoro di alto profilo professionale, ma costituisce anche la giustificazione per il mantenimento delle aree protette. In regioni remote ad alto potenziale turistico bisogna rendere più semplici i meccanismi per ottenere il visto turistico, in modo da permettere ai visitatori di raggiungere questi territori più agevolmente, bisognerà sicuramente anche potenziare le infrastrutture e garantire la sicurezza.

I governi stanno compiendo passi in questa direzione in molti Paesi, c’è un impegno in questo senso. Ma la wildlife deve diventare un asset strategico anche per il turismo domestico, locale, non solo per quello internazionale. E su questo aspetto specifico c’è già un riconoscimento generale qui in Africa, che cioè questo passaggio sia indispensabile, anche se rimane molto lavoro da fare”. 

Devono crescere anche i finanziamenti internazionali. Gli autori propongono una serie di strumenti finanziari, alcuni in fase pilota, altri in discussione, il cui scopo è allargare la base di coinvolgimento nella protezione della biodiversità africana e al contempo rafforzare i meccanismi di redistribuzione dei profitti ricavati dalla wildlife.

Alcuni di questi strumenti comprendono: l’impiego dei “crediti” pagabili non solo per il carbonio (emissioni serra), ma anche per la biodiversità nelle aree ancora selvagge maggiormente in pericoloso di andare perdute per sempre; il pagamento diretto delle nazioni economicamente influenti  perché nazioni ricche di biodiversità risparmino i loro territori selvaggi, come accaduto nel caso della Norvegia e del Gabon; leasing su aree ad alto potenziale di conservazione per prevenire la conversazione ad agricoltura; schemi di “performance payments” per le comunità locali che decidono di conservare le loro specie selvatiche all’interno dei loro habitat; e addirittura  un “conservation basic income”, un reddito garantito per le i villaggi che proteggono la wildlife.

Gli animali forniscono “servizi culturali”

Un ulteriore strumento di enorme impatto emotivo per noi occidentali è la proposta di instituire meccanismi di pagamento per i “servizi culturali”, ossia dall’uso pubblicitario, cinematografico ed estetico di immagini di specie africane, soldi che devono finire direttamente sulla conservazione di queste specie. 

Tutto questo significa cambiamento, di modi di pensare e di scale di priorità, per tutti: “Va comunque detto anche questo, che in contesti di super-turismo, ossia di affluenza eccessiva di turisti, è necessario definire un piano di gestione, aumentare i costi di accesso e stabilire una soglia nel numero di persone.

I turisti in Africa devono certamente entrare nell’ottica di idee che è importante pagare per compensare l’impronta ambientale di un safari in loco, una compensazione degli offset che non significa affatto pianare alberi esotici, ma, piuttosto, e in modo molto più diretto, contribuire al mantenimento e alla gestione delle aree protette.

Ad esempio, i voli aerei per raggiungere la wilderness sono un offset, che deve trovare una via di compensazione capace di produrre benefit per le aree protette, perché le donazioni internazionali non sono abbastanza, ma d’altronde occorre coinvolgere il turismo nel sostegno finanziario agli spazi selvaggi in modo nuovo”, spiega Lindsey. 

“Dobbiamo tenere in considerazione il fatto che la popolazione africana sta crescendo e che quindi serve una ridefinizione e una riflessione su come distribuire il peso della conservazione. Questo significa tradurre in realtà un meccanismo all’interno del quale i Paesi che più inquinano, con la loro maggiore domanda di risorse, lavorino insieme alle nazioni africane per lo scopo comune di mettere da parte territori destinati alla conservazione.

Beni non sostituibili

La conservazione è uno strumento di sviluppo, ma a patto, ormai, che si appronti un sistema di finanziamento internazionale che riconosca a chi abita le nazioni ricche di biodiversità il ruolo di custodi di un bene insostituibile per la salvezza del mondo intero. Sì, in qualche modo possiamo dire che è arrivato il momento di ‘rendere anche il resto del mondo responsabile per il futuro dell’Africa’. Si può ad esempio cominciare a ragionare su soluzioni di scambio proficuo per tutte le parti.

Noi viviamo infatti un controsenso, che un enorme patrimonio biologico si trova in Africa, eppure l’Africa è gravata da un immenso debito. Concedere un risanamento del debito al posto dell’aiuto umanitario e quindi permettere alle nazioni africane di spostare risorse economiche sulla conservazione permetterebbe loro di investire, finalmente, sui loro assist naturalistici, spezzando un circolo vizioso di debito e dipendenza da aiuti esterni”.

Il momento storico che stiamo vivendo è quindi di portata decisiva: “Le genti africane possono e devono provare a fare di più, ma noi dobbiamo capire che il fondamento portante di questo ‘di più’ è la conservazione degli spazi selvaggi. L’Africa è ad un punto di svolta, che potrebbe rivelarsi anche un punto di non ritorno. La wildlife è in difficoltà ovunque, ma le peggiori situazioni ci sono dove c’è anche instabilità politica. Alcuni Paesi investono di più, altri meno, eppure il punto è che ovunque osserviamo un deficit di budget. Abbiamo disperatamente bisogno di una prospettiva di lungo periodo, di un lavoro sistematico che mobiliti in modo stabile risorse finanziare per la conservazione”.

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La genetica del leone africano è stata rivista

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(Photo Credit: Peter Lindsey – LION RECOVERY FUND)

La storia evolutiva del leone dimostra quanto complicata sia la conservazione di questa specie nel continente africano, la sua ultima roccaforte. I risultati delle analisi genetiche più recenti confermano che il leone si trova già in una fase abbastanza critica da mettere in discussione alcune strategie di protezione. Nella sua storia evolutiva c’è anche il futuro della specie.

Trentamila anni fa il leone era il mammifero più diffuso del Pianeta: prosperava in Africa, in Eurasia e in America. Durante il Pleistocene, c’erano 3 specie di leoni: i leoni moderni (Panthera leo leo), che stavano sia in Europa che in Asia; il leone delle caverne (Panthera leo spelaea), che viveva in Europa, in Asia e in Alaska e nella penisola dello Yukon; e infine il leone americano (Panthera leo atrox), in America del Nord. 

Ma a partire da 14mila anni fa, la diversità genetica della specie è stata spazzata via e con essa una miriade di adattamenti che corrispondevano ad altrettanti habitat. Per questa ragione, anche le più dispendiose e meditate strategie di conservazione (come ad esempio la “rilocazioni”, cioè spostare esemplari da una riserva all’altra, non di rado da una nazione africana all’altra) potrebbero non avere i risultati sperati.

Spelaea e atrox sono ormai un ricordo affidato alla paleontologia: è rimasta solo Panthera leo leo, nella impressionante cifra di 20-25mila individui. A queste conclusioni arriva lo studio uscito il 19 maggio scorso sulla PNAS ( The evolutionary history of extinct and living lions”), a cui ha partecipato anche Nobuyuki Yamaguchi della University Malaysia Terengganu di Kuala Lumpur, un veterano nella ricerca genetica sul leone africano. 

La lunga estinzione del leone sembra inarrestabile: negli ultimi 150 anni ( per fattori stavolta antropici) se ne sono andati il leone berbero del Nord Africa, il leone del Capo in Sudafrica e il leone del Medio Oriente. Non è causale che anche questo studio parli del leone del Capo e del leone berbero. Nel 2016 numerosi ricercatori hanno tracciato la mappa genetica del leone, dismontando che le differenze regionali sono marcate.

I leoni (i pochissimi rimasti) dell’Africa occidentale sono distinti, e in modo netto, da quelli dell’Africa centrale, ma appartengono ad una sottospecie che è Panthera leo leo. I leoni dell’Africa orientale (ad esempio del Kenya e della Tanzania) e meridionale (Sudafrica) sono invece classificati come Panthera leo melanochaita. 

La ricerca pubblicata sulla PNAS approfondisce questo scenario genetico: “benché i leoni dell’Africa centrale rientrino nel gruppo (cluster) di Panthera leo leo nelle ricostruzioni filogenetiche basate sul DNA miticondriale, il loro genoma mostra una affinità ancestrale più spiccata con Panthera leo melanochaita. I nostri risultati suggeriscono quindi che la posizione tassonomica dei leoni del centro Africa debba essere rivista.

Tuttavia, questi dati sono fondati sul genoma di un singolo leone del centro Africa, mentre studi recenti condotti su più genomi e su rilevamenti satellitari suggeriscono che i leoni del centro Africa, del Congo (DRC) e del Cameroon rientrino di solito nel gruppo di Panthera leo leo. Inoltre, il flusso genico in Africa centrale e occidentale probabilmente era diffuso nel passato. Entrambe le linee di derivazione coesistettero per lunghi periodi di tempo e quindi il tasso di divergenza non è alto”. 

A questo punto potremmo chiederci perché queste sottigliezze tassonomiche dovrebbero interessarci. Progettare di aumentare le popolazioni locali di leoni non può prescindere dalle caratteristiche genetiche degli individui che dovrebbero essere spostati. Se il leone del Capo – il celeberrimo “leone dalla criniera nera” – pare essere un cugino di primo grado degli attuali leoni del Sudafrica, questo non significa che  le popolazioni di leoni allo stato selvaggio del Paese possano funzionare con pieno successo come “popolazioni serbatoio” per estrapolare individui da ricollocare più a Nord, all’interno dell’area di appartenenza storica di Panthera leo melanochaita.

Anche all’interno della stessa sottospecie esistono infatti differenze genetiche dipendenti dalle origini geografiche che potrebbero rendere vano l’inserimento e l’adattamento di un leone del Sudafrica, ad esempio, in una parco della Rift Valley.

Il caso del parco nazionale di Akagera, in Rwanda, è emblematico. Akagera era stato svuotato dei suoi animali durante i sanguinosi eventi della guerra civile e del genocidio del 1994. Nel 2015 il Sudafrica ha collaborato con le autorità ruandesi per reintrodurre ad Akagera 4 femmine della riserva di Phinda (Kwa Zulu Natal, Sudafrica) e 2 maschi dal Tembe Elephant Park (sempre in Sudafrica).

Ma i leoni delle riserve sudafricane non sono nativi di quelle riserve: sono a loro volta stati reintrodotti e quindi appartengono a linee di derivazione genetica mista. “I maschi introdotti in Rwanda originavano dall’Etosha, in Namibia, e le femmine avevano un mix di geni dal Kruger, dal Kgalagadi e dall’Etosha”, scrisse nel 2015 il National Geographic.

La considerazione più rilevante la fece però Laura Bertola (@LauraDBertola su Twitter), una altra punta di diamante della ricerca genetica sul leone africano, che lavora alla Leiden University, in Olanda: “Tutti i dati genetici disponibili che abbiamo finora ci dicono che i leoni dell’Etosha appartengono ad un gruppo distinto che non c’è in Africa Orientale: per questa ragione sarei a favore di un’altra origine per la reintroduzione in Rwanda”. 

Allora si decise di procedere ugualmente, ma è molto importante non dimenticare alcune cose: occorre tempo per verificare se l’insediamento di una popolazione animale ha avuto successo oppure no; le ragioni del turismo e della conservazione spesso confluiscono in piani di gestione della fauna che confliggono con le evidenze scientifiche; i leoni che ancora abitano gli habitat a savana dell’Africa orientale e meridionale nelle riserve e in alcuni parchi nazionali non sono i discendenti diretti delle popolazioni “integre e storiche” di leoni, ma sono il risultato, oggi, di interventi umani molto invasivi. 

Le considerazioni genetiche dovrebbe essere tenute nella massima considerazione, avverte il team di ricercatori che ha pubblicato il 17 maggio sulla PNAS, quando si parla di reintrodurre il leone nel Nord Africa, una ipotesi in circolazione dal 2002 con il Lion Atlas Project.

Considerando il genoma e non solo il DNA mitocondriale “i leoni dell’Africa occidentale sono i parenti più stretti lungo la linea di derivazione” del leone berbero. Peccato che in Africa occidentale ormai la popolazione più numerosa di leoni si trovi solo in una area protetta transfrontaliera, la W-Arly_Penjari (circa 350 esemplari tra Benin, Burkina Faso e Niger). Ma se rivedere il maestoso leone berbero è, allo stato attuale delle cose, un esercizio di immaginazione scientifica del tutto teorico, meno aleatorie sono le riflessioni sulla conservazione del leone nel resto del continente: “i nostri risultati possono essere utili ad esplorare come la diversità genetica delle popolazioni è cambiata nel corso del tempo”.

Un modo elegante per dire che la quantità non fa la qualità: riserve cintate con molti leoni non garantiscono lo stato di salute della specie, ma solo lauti introiti turistici. Una strada che, purtroppo, pare invece essere la linea di governo di Paesi come il Sudafrica e la Tanzania, che, insieme, hanno il 90% dei leoni africani rimasti nel XXI secolo. 

L’albero genealogico completo QUI.

Africa 2020: servono acqua potabile e leoni

(Photo Credit: Lion Recovery Fund)

Lo stress ecologico sta ridisegnando la sicurezza interna dei Paesi dell’Africa occidentale. Africa 2020: servono acqua potabile e leoni. Questo lo scenario per il nuovo anno. L’integrità ecologica degli ecosistemi del continente va di pari passo con la sicurezza alimentare, l’emergere di movimenti terroristici e insurrezioni a mano armata, la destabilizzazione politica.

A meno di due settimane dalla fine di questo 2019 lo ISS ( Institute for Security Studies, finanziato anche dalla Unione Europea) disegna una mappa chiara della disintegrazione della coesione sociale in numerose azioni africane sotto l’onda d’urto dei cambiamenti climatici.

“L’Africa meridionale e il continente nella sua interezza devono aspettarsi eventi climatici estremi come il ciclone Idai e il ciclone Kenneth, più frequenti e più intensi. Stiamo soltanto ora cominciando a capire che cosa questo significa per le migrazioni di massa (in Sudafrica, le ripetute e violente esplosioni di xenofobia sono un segnale allarmante).

La capacità di produrre energia (la siccità ha lasciato la diga di Kariba al minimo storico, compromettendo la generazione di energia dello Zimbabwe e dello Zambia, con conseguenti tagli diffusi alla distribuzione).

La politica (è solo una coincidenza che il partito di governo della Namibia abbia sofferto la perdita più significativa di voti nel mezzo di una siccità?); e la salute (ambienti più caldi aumenteranno il rischio di malaria?)”.

Questo il quadro generale secondo Jason Allison di ISS. 

Ma non è tutta questione di CO2.

Lo stress idrico sarà una delle ipoteche aperte sulla stabilità politica dell’Africa occidentale. Il WRI (World Resource Institute) ha disegnato una mappa (We Predicted Where Violent Conflicts Will Occur in 2020. Water Is Often a Factor) delle tensioni già evidenti per l’acceso all’acqua dolce che consenta di prevedere dove, nei mesi a venire, sono più probabili scontri armati.

L’alterazione dei pattern climatici stagionali si è saldata con un incremento demografico che è diventato una miccia accesa nel focolaio di tensioni etniche sempre latenti in Mali. Ecco cosa dice il Rapporto: “La popolazione del Mali è cresciuta molto rapidamente.

A Bamako, la capitale, la densità demografica è triplicata negli ultimi 20 anni (…) La competizione crescente per le risorse naturali peggiora le rivalità etniche e contribuisce a far aumentare la violenza tra agricoltori e pastori”. Sulla mappa dei prossimi 12 mesi l’acqua è un punto di domanda politico anche in Burkina, Niger, Ghana, Benin, Nigeria, Costa d’Avorio. 

In pochi hanno il coraggio di ammettere, negli organismi che presiedono la governance mondiale, che la demografia è già oggi una minaccia alla sicurezza. La Planetary Security Initiative ( un think tank citato dal WRI) ha denunciato la pericolosità della situazione del Mali.

“Una devastante esplosione di violenza a Moptu ha calamitato l’attenzione sulle divisioni etniche e la radicalizzazione. Tuttavia il ruolo della pressione sulle risorse naturali è la causa prima del conflitto e il punto di partenza per soluzioni che continuano ad essere trascurate (…)

Come documentato da un briefing del 2017 del Planetary Security Initiative la crescita della popolazione e il cambiamento climatico hanno giocato un ruolo sostanziale nel preparare un terreno fertile per i conflitti in Mali. Nelle parole di un accademico: man mano che la demografia cresce, diminuisce il bush”. 

E senza il bush, o la savana, o le praterie di erbe ad alto fusto, sparisce anche l’acqua: “Se vuoi continuare ad immettere acqua nell’agricoltura, devi mantenere il paesaggio che produce la pioggia”, ha detto Kaddu Sebunya del comitato direttivo della African Wildlife Foudation.

Un concetto di basilare fisiologia ecologica che purtroppo anche milioni di Europei ignorano.

In Africa, paesaggio significa però una cosa sola: leoni. 

Senza i leoni, gli ecosistemi africani collasseranno. Un processo che è già in corso. Mai come in questo passaggio storico la specie simbolo del continente ci dice che nessuna strategia geopolitica sarà efficace nei prossimi decenni senza tenere in conto la variabile della biodiversità.

E la stessa Africa non può fare a meno di confrontarsi con il problema dell’estinzione del leone. Questa è la conclusione a cui è giunto un rapporto speciale, The Lion Economy, redatto dal Lion Recovery Fund di Peter Lindsey e quindi sovvenzionato dalla Leonardo di Caprio Foundation. 

“La conservazione del leone non è solo una questione che coinvolge coloro che lavorano nella conservazione, bensì chiunque abbia interesse in un futuro sostenibile e vitale per l’Africa. Le popolazioni di leoni stanno crollando e sono già scomparse da molti Paesi.

Nel tentavo di costruire intere economie e di portare fuori della povertà molte persone, i governi sono riluttanti a spendere più soldi per la conservazione, perché ci vedono uno spreco a svantaggio di esigenze più pressanti. Ma questi stessi governi ignorano i seri problemi ambientali che fronteggia il continente. L’Africa sta già sperimentando la perdita di servizi ecosistemici; e, cosa ancora peggiore, la maggior parte dei Paesi sono poco resilienti nei confronti del cambiamento climatico”. 

I leoni sono predatori di vertice e quindi è dalla loro presenza che dipende la salute dell’ecosistema. I processi chimici che garantiscono ai nutrienti di passare dagli animali alle piante, e infine all’uomo; la disponibilità di acqua potabile, la riduzione del rischio di disastri come le alluvioni, grazie alla stabilizzazione del clima, lo stoccaggio di carbonio nelle piante e una copertura vegetazionale integra.

Tutto questo non ci sarà più senza i leoni.

The Lion Economy descrive molto bene la attuale condizione dei leoni e delle persone sul continente. Gli uni dipendono dalle altre. Perché questa relazione possa produrre futuro per entrambi, il leone deve tornare ad occupare i progetti, i sogni, le visioni dei decenni che verranno. 

Kaddu Kiwe Sebunya, Chief Executive Officer, African Wildlife Foundation: “I leoni non sopravviveranno al XXI secolo soltanto con la buona volontà. E non sopravviveranno neppure rimanendo il centro nevralgico delle vacanze per visitatori stranieri di alto livello sociale, o fungendo da trofeo per la caccia. La sopravvivenza del leone dipende dall’Africa stessa. Questo significa concentrarsi sul grande valore culturale che i leoni hanno nella società africana per costruire consenso attorno alla importanza della loro persistenza allo stato selvatico. Detto pragmaticamente, dipende dalla gente, dai governi e dall’industria riconoscere che la preoccupazione attorno alla sopravvivenza del leone non è una rievocazione di un passato romantico, ma il simbolo di un intero comparto di altri valori che rischiano di scomparire per sempre insieme ai leoni”.

Se l’Africa del 2030 sarà edificata soltanto sulle aspirazioni di sviluppo socio-economico, ed è questa la traiettoria imboccata, il patrimonio unico dei paesaggi africani sarà perduto, insieme a ciò che resta di civiltà antiche che hanno condiviso se stesse con questo felino straordinario.  Le proposte del think tank che sostiene “the lion economy” è di potenziare il finanziamento della conservazione dei paesaggi ancora selvaggi introducendo dei meccanismi di pagamento dei servizi ecosistemici. È un approccio che assomiglia molto a quello del REDD+ e del carbon market, entrambi rivelatisi finora insufficienti per disinnescare una economia in continua espansione. Ma alle soglie del 2020 le informazioni sulla insofferenza sociale di molti Paesi africani sembrano indicare che è arrivato il momento di considerare l’identità e la coscienza africane come elementi imprescindibili delle economie di domani. Il prossimo decennio, in poche e semplici parole, dovrebbe essere anche un decennio di ispirazione e di valori, non solo di un modello ibrido di profitto ricalcato sull’Occidente. 

I leoni si spostano tra il Kafue e il Luangwa

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(un campione di pelle di quelli analizzati per la ricerca. Credits: Caitlin J. Curry)

In Zambia i leoni si spostano tra il Kafue e il Luangwa. Anche se i due parchi nazionali sono separati da campi coltivati e insediamenti umani. Nel Paese ce ne sono circa 1200 su 200mila chilometri quadrati di savana. Ma lo studio sul DNA mitocondriale di 409 individui uscito su PLON ONE (Genetic analysis of African lions (Panthera leo) in Zambia support movement across anthropogenic and geographical barriers) ha dimostrato che questi 1200 sono ancora più importanti di quanto si sospettasse per il futuro della specie.

Gli autori della ricerca, Caitlin Curry della Texas A&M University, Paula White della University of California e James Derr sempre della Texas A&M University, sono riusciti a documentare con analisi genetiche che i leoni dello Zambia sono già divisi in due sub-popolazioni.

Queste popolazioni corrispondono alle loro aree protette di residenza: la Luangwa Valley Ecosystem, nella parte orientale del Paese, e il Kafue National Park, ad occidente. Benché lontane e separate anche sotto il profilo genetico, tra queste due popolazioni c’è però una continuità.

Alcuni leoni maschi si sono spostati tra il Luangwa e il Kafue aprendo la pista ad un flusso genico sorprendente che si riteneva impossibile viste le condizioni geografiche del territorio in questione.

Il Kafue è un “sistema” di aree sotto una qualche forma di protezione e regolamentazione giuridica, essendo circondato da un mosaico di game reserve ( Game Management Areas), come il Grande Kruger in Sudafrica. Tanto il Kafue quanto il Luangwa sono considerati “lion stronghold” e cioè popolazioni numericamente abbastanza numerose da essere cruciali per il futuro della specie perché ancora lontane dal rischio (fatale) di inbreeding.

Nelle roccaforti si può ancora tentare un ragionamento di protezione della specie sui tempi lunghi. E però tutto quello che sta tra i due parchi nazionali è un “patchwork antropogenico di città e fattorie considerato inabitabile per i leoni”. 

L’evidenza della diversità delle due sub-popolazioni, nel complesso, è un risultato sicuramente prevedibile.

Come ogni altra specie, anche le caratteristiche genetiche del leone tendono ad essere influenzate dalla caratteristiche geografiche dei propri habitat, e quindi a differenziarsi. Tutti i grandi felini altamente plastici, come il giaguaro e la tigre, sono stati capaci, nella loro lunga storia evolutiva, di colonizzare interi continenti.

I leoni del deserto della Namibia hanno un adattamento specifico, così come lo avevano quelli della catena montuosa dell’Atlante, abituati al freddo e alla neve in inverno. Questo è il motivo fondamentale per cui il crollo numerico della specie negli ultimi venti anni ha assottigliato la diversità genetica della specie e quindi la possibilità di fronteggiate i cambiamenti ecosistemici dovuti al riscaldamento del Pianeta previsti per i prossimi decenni.

Cambiamenti che modificheranno i landscape africani in cui, oggi, poche migliaia di leoni ancora prosperano. La ricerca conferma dunque che ogni habitat rimasto possiede caratteristiche irripetibili, un fattore determinante nel patrimonio genetico della popolazione di leoni che ci abita.

“La valle del Luangwa nello Zambia orientale è una propaggine del sistema della Grande Rift Valley. Questa regione sembra esercitare un effetto di isolamento geografico, come mostra la presenza di alcune possibili sottospecie endemiche.

Ad esempio lo gnu di Coockson (Connochaetes taurinus cooksoni) e (forse) la giraffa di Thornicroft (Giraffa camelopardalis thornicrofti) e una sottospecie di zebra endemica dello Zambia che ha un pattern di strisce unico (Equus quagga crawshayi)”, spiegano gli autori. Nell’intero Paese proprio la giraffa è presente solo nel Luangwa, il che rende questo parco fatalmente importante per la biodiversità della regione. 

Mentre il DNA mitocondriale (trasmesso dalla sola madre) non mostra evidenze di un flusso di geni tra le due sub-popolazioni, l’analisi dei geni nucleari suggerisce invece che ci sia un flusso genico dei maschi (male mediate gene flow).

I geni delle femmine, che rimangono anche da adulte vicine al gruppo in cui sono nate e cresciute, confermano la presenza storica delle due popolazioni ciascuna nel proprio parco nazionale; mentre è invece chiaro che alcuni maschi, spostandosi attraverso la “terra di mezzo” di insediamenti umani e fattorie, hanno innescato un processo di rimescolamento genico, che corrisponde ad un arricchimento, sui tempi lunghi, di entrambe le popolazioni. 

I 446 campioni analizzati (peli, pelle, ossa, tessuti vari) sono stati forniti da The Zambia Lion Project (ZLP) e raccolti durante il periodo 2004-2012 insieme alla Zambia Wildlife Authority anche nelle game area contigue ai due parchi nazionali. 

Caitlin Curry, raggiunta via mail: “Sì, i leoni hanno bisogno di spazio per potersi spostare e richiedono molto di più di quanto forniscono loro le aree protette. Aver capito che i leoni si muovono nonostante le barriere che li costringono entro certi limiti è davvero importante per il futuro della conversazione.

I leoni hanno infatti grandi home range e possono camminare anche per centinaia di migliaia di chilometri se non viene loro impedito. L’aumento dell’influenza umana ha frammentato l’habitat del leone con la conseguenza che la dispersione dei maschi è diminuita e così anche il flusso genico.

Se le popolazioni rimangono del tutto isolate le une dalle altre, la diversità genetica diminuisce e si verificano le condizioni per la riproduzione tra consanguinei. Alla fine, questo conduce dritto ad un crollo della popolazione con effetti nocivi sulla salute. Bisogna mantenere il flusso genico, specialmente quando si tratta di una specie che deve poter contare su vasti territori”. 

La storia dei leoni dello Zambia ci dice che non sempre i conti degli esseri umani corrispondono alle reali necessità di una specie. L’ecologia reale di una specie può deludere le nostre aspettative, che quasi sempre vorrebbero definire matematicamente gli habitat senza tener conto della imprevedibilità della vita e anche del talento adattativo di predatori complessi e intelligenti come i grandi felini. 

( in Zambia è legale la caccia da trofeo; in teoria gli introiti e le revenues dovrebbero andare in parte anche alle comunità locali, ma pare che dal 2016 il circolo virtuoso di denaro contante si sia interrotto. L’articolo su AFRICA GEOGRAPHIC a questo link. 

I leoni criniera nera del Kalahari

La biogeografia è l'ultima frontiera della conservazione del leone africano. Ogni popolazione storica aveva caratteristiche uniche, quasi del tutto perdute.
(Una mappa geografica di inizio Novecento che mostra la diffusione dei leoni nell’attuale Zimbabwe)

Il territorio del leone del Kgalagadi, e di qualunque altra popolazione wild di leoni in Africa, non è soltanto un habitat per questa specie. Un territorio selvaggio svela i limiti del nostro modo di pensare in Antropocene. E ne propone di nuovi. L’enigma dei leoni criniera nera del Kalahari. Un storia che ha esattamente queste caratteristiche.

Poniamoci prima una domanda. E’ sufficiente varcare i confini di una area protetta per fare esperienza della wildlife? La risposta tradizionale a queste domande è l’effetto-wow che i safari più esclusivi promettono in Kenya, in Tanzania, in Namibia e in Botswana.

Le specie iconiche del continente africano sono cartoline note in tutto il mondo. Il turismo organizzato conta moltissimo sulla forza persuasiva dell’effetto -wow e ne fa un alleato della conservazione.

Ma la “lettura” turistica dell’Africa e dei suoi leoni è riduttiva e fuorviante.

La vicenda di Cecil the lion è emblematica. Nonostante il terremoto di indignazione via FB contro il dentista-cacciatore una ricerca approfondita del WildCru di Oxford ha stabilito che solo una percentuale irrisoria delle persone affettivamente coinvolte nel destino di Cecil conosceva la situazione del leone in Africa.

Ossia il rischio concreto della sua estinzione.

Per incontrare davvero i leoni in Africa bisogna prima di tutto pensarli.

Nel 1952, in una conferenza alla Radio Bavarese, Heidegger parlò del significato del pensare in una epoca dominata dal ragionamento logico-matematico. La conferenza confluì poi nell’opera oggi nota con il titolo Che cosa significa pensare? .

“Non c’è un ponte che conduca dalla scienza al pensiero; l’unico passaggio possibile è il salto. Il luogo dove questo salto ci conduce non è solo l’altro lato dell’abisso, ma una regione totalmente diversa”.

La condizione umana è stata a tal punto ridisegnata dall’Antropocene che per pensare questo cambiamento epocale occorre ripensare il nostro sguardo sull’umano e sul Pianeta.

Noi pensiamo la “natura” e le altre specie non per ciò che esse sono ma attraverso il filtro dell’epoca tecnologica e dei suoi stupefacenti apparati di manipolazione della materia vivente.

La “regione totalmente diversa” di Heidegger è dunque una condizione del pensiero capace di mettere in discussione gli assunti del parlare comune.

Ad esempio, che un safari offra in automatico un autentico incontro con i leoni.

O che basti un like su Facebook contro un cacciatore semiprofessionista americano per modificare il destino della specie.

Seguendo il discorso di Heidegger è necessario non chiedersi a cosa serve una specie o un habitat in funzione di interessi economici più o meno diretti, quanto piuttosto che cosa è una specie nel suo habitat.

Questo tipo di esplorazione mette al centro della ricerca i legami storici, genetici, ecologici (il come di una specie) che decidono, tutti insieme, delle caratteristiche biologiche (il che cosa di una specie).

Proviamo allora ad avventurarci nel come del leone africano.

La scomparsa degli spazi selvaggi altera la percezione che abbiamo del Pianeta e sottrae realismo al nostro sguardo. Perché lo semplifica.

Secondo lo African Lion Group, il leone è una specie privilegiata per aprire gli occhi sulle conseguenze storico-genetiche della frammentazione degli habitat.

E la ragione sta nel fatto che nell’ultimo secolo e mezzo le condizioni di vita del leone sono drasticamente mutate. Se considero il leone africano solo per come lo vedo oggi, affidandomi sostanzialmente al racconto turistico, non riesco a costruirmi una idea complessiva della specie.

“Servono indizi per comprendere le popolazioni di leoni del passato e fare previsioni sul loro futuro” dal momento che “le stime complessive delle popolazioni, da sole, significano poco in assenza di una conoscenza dettagliata su dove si trovano i leoni”

Le informazioni quantitative non sono sufficienti. Servono dati qualitativi (genetici, storici) sulle popolazioni rimaste, come quella del Kalahari meridionale. 

I leoni dalla criniera nera del Kalahari sono uno degli enigmi che svela l’importanza degli studi di popolazione sul leone africano. 

Uno studio di genetica di popolazione uscito nel 2013 su Conservation Genetics (Genetic perspective on Lion Conservation Units in Eastern and Southern Africa) osserva: “c’è un interesse teorico nel livello di differenziazione regionale e adattamento locale mostrato da un predatore molto diffuso.

Storicamente, l’interesse per questo argomento si è focalizzato sulla differenziazione morfologica e tassonomica”.

Gli autori dello studio hanno lavorato su campioni raccolti nello storico home range del leone in Asia (Iran e India), in Africa centro-occidentale (Maghreb, Senegal e Sudan) e nell’Africa sud-orientale, compreso il Kgalagadi.

I leoni dell’Africa orientale e meridionale – quindi anche quelli del Sudafrica e del Botswana – presentano differenze genetiche rispetto ai cugini dell’Africa centro-occidentale, pur appartenendo alla stessa specie. 

Per quanto riguarda il leone del Kgalagadi, gli aplotipi del suo pool genetico (un aplotipo è una combinazione di varianti nella sequenza del DNA su di un particolare cromosoma) fanno gruppo con i leoni dell’Africa orientale.

Hanno però una struttura unica di legami di parentela (unique structure assignment).

Ma “in assenza di ulteriori campioni da questa regione e dalle aree ad est è impossibile determinare le affinità geografiche di questa popolazione”.

Raccogliendo i riscontri ottenuti con le analisi genetiche e le testimonianze storiche, oggi è possibile affermare che il nome Panthera leo melanochaita (leone dalla criniera nera) fu introdotto nel 1858 per indicare il leone della provincia del Capo in Sudafrica.

Tuttavia, “i leoni del Capo non erano diversi dagli altri leoni del Sudafrica e le loro grandi criniere erano una conseguenza del clima di quelle regioni”.

Bisogna però tenere presente che “le ricostruzioni filogenetiche recuperano in modo robusto una maggiore dicotomia all’interno dei leoni, dicotomia che separa i leoni di Asia e nord-ovest-centro Africa da quelli del sud-est Africa”.

Sui leoni del Kgalagadi possiamo dunque dire: “al momento è difficile risolvere la tassonomia dei leoni dell’Africa orientale e dell’Africa del sud, che sono tutti considerati qui come Panthera leo melanochaita.

A dispetto della loro più sofisticata variabilità genetica, l’analisi filogenetica non identifica un clade in modo affidabile (….) Le conclusioni riguardo la distribuzione di Panthera leo leo (ndr, il leone africano) e Panthera leo melanochaita (ndr, il leone dell’africa meridionale ed orientale del continente) risultano limitate dai pochi siti geografici di recupero dei campioni, specialmente in centro-Africa”. 

L’analisi geografica è talmente importante nello studio della specie che nel 2006 Barnet e Yamaguchi – due “mostri sacri” su questo argomento -hanno supposto di individuare un cluster regionale di leoni in una area geografica enorme che comprende Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centro Africana, Sudan ed Ethiopia.

Ma dove ci porta tutto questo?

Le differenziazioni geografiche probabilmente erano marcate prima che l’espansione economica e demografica umana, insieme alla caccia indiscriminata in epoca coloniale, decimassero la specie. Tracce di questa differenziazione sussistono ancora oggi.

Ed è di queste che la conservazione deve tener conto, sovrapponendosi ed intersecandosi con le pressioni economiche del turismo, soprattutto quando si discute sullo spostamento di esemplari da una area protetta ad una altra per ripopolare contesti lions-free.

“Le translocazioni possono causare ibridazione tra linee di discendenza diverse e quindi erosione degli adattamenti locali delle popolazioni e fallimenti riproduttivi”.

Bisogna cioè usare “genotipi compatibili”.

I leoni del Kgalagadi non sono i leoni del Kruger e del Pilanesberg e presentano affinità con i cugini delle pianure orientali della Tanzania. 

Storia coloniale, genetica, geografia del continente e ragionamenti attualissimi sulla translocazione (si pensi ai leoni del Kruger spostati ad Akagera, in Rwanda, per ripopolare il parco nazionale. Questo è il come del leone africano.

Non semplicemente una descrizione degli individui e dei pride presenti in un certo contesto.

Ogni descrizione sul campo è completa solo se integrata con informazioni e rimandi disposti a raggiera attorno al post-it colorato su cui è scritta la parola LEONE.

Si tratta di un territorio aperto e rischioso, perché sfida il nostro sguardo ossidato su questo predatore, uno sguardo conformato e conformista. 

E questo è precisamente il passaggio in cui il discorso su Panthera leo e le grandi aree protette non può limitarsi ad una riflessione economica sul turismo. Qui, infatti, entra in scena il nuovo modo di pensare di cui abbiamo parlato all’inizio.

Se analizziamo la narrativa corrente sui leoni africani non riusciamo a spostarci da una rappresentazione monocorde della specie, che dipende dalla potenza degli obiettivi Canon e Nikon.

In questa vicenda ci siamo noi occidentali come turisti e ci sono soprattutto le genti africane come persone in carne ed ossa quotidianamente coinvolte nella protezione di un predatore in habitat certo splendidi, ma assediati da imperativi economici non rimandabili.

Eppure, non possiamo non vedere che il turismo oscura l’importanza di quello sguardo attento alle particolarità regionali della specie che ancora troviamo nei taccuini degli esploratori scritti alla luce fioca del fuoco dei bivacchi nelle savane di inizio Novecento.

In definitiva, il leone del Sudafrica non lo si capisce ragionando secondo i parametri del turismo.

Il leone del Sudafrica lo si capisce ragionando in termini storici e genetici.

Cioè, heideggerianamente, sostituendo ad un pensiero che si riduce a rappresentare le grandi faune (vorstellendes Denken) per trarne utilizzi e profitti ad un pensiero che si pone in ascolto della presenza altrui (Ereignis) per accoglierne l’esistenza. 

Che cos’è davvero la wilderness?

(la wilderness contiene la verità più remota profonda dell’essere, ossia della dimensione ontologica fondamentale della vita biologica)


Che cosa è davvero la wilderness? Questo è uno degli interrogativi più radicali che porterò nel Kgalagadi. Quando si parla di conservazione prestiamo poca attenzione al lessico che usiamo per descrivere le terre selvagge. Ma in Antropocene, ossia nel XXI secolo, nessuna parola è innocente.

Ogni sostantivo e verbo delle nostre lingue europee sopporta il peso della nostra storia. Il linguaggio non è senza colpa. Contiene invece i progetti e i crimini di una civiltà. Al principio degli anni ’50, Martin Heidegger avvertì che “per lo più e troppo spesso ciò che è stato detto noi lo incontriamo solo come il passato di un parlare”.

Heidegger intendeva che siamo abituati ad usare parole che hanno un lungo passato di cui ci siamo dimenticati. Questo ci conduce a parlare con poca esattezza, e con molta imprecisione. Un lessico poco consapevole non riesce, però, a conoscere davvero ciò che descrive.

La wilderness è una di queste parole abusate, di cui abbiamo smarrito la profondità storica e ontologica.

Tempo e spazio

Anche il Kgalagadi Transfrontier Park è una wilderness. In quanto habitat ancora selvaggio, e parco transfrontaliero con il Kalahari meridionale in Botswana, il Kgalagadi custodisce ancora due dimensioni in rapida rarefazione, e cioè lo spazio e il tempo.

Lo spazio è l’estensione del parco nazionale (37mila Kmq) che consente alle specie migratorie, soprattutto gli erbivori, di spostarsi liberamente, e ai grossi predatori di vertice, come i leoni, di andare in dispersione. Cioè di fondare nuovi pride geograficamente lontani dalla famiglia di origine.

Il tempo è l’orologio dell’evoluzione, il crono a disposizione degli spazi selvaggi perché l’algoritmo dell’evoluzione (il cocktail di fattori genetici ed ambientali che plasmano l’aspetto e le caratteristiche adattative di una specie) faccia il suo corso.

Perciò tempo e spazio sono due fattori interdipendenti e interconnessi, che nelle megalopoli sovraffollate di esseri umani dell’Antropocene tendono a volatilizzarsi sotto gli effetti, psicologicamente massacranti, della concentrazione di persone, cose, macchine e rumori artificiali.

Il tempo è dunque geografia. Nella relazione tra il tempo e la geografia degli spazi ancora risparmiati all’agricoltura ed agli insediamenti umani c’è il significato della wilderness.

Tutte le domande che contiene la wilderness appartengono al nostro passato, ma anche al nostro presente.

Nei grandi parchi transfrontalieri, come il Kgalagadi, il tempo è geografia, perché è scritto dentro il paesaggio. L’ecosistema è plasmato dallo scorrere del tempo, che trascorrendo nel corso delle ere geologiche diventa habitat e determina aspetto ed ecologia delle faune che vi abitano.

La filogeografia del leone africano

Questo discorso è particolarmente rilevante per la storia del leone del Kalahari, che è cioè che rimane, in termini quantitativi, del leone del Capo (Felis leo capensis) estinto già a metà Ottocento, preda ambita e “peste” per gli allevatori Boeri (Afrikaner) del non ancora nato Sudafrica.

Il tempo, ormai, lavora contro il leone nel continente africano, perché è diventato un tempo esclusivamente umano. Nel suo ultimo secolo di storia il leone africano ha perso il 75% del suo range originario.

Sapevamo che cosa questo avrebbe significato sin dai primi anni Duemila. Eppure, soltanto oggi i numeri ufficiali approvati da Panthera Cats suonano per quello che sono, e cioè impietosi.

Non è collassato soltanto lo spazio, inteso in senso quantitativo, della specie, ma anche parte del suo passato evolutivo. Ossia il patrimonio genetico che nel corso di decine di migliaia di anni ha reso il leone ciò che è oggi.

In un posto come il Kgalagadi è quindi ancora possibile parlare in modo appropriato del leone africano, di ciò che è, di ciò che è per noi esseri umani e di ciò che rappresenta. Qui è ancora legittimo parlare della filogeografia del leone africano.

Esplorare il concetto di filogeografia (phylogeography), e cioè il modo in cui, nello topografia del continente africano, erano disposte le diverse popolazioni di leoni, e i loro diversi adattamenti, è indispensabile per capire che cosa è la wilderness.

I sistemi a savana

Secondo stime del 2004, in Africa i sistemi a savana coprono 13,5 milioni di chilometri quadrati, ma soltanto il 25% (ossia 3,4 milioni di Kmq) è adatto ai leoni. Nell’Africa subsahariana, dove sono concentrate le ultime popolazioni numericamente consistenti, nel 1960 abitavano 229 milioni di persone, che nel 2050 saranno 863 milioni.

Sono cifre che da sole dovrebbero indurre una riflessione sulla “geografia reale” del leone.

Oggi, al principio del XXI secolo, dedurre dalla realtà al suolo una mappa di cosa è stato il leone è cruciale per il futuro: “comprendere i processi filo-geografici che coinvolgono le specie in pericolo è determinante per interpretare la loro storia evolutiva e progettare strategie di conservazione.

I leoni forniscono una opportunità-chiave per esplorare queste processi. I leoni sub-sahariani costituiscono la base dei leoni moderni (ndr, la base genetica), perché supportano un modello unico di evoluzione del leone moderno (Ndr, con un unico focus geografico di espansione della specie), equivalente al modello più recente dell’evoluzione umana dall’Africa”.

Ma perché studiare la differenziazione geografica (filo-geografia, dal latino phylum, specie, razza ) del leone?

La storia della specie, ricostruita tanto sulle fonti storiche quanto sul materiale genetico – compresi campioni raccolti nei reperti dei musei di storia naturale di Africa ed Europa – ci mostra a che punto siamo nella parabola di questa stessa specie. Cosa è già perduto per sempre, quanto è rimasto e infine quali possibilità ha di sopravvivere ciò che è rimasto.

Dal confronto parallelo con le testimonianze storiche (diari, taccuini, compendi tassonomici) e con le rilevazioni genetiche possiamo mettere a fuoco la verità sullo status dei leoni e il posto che le popolazioni odierne hanno nel quadro economico del turismo come strategia di conservazione.

Homo sapiens è un rifugiato

Karl Jaspers sosteneva che l’uomo contemporaneo è bodenlos, non ha più una terra che lo ospiti, nonostante abbia conquistato tutto il Pianeta. Homo sapiens ha infatti trasformato lo spazio in una risorsa, mettendo in secondo piano, cioè al di fuori da schemi di sfruttamento orientati al profitto, lo spazio come fonte (source).

Lo spazio come “fonte” è il contesto ecologico in cui si muovono il pensiero e l’immaginazione degli uomini. Quando lo spazio è una fonte, non c’è contrapposizione tra uomini e animali. C’è, invece, collaborazione, compartecipazione e convivenza. Abbiamo vissuto così per 250mila anni, noi Sapiens.

Heidegger pensa qualcosa di simile a Jaspers. Per lui l’uomo della seconda metà del Novecento è heimatlos, privo di una patria. Un uomo senza patria vive una condizione esistenziale e psicologica da rifugiato. Non trova più “corrispondenza e riscontro” nel mondo. Usa il mondo, ma non lo conosce e se sente alienato.

Gli habitat abitati dalle altre specie sono lo spazio perduto alla civiltà. Lo spazio da cui Homo sapiens si è consapevolmente tirato fuori: sono contesto ecologico, ma anche contesto esistenziale.

Lo spazio geografico, il nostro Pianeta, non è quindi solo una contrada dove organizzare le nostre attività economiche. Lo spazio è una questione esistenziale per Homo sapiens.

Per questo Jaspers definiva ciò che ci sta attorno, il nostro ambiente e il nostro essere sul Pianeta, con la parola Umgreifende, che in tedesco significa “ciò che raccoglie attorno”.

Anche la coscienza umana è Umgreifende: “l’Umgreifende che noi siamo (das Umgreifende das wir selbst sind) dischiuso a quell’Umgreifende che è l’essere stesso (das Umgreifende das Sein selbst ist)”, spiega Umberto Galimberti.

Per Jaspers, l’essere umano si trova in un ambiente che accoglie ed avvolge, ma anche che si mostra (che esiste) a prescindere da ogni progetto di utilizzo. Ogni uomo è dunque immerso in uno spazio che è orizzonte, paesaggio, geografia.

Una consapevolezza piena e appagante dell’esistenza non può dunque accadere in mancanza del sentimento di appartenenza spaziale ad un luogo (Ort) che definisce la posizione dell’essere umano rispetto alla vita, intesa come evento biologico e psichico.

La wilderness come luogo del possibile

Anche nel pensiero di Heidegger la riflessione sull’alienazione moderna della civiltà umana è legata ad un linguaggio spaziale. Lo scenario costante da cui la storia prende avvio è per Heidegger la verità dell’essere.

La storia umana su questo Pianeta è Geschichte, ossia ciò che è “mandato” (dal verbo schicken, mandare, da cui anche Schicksal e Geschickt, destino ) e quindi “venuto ad essere”, non soltanto perché è accaduto, ma anche perché è stato possibile.

Per Heidegger c’è non solo l’evidenza di ciò che è già accaduto, ma anche la possibilità che dall’orizzonte amplissimo della vita qualcosa possa accadere (es gibt, la forma impersonale per dire “c’è” che letteralmente però suona “si dà”).

La imprevedibilità dell’accadere, di ogni accadimento biologico, si fonde così con la comprensione filosofica della nostra realtà. La storia del nostro Pianeta non è solo storia della specie Homo sapiens, ma soprattutto storia della evoluzione delle specie in sincrono con le trasformazioni geologiche del Pianeta stesso.

L’evoluzione come fondamento primo dell’evento biologico è la verità dell’essere, è es gibt. E sappiamo bene, da Darwin in avanti, come l’evento biologico su larga scala dipenda dal caso e cioè dalla non deterministica contingenza della mutazione.

Nel linguaggio heideggeriano l’evoluzione biologica e das Verborgene: ciò che in quanto ancora non accaduto potrebbe anche non accadere e sussiste come possibilità. Nei confronti della nostra specie, Homo sapiens, il Pianeta è nella posizione eterna del es gibt.

La wilderness come rischio

Per questo motivo, la verità dell’essere (e cioè della vita) è per Heidegger soprattutto rischio.

“Ogni ente è arrischiato. L’essere è il puro semplice rischio. Esso arrischia noi: gli uomini. Arrischia i viventi. L’ente è, in quanto è di volta in volta affidato al rischio. Ma l’ente rimane rischiato nell’essere, cioè in un rischio.

Di conseguenza l’ente è esso stesso arrischiante, cioè rimesso al rischio. L’ente è in quanto va nel rischio in cui è lasciato andare. L’essere dell’ente è il rischio”.

Nella wilderness questo rischio si dà. Si mostra come rischio della vita nella possibilità del suo accadere. Secondo processi evolutivi non pianificati dalla civiltà antropocenica. La wilderness è quindi spazio per la vita animale e vegetale (physis, come la chiamavano i Greci: ciò che emerge alla vita). Ed è spazio per il pensiero umano libero dalle logiche produttive della civiltà tecnologica.

Qualunque rischio esistenziale è infatti sempre libertà e per questo anche Jaspers può affermare che l’esistenza è tale solo in quanto “esistenza possibile (moegliche Existenz).

Sotto il sole aspro della savana c’è la wilderness come physis, come accadere biologico. Un habitat ecologicamente intatti non fa che rispecchiare le condizioni basiche della vita sul Pianeta.

Il fatto che invece consideriamo gli habitat selvaggi qualcosa di straordinario dipende dalla alienazione contemporanea dall’evento biologico.

Scrive Umberto Galimberti: “Rompendo ogni confine Homo sapiens ha fondato la polis, ma fondando la polis è divenuto apolis, solitario, senza frontiere”.

L’ultima Africa davvero selvaggia 

( mappa di inizio Novecento – il Kgalagadi National Park è qui chiamato ancora Kalahari Gemsbok National Park ) 

Un team di ricercatori della University of Queensland, Australia (School of Earth and Environmental Sciences ) ha pubblicato su Nature una mappa aggiornata delle ultime aree selvagge del Pianeta: “last of the wild”. Gli autori avvertono che c’è “un urgente bisogno di rendersi conto che questi posti non sono sostituibili” nel sistema biologico che chiamano Terra. L’ultima Africa davvero selvaggia. Anche questa Africa è stata mappata nello studio.

James Allan, tra gli autori, conferma che il Kgalagadi Transfrontier Park (Sudafrica/Botswana) ha il posto d’onore in questa lista per quanto riguarda la wilderness africana: “il Kgalagadi è incluso nella nostra mappa Last Of the Wild, insieme al delta dell’Okavango in Botswana. Sulla base del nostro studio, direi certamente ch questo tipo di aree ha la struttura di megariserve. E cioè gli ultimi grandi territori completamente wild che supportano le grandi faune africane.

Dovrebbe essere fatto ogni sforzo per mantenerle libere da attività industriali e dall’uso umano su larga scala. Naturalmente non stiamo parlando dei boscimani del Kgalagadi e della loro del tutto unica biocultura. Un altro punto molto importante è la qualità di una area protetta. Il Kgalagadi ha una impronta umana molto bassa ed è perciò titolato ad essere definito wilderness molto meglio di altre aree pur protette“.

Negli ultimi venti anni abbiamo perso un decimo di tutte le zone wild del globo: circa 3,3 milioni di Kmq. Lo studio di Allan e dei colleghi sottolinea è il significato eco-culturale della wilderness.

“Molti servizi ecosistemici derivano dai territori che possiamo definire wilderness e sono un risultato diretto della loro estensione geografica, che permette loro di funzionare come sistemi auto-organizzati”.

E’ la wilderness che “supporta gli ultimi, intatti gruppi di popolazioni di faune di grandi dimensioni, specie con uno home range ampio e che migrano: è per questo che i territori wild sono gli ultimi posti sulla Terra dove gli scienziati possono studiare la biodiversità e i processi naturali indipendentemente dalla moderna società umana”.

Soltanto nella wilderness possiamo farci una idea completa dei meccanismi basici della vita sul nostro Pianeta. Ed è solo qui che esistono ancora culture umane – come i San del Kgalagadi – che vivono secondo “profondi legami bioculturali” con gli ecosistemi, una alternativa radicale al modello occidentale che ha preso il sopravvento a partire dal XVI secolo dell’era moderna.

Per questo, usando una compilazione aggiornata della pressione umana sull’ambiente, il team di Allan ha proposto una rivisitazione delle aree attualmente protette con lo scopo di includere più wilderness nei processi decisionali della World Heritage Convention, la convenzione delle Nazioni Unite che designa gli habitat naturali più rilevanti della Terra. Un discorso che vale anche per gli oceani e la loro “ocean wilderness“.

Purtroppo, troppi giornali in aggiunta ai social media spendono la maggior parte dell’attenzione sui soli parchi nazionali più noti rispetto alla remota wilderness. “A dispetto del valore ambientale, ecologico e bio-culturale ben documentato delle aree wilderness, queste stesse aree non sono state considerate come una priorità della conservazione e ancora manca un riconoscimento esplicito e sistematico della loro importanza in forti accordi multilaterali sull’ambiente come ad esempio la Convention on Biological Diversity o la World Heritage Convention”.

La proposta del paper è di rafforzare l’importanza della wilderness nel discorso complessivo sulla biodiversità del Pianeta, in termini sia quantitativi che qualitativi. E quindi il ruolo che gli spazi ancora intatti hanno come luoghi “di assoluto valore universale” (oustanding universal value, nel lessico UNESCO). Non è infatti scontato e neppure automatico che un tratto di savana o di foresta tropicale sia wild, anche se è giuridicamente protetto.

“Non tutte le aree protette pur essendo protette sono in condizioni abbastanza buone o sufficientemente estese per avere ancora le funzioni ecologiche naturali di una wilderness. Credo che i mega parchi come il Kgalagadi – conclude Allan – siano importanti per l’Africa, proprio per i grandi mammiferi che li abitano.

Ma bisogna stare attenti a usare la parola ‘primordiale’ per spiegare che cosa vuol dire wilderness. Ha un significato soggettivo e a molti non piace. Meglio dire ‘ecologicamente intatto’ o ‘in buone condizioni ecologiche'”.
  

I leoni di Richard Lydekker

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È il 1758 quando Linneo trova un posto per il leone nelle scienze naturali, e nella storia umana, coniando il nome di Panthera leo. Ma con buona pace del padre onorario della tassonomia, gli impavidi cacciatori, e i ruvidi esploratori britannici, del secolo successivo, aggiunsero a quel nome il peso delle osservazioni dirette nelle savane orientali bruciate dalla stagione secca, tornando a riferire in patria, nelle sale ombrose dei musei di storia naturale, notizie più variegate su un predatore magnifico, di cui abbiamo scritto il destino in modo impietoso.

Fino a tutti gli anni ’70 del secolo scorso c’erano 24 differenti nomi per Panthera leo. Gli studi genetici sul DNA mitocondriale hanno ridimensionato l’ansia descrittiva di quel periodo, lungo, della storia naturale. Oggi, infatti, si ritiene che solo il leone berbero (estinto) e il leone asiatico (glorificato dai fregi degli Hittiti oggi al British Museum di Londra eppure ridotto a 500 esemplari nel Gir, in India) siano delle sottospecie. In questo palinsesto geografico e genetico vastissimo, la storia dei leoni della provincia britannica del Capo, in Sudafrica, è particolarmente articolata e si incrocia, ancora una volta, con la suggestione impressa nelle menti e nei cuori degli esploratori dai grossi maschi dalla criniera nera. La criniera nera assomiglia a un indizio cruciale in una indagine investigativa. Spunta sempre sulle pagine ispessite e ingiallite dei tomi ottocenteschi in cui è scritta, per sempre, la storia di Panthera leo.

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Per dipanare i fili ingarbugliati di ciò che era ancora possibile vedere in Africa agli inizi del Novecento, bisogna partire dal nome. Il cosiddetto leone del Capo (Felis capensis) venne identificato nel 1830; ma nel 1842 H.Smith parlava di Felis leo melanochaitus o melanochoetus, e ne precisava di nuovo il range nella provincia del Capo di Buona Speranza (Fonte: Southern African Mammals 1758-1951, British Museum Natural History London). Nel 2006, un paper pubblicato su Conservation Genetics (Lost populations and preserving genetic diversity) fissa il nome in Panthera leo melanochaita, definizione che circolava comunque nell’Ottocento. Da un punto di vista strettamente genetico, il leone del Capo non è separato dagli altri 20mila leoni africani esistenti. Molti di coloro che avvistavano il leone in quelle province vedevano maschi imponenti con la criniera folta e nera e pensarono che il leone del Capo dovesse essere un leone specifico del Capo con la criniera scurissima. Il capensis era anche melanochaitus.

Questa popolazione di leoni viveva nelle pianure interne del Sudafrica e ad occidente del Great Eastern Escarpement (che separa, in longitudine, i distretti occidentali, lungo la linea Capo-Kruger, dalle regioni centro orientali del Paese). Probabilmente questi leoni vennero sterminati tutti entro il 1850. Ma il colonialismo bianco aveva lasciato la sua impronta infame anche sulle faune del Capo, i cui leoni finivano in gabbia per allietare la buona società europea. L’Olanda possedette il Capo fino al 1814, quando gli Inglesi ne ottennero la sovranità definitiva, e la corona importava leoni per i serragli (menagerie) del re o dei dignitari di corte; nello zoo privato dello Stadtholder, Principe William V, ce ne erano diversi, tanto che il noto zoologo Peter Pallas che visitò l’Aja nel periodo 1763-67 poté descriverli a fondo.

È molto probabile che anche i leoni dipinti da Rembrandt fossero leoni del Capo, osservati da dietro le sbarre nell’Olanda coloniale. I loro parenti del Maghreb, i leoni berberi, avevano subito una sorte simile, pure loro catturati per morire in uno zoo, e presto portati all’estinzione dalla caccia e dagli svaghi alla moda nelle città fredde e inospitali del Nord. Fu così che dopo circa un secolo (1700-1850) si cominciò a cercare leoni negli habitat più umidi dell’Africa Occidentale, e dell’India. Per tutte queste ragioni, non è escluso che oggi esemplari in cattività in Europa posseggano ancora la linea di discendenza del leone berbero, e di quello del Capo di Buona Speranza.

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Considerato che da un punto di vista strettamente genetico il leone del Capo non era separato dagli altri 20mila leoni africani esistenti ai giorni nostri, ma sapendo che gli attuali leoni del Sudafrica sono in parte stati reintrodotti, proprio in conseguenza dell’estinzione delle popolazioni locali di Felis capensis tra la metà dell’Ottocento e l’inizio Novecento; nella consapevolezza scientifica che le roccaforti storiche di Panthera leo nel Paese sono oggi solo 3 (il Grande Kruger NP, il Kgalagadi Transfrontier NP e la Greater Mapungubwe Transfrontier Conservation Area) rimane una domanda aperta, e cioè se qualcosa della eredità genetica dei leoni del Capo è effettivamente rimasto nel Sudafrica attuale sul lato del Kgalagadi, dove sopravvive il mito turistico dei “leoni criniera nera”, e sul lato delle game reserves che da questo parco transfrontaliero con il Botswana hanno ricevuto esemplari reintrodotti. Attualmente, non ci sono ricerche sul campo che possano fornire dati a proposito. Ma il vuoto che il commiato del Felis capensis si è lasciato alle spalle è condensato nella geografia frammentata e monca delle popolazioni di leoni “intensively managed” del Sudafrica del XXI secolo.

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Craig Packer ha dimostrato che la criniera nera non è un tratto ereditario. Dipende, invece, da una molteplicità di fattori intrinseci ed estrinseci. E così, possiamo essere sicuri che i maschi criniera nera del Kgalagadi non sono una eccezione. Dove ci porta, allora, la paleo-storia del leone? Di certo, ciò che noi sappiamo e possiamo ricostruire, guardando alla specie nella sua interezza, è che il tracollo della megafauna del Pleistocene e poi, in una sincronia fatale, l’espansione delle popolazioni umane, hanno indotto un collasso del range di Panthera leo in ogni direzione; sappiamo anche che i leoni del Pleistocene appartenevano ad un linea evolutiva diversa rispetto ai leoni attuali.

Già negli studi condotti tra il 1987 e il 1997 è consolidata la consapevolezza che “le popolazioni più periferiche erano state ormai spazzate via in tempi storici”. Le variabili in gioco in questa condizione ecologica ormai riconosciuta sono sostanzialmente due. La prima è la contrazione catastrofica dei range disponibili, la seconda è la adattabilità ecologica di una specie come Panthera leo: un predatore di vertice, capace di adattarsi ad ambienti molto vari (come il giaguaro e la tigre, del resto). Infatti, come ogni specie di grossa taglia, dotata di un homerange molto ampio, anche i leoni mostrano una grande variabilità morfologica. Questo significa che più un predatore si è evoluto per occupare numerosi habitat, più aumenta la variabilità del suo fenotipo in quei tratti che risultano plastici, come appunto la criniera.

Fino a soli 100 anni fa i leoni africani apparivano molto diversi perché erano molto numerosi. Il collasso della specie non è stato solo quantitativo, questo lo leggiamo spesso sui giornali, lo diamo per scontato ormai, è stato anche un collasso qualitativo. Le differenze regionali, l’adattamento ambientale e climatico, le caratteristiche intrinseche sono tutti fattori che si combinano tra loro nel produrre, alla fine, la ricchezza evolutiva di una specie, il modo in cui un grosso predatore si è espresso lungo tutta la sua storia millenaria. Basta osservare le mappe con i range perduti per chiedersi se il leone non sia ormai giunto alla fine del percorso che l’evoluzione gli ha assegnato negli ultimi 100mila anni.

Tra Ottocento e Novecento, in mancanza di riscontri genetici, gli errori di classificazione si susseguivano proprio sulla scorta delle osservazioni dirette. Le controversie tassonomiche abbondavano tra gli zoologi che si occupavano di felini, non erano affatto rare, e questo perché le differenze regionali, finanche quelle della colorazione del manto, inducevano talvolta a credere di essere di fronte a specie e non a varianti locali. La difficoltà di capire correttamente quale fosse lo home range del leone africano come specie, a prescindere dalle popolazioni locali, sarebbe stata superata solo con l’analisi genetica.

Le macchie sono il tipo più comune di “connotato ornamentale” nella famiglia dei felini, ma il fatto che compaiono spesso in associazione con le striature ricorda che tutte le macchie attuali (le rosette del leopardo, le rosette che circondano una macchia nera nel giaguaro, le macchie aperte a nuvola del leopardo nebuloso e infine quelle evanescenti del leone africano) sono una variante di un prototipo ancestrale che si è poi evoluto lungo una filogenesi di spettacolare bellezza e diversità.

Una filogenesi che i britannici al tempo della regina Vittoria definivano cosmopolitan.

Lo stesso Neuman, che aveva collaborato ad altri compendi a più autori su grandi mammiferi africani grazie alla sua specializzazione sui felini, a quanto scritto in un articolo uscito nel 1900 sui Zoologische Jahrbuecher di Jena, riteneva, sbagliando, che il leone masaico (Massai-Loewe, in tedesco) fosse una forma distinta rispetto al leone somalo (Somali-Loewe).  Un compendio del 1899 – cui contribuirono i migliori in campo in quel momento storico, tra cui il Lydekker, il Kirby e lo stesso Neuman, e cacciatori come Selous  – edito da Arnold  A.J. Major e H.A.. Bryden ( Great and small games of Africa; an account of the distribution, habitats and natural history of the sporting manuals with personal hunting experience, London Rowland Limited 1899) raccoglie in una sintesi favorevolmente aperta a domande ancora inesplorate le conoscenze sui leoni africani date per attendibili al principio del nuovo secolo, un secolo che si sarebbe rivelato per loro fatale.

“Non ci sono due pelli esattamente identiche nella forma. I leoni in genere sono più scuri delle leonesse, ma queste ultime trattengono sulla parte bassa delle zampe i segni distintivi (bars) e le macchie (spots) dell’età infantile dichiarando così la loro discendenza  da un antenato con una colorazione meno uniforme (a less uniformrly – coloured ancestor). Qualche volta si incontrano anche  leoni senza un solo accenno di criniera; ma quando la criniera è presente, essa varia moltissimo in spessore e colore a seconda dell’individuo”. Il fotografo Deon de Villiers, che lavora in Botswana con Wilderness Safaris, è riuscito a scattare, nella Qorokwe Concession, una fotografia ad una leonessa che mostra, nelle zampe posteriori, esattamente questo tratto fenotipico, delle striature longitudinali sulle zampe posteriori.

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(Credits: Deon de Villiers)

Del resto, il Kirby, in questo stesso volume, aveva documentato pure una rarissima presenza di macchie sugli arti posteriori degli esemplari adulti: “i piccoli presentano striature trasversali e macchie fitte sugli arti. Questi specifici connotati vanno perduti con l’età adulta, e soltanto poche macchie rimangono nella parte bassa delle zampe negli individui maturi” (“litter are barred with transverse stripes and thickly spotted on the limbs. These marks are lost as they grow older, only a very few spots being retained on the lower limbs of adults”). A fine Ottocento si riteneva che il leone venisse da antenati striati proprio perché nei cuccioli queste striature erano ancora visibili.

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Queste testimonianze convergono tutte sul volume che Richard Lydekker, il quale conosceva il lavoro di Kirby e vi faceva sempre riferimento nelle sue descrizioni, curò venti anni più tardi (The game animals of Africa) e di cui abbiamo già parlato. La convinzione che nelle leonesse adulte persistessero le macchie risaliva infatti ad un periodo ancora posteriore, se è vero che nel 1896 lo Handbook of Carnivora – con la sezione dei felini curata proprio da Richard Lydekker – riferiva: “faint spots sometimes observable  on the flanks and under parts of the adult, especially in the lioness”. Qualche anno dopo, Lyddeker, ragionando secondo criteri tassonomici, avrebbe ascritto questa particolarità al Felis leo masaica, cioè alle popolazioni dell’Africa orientale tedesca che comprendeva anche la Tanzania, e ovviamente l’odierno Serengeti.

Lydekker fornisce dunque nel 1908 una fotografia scattata ad un esemplare in cattività, allo Zoologischer Garten di Berlino. L’allora direttore dello Zoo, Ludwig Beck, che scattò la fotografia, aveva ricevuto un maschio il 2 luglio del 1896, mentre questa femmina era arrivata a Berlino il 3 agosto 1905. Entrambi gli animali erano stati registrati sul giornale interno del giardino come Uncia leo massaica Neuman. Ancora il Neuman dunque, su cui Lyddeker sapeva di poter contare.

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Major e Bryden (che aveva una vasta esperienza in Botwsana) erano comunque consapevoli che il panorama ecologico del leone africano era quanto mai vario, al punto che le generalizzazioni potevano falsare la comprensione dei tratti caratteristici della specie, che si esprimevano anche sul piano etologico: “i singoli leoni di un singolo distretto geografico differiscono grandemente nel temperamento; i leoni del dottor Livingstone e le bestie misteriose (uncanny beasts) di Jules Gérard sono creature completamente differenti”.

Nella seconda metà dell’Ottocento i grossi maschi competitivi con criniere scure e folte erano più numerosi di quanto non siano oggi, forse per ragioni micro-climatiche o magari anche per una migliore fittness delle popolazioni nel complesso. C’erano più leoni e meno persone, radicalmente meno persone di quante ce ne siano oggi, e quindi i leoni stavano meglio. L’assottigliamento della diversità genetica causato dalla restrizione degli habitat e poi il progressivo isolamento geografico delle popolazioni hanno portato il leone nella condizione che gli studi più aggiornati sulla defaunazione mostrano in modo chiarissimo: prima viene una perdita irreversibile a livello delle popolazioni, poi arriva l’estinzione.

La storia registrata negli archivi, quindi, riscrive parte del dibattito odierno sulle riserve come unica chance per il futuro del leone in Africa. Il Sudafrica ha già molto da dire in proposito, essendo l’unica nazione africana ad avere tre categorie di leoni, e quindi tre ipotesi sul loro futuro: quelli selvaggi, quelli delle riserve (sotto stretto controllo riproduttivo) e quelli allevati per essere massacrati dai cacciatori di trofei occidentali (cunned lions). Ed è infatti la storia passata e contemporanea del Sudafrica che ci dice che se anche le riserve arginano adesso l’emorragia di una specie ben poco hanno a che vedere con la distribuzione geografica e la diversità genetica di un predatore capace di adattamenti su scala continentale.

C’è pur stata un’epoca in cui l’esploratore italiano Vittorio Zammarano diceva della regione somala dei fiumi Ueli-Scebeli ciò che adesso possiamo dire solo del Botswana: “Non credevo, a dire il vero, che esistessero in Somalia dei leoni abituati, come le tigri in India, a passare le loro giornate negli acquitrini”.

La paleo-storia del leone africano è inscritta nelle nostre esperienze umane, insieme ai fori e ai solchi lasciati dai proiettili dei cacciatori, e poi anche alle stoppie dei campi di mais che hanno preso il posto delle savane. Ha scritto Jorge Louis Borges: “un uomo si propose il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. Noi ci siamo ormai incamminati in quel labirinto insieme al leone, ma procediamo ad occhi bendati e troppo sicuri del nostro senso dell’orientamento.

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Ringraziamenti: Wilderness Safaris, Enrico Muzio del Museo di Storia Naturale di Milano per il generoso e puntuale aiuto nella ricerca bibliografica e a tutto lo staff della Biblioteca del Museo

Spotted lions?! I leoni di due secoli fa

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I grandi cacciatori di inizio Novecento battevano l’Africa con un fiuto selvatico; le grandi savane occidentali e orientali erano per loro teatro di qualcosa che esplodeva davanti agli occhi dei colonizzatori bianchi: l’immensità dello spazio. Alcuni animali furono i protagonisti di una stagione iniqua della storia europea sul continente, una storia di disprezzo e ingiustizia, e però anche di esplorazioni spericolate, acritiche, arroganti, condotte da gente che raccoglieva notizie sugli animali senza le aspettative di un ricercatore, o la tenerezza di un ambientalista. Il leone è forse il più importante.

“The roar is one of the most marked characteristics of the lions; and, when heard at night pealing through the forest, is inexpressibly grand – almost, if not quite, the most sublime sound in nature. When several lions are roaring in concert, near the listener, the volume of sound is tremendous, the air vibrating and the ground trembling. Heard amidst the uproar of a tropical night’s storm, when the litghting’s flash rends the sky in twain, leaving pitchy blackness behind, it is truly awe-inspiring”, scrisse F.Vaughan Kirby nel 1899 parlando del leone del Capo di Buona Speranza. Lo reincontreremo più avanti.

Sono pagine come queste che fecero nascere il “mito” del leone per gli Europei, un archetipo che non è ancora svanito e che sostiene l’illusione che i leoni siano ancora abbastanza numerosi da far vibrare le savane nelle notti di tempesta.

Non è purtroppo così: la specie sta collassando ad una velocità difficilmente percepibile (il turismo in Tanzania, Kenya, Namibia, Botswana e Sudafrica è potentemente incentrato sulla presenza dei predatori): -43% in termini numerici negli ultimi venti anni, secondo il network Panthera, e soprattutto una perdita di habitat originario del 75%. Oggi, il detto romano “hic sunt leones” non è più un toponimo istintivo, ma un ricordo sfumato. Ma, fino a che punto sfumato?

Dai tempi dei circhi imperiali del primo secolo dopo Cristo, sin dentro il regno della regina Vittoria nel Novecento, ad essere cambiato per sempre è solo il numero dei leoni africani o c’è qualche cosa in più?

Il film del 1996 The Ghost and the Darkness racconta la storia di due leoni maschi che attaccarono per mesi gli operai impegnati nella costruzione della Uganda Railway sul fiume Tsavo, in Kenya. Gli animali – stupendi – scelti dalla produzione avevano il tratto generalmente più apprezzato dai non esperti in un grosso maschio, e cioè la criniera: foltissima e marrone intenso. Un errore madornale, perché i maschi, in habitat molto caldi, possono avere criniere ridotte al minimo (erano così quelli del Cameroon e del Senegal rimasti ormai solo una leggenda orale).

Ma la criniera è un indicatore fondamentale per numerosi aspetti fisiologici, ambientali e comportamentali della specie, come ha documentato Craig Packer in un quasi ventennale studio tra Serengeti e NgoroNgoro, in Tanzania (Science, VOL 297, 23 August 2002). Ai giorni nostri, nel Kgalagadi, tra Sudafrica e Botswana, le guide turistiche parlano di “leoni dalla criniera nera”, di cui Google riporta ottime fotografie. Il Kgalagadi fa parte di un enorme scacchiere geografico, che si estende su Sudafrica nord occidentale, Botswana e Zimbabwe occidentale ( lo Okavango-Hwange Ecosystem) che rappresenta il secondo bacino numericamente e geneticamente più consistente rimasto alla specie.

Che tipo di variabilità fenotipica rimane in questo habitat ancora abbastanza integro da essere ormai insostituibile per il futuro delle grandi faune africane sotto l’equatore? Questa storia comincia proprio dai leoni criniera nera del Kgalagadi. Sono da soli? O i grandi reportage, in genere, sono focalizzati sui parchi nazionali più famosi dove i leoni presentano un colore più dorato, con criniere color cioccolato?

Craig Packer puntualizza che “gli effetti dell’ambiente sui tratti morfologici possono essere sostanziali, addirittura più decisivi degli effetti genetici e dei vantaggi riproduttivi”. La criniera, in particolare, è un tratto altamente plastico nel leone africano, molto sensibile alle temperature.

Soprattutto, continua Packer “subspecies differences in mane characteristics may have a genetic component, but individual males can grow longer manes when moved to cooler habitats”. La criniera nera non è una eccezione: dipende dal livello di testosterone (più è scura, più alta è la quantità di ormone in circolo) e dall’età, ma in un adulto può addirittura variare mensilmente da un mese all’altro. E però non è un tratto ereditario (“we could find no measurable signs of inheritability”).

L’importanza delle condizioni ambientali sul fenotipo fa sì che le criniere siano più scure negli habitat più freddi, aspetto che è stato ben documentato nel Serengeti e nel cratere di NgoroNgoro, hot spots contigui in cui però le differenze sono chiaramente osservabili: “The floor of the Crater is surrounded by cool highlands; the Serengeti woodlands are adjacent to the hot, humid Lake Victoria basin”, infatti “NgoroNgoro males have the darkest manes as adults, whereas those born in Serengeti woodlands have the shortest manes”. Per tutti i leoni, conclude Packer, vale che “mane are darker during the cooler months of the year, and males that reach adult size during hotter-than-average years mantained significantly shorter manes throughout their lives”.

Noi abbiamo perso gli habitat freddi del leone, che coincidevano sostanzialmente con il Nord Africa, e con la catena montuosa dell’Atlante. Nell’Ottocento, in queste regioni, il leone veniva chiamato il sultano dell’Atlante e anche il monarca dell’Africa. Un raccolta di memorie del 1856 – Gerard, the lion killer (New York, Derby and Jackson 1856, translated by Charles H. Whitehead)  – racconta cosa vide sulle colline di Zerazer e nella valle di Mahouna, attuale Algeria, il cacciatore francese Jules Gérard, che vi trascorse un decennio.

La gente del posto, suffragata da testimonianze orali di europei, usava parlare di 3 tipi di leoni: uno nero, uno rossiccio o fulvo e un terzo grigio. Gli Arabi avevano 3 nomi diversi per questi felini (rispettivamente, el aldrea, el asfar, el zarzouri). Le differenze nel manto corrispondevano ad altrettante varianti comportamentali: il leone nero era quello più temuto, perché aveva una testa più possente, e anche le spalle e le zampe erano più robuste. La criniera era ugualmente nera, folta e molto lunga, tanto da scendere fino a terra.

Secondo Gérard, questo leone non si spostava – come gli altri – ma rimaneva fino a tre decenni nello stesso posto, un lasso di tempo decisamente fantasioso visto che la vita media di un leone è attorno ai dieci anni. E’ molto probabile che i leoni su cui si intrecciavano immaginazione e mito fossero grossi maschi altamente competitivi come quelli descritti da Packer nel Serengeti.

Il naturalista e biogeografo R.Lydekker (membro della Zoological Society e curatore di paleontologia al Natural History Museum di Londra), nel suo ricchissimo compendio sui big games, le prede più ambite di ogni cacciatore britannico, siamo nel 1908, riassume e uniforma le altre fonti disponibili identificando il leone dalla criniera bruno scuro, foltissima, nel Felis leo barbara, e cioè il leone della terra dei Berberi, il Maghreb appunto. Non si trattava solo di voci, ma di conoscenze condivise.

Anche Owen Lechter (Big hunting in North Western Rhodesia, London, John Long limited 1911), che partì dall’Inghilterra per la Rhodesia con il sogno (poi frustrato) di abbattere un maschio adulto, sapeva che, se avesse incontrato un leone nel bush, il felino non avrebbe avuto “such fine black manes as the North African lions”. Infatti, Owen era ben consapevole che “lions grow much finer manes in cold than in hot climates, and this may account for the absence of really  good manes in the majority of the Northeastern Rhodesian animals”.

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Questi esemplari dovevano nondimeno essere abbastanza frequenti da lasciar supporre che appartenessero ad una specie separata, e, d’altro canto, abbastanza maestosi da colpire i cacciatori occidentali che si scambiavano descrizioni omogenee, tanto quanto quelle odierne composte dalle foto dei turisti nelle savane orientali. Per gli inglesi e i francesi di inizio Novecento, il leone algerino era nero.

Quanto alla criniera nera, però, è pur vero che compariva un po’ dappertutto in Africa, forse più frequentemente di oggi. La sua presenza è registrata dai taccuini dei cacciatori anche in Rhodesia (rara, ma possibile), in Africa centrale e nella Colonia del Capo, dove era “enormously long, thick and black” (Lydekker).

Anche il leone del Capo si riteneva fosse una specie a parte (tra Ottocento e Novecento la classificazione tassonomica tendeva a privilegiare le differenze di fenotipo arrivando a classificare tutti i leoni africani in specie separate su base regionale), il Felis leo capensis, cacciato fino all’estinzione alle soglie del XX secolo. L’estirpazione del leone dal Capo è una storia cruenta, che ci dice come, sempre e ovunque, le premesse della conservazione siano state scritte nel passato, e che nessuna politica ambientale attuale è una carta intonsa e limpida.

L’esperienza che gli esseri umani hanno consumato con gli animali è inesorabilmente storica. Scrive Lydekker con una nota di amarezza: “the steady march of civilisation in South Africa has considerably limited the range of the lion; and as the vast herds of game upon which it depend for food have been swept away, it has been forced to retire into remoter regions. From much of the South Africa of Gordon Cumming it has vanished completely; while many parts of Mashona-Matabililand and the Transvaal will never again resound with its mighty voice. A few lions linger in Zuzuland, Swaziland, Amatongaland and the Libombo range; and they are still numerous in the wilder parts of Rhodesia, Ngamiland (NB, attuale Botswana, Okavango Delta, Moremi Game Reserve), Khamaland, along the Limpopo river, and in the Matamiri bush”.

Ancora oggi, in alcune delle regioni elencate qui, la rimozione delle prede naturali del leone è un fattore di stress sempre più grave per la specie. Il bushmeat è il silent killer del leone africano secondo il network Panthera, e un recente studio fondato su una raccolta dati approfondita è appena uscito su Biological Conservation proprio sul delta dell’Okavango ( Illegal bushmeat hunters compete with predators and threaten wild herbivore populations in a global tourism hotspot, Biological Conservation 210 (2017) 233-242).

Ciò che rimane della  “leggenda” dei leoni criniera nera è, forse, oggi, ristretta al Kgalagadi in avvistamenti abbastanza numerosi da diffondere sul web, e nei circuiti degli eco-safari, la voce della loro presenza (tswalu.com ad esempio). Certo, per ora mancano studi genetici in grado di dire di più su un tratto – la criniera nera – che è comunque inscritta nel fenotipo della specie.

Il capitolo sul leone di Ronald Nowak, un “classico” sui mammiferi, (Mammals of the World, The John Hopkins Press 1999) è basato sulla straordinaria mole di osservazioni raccolte nel Serengeti da George Schaller negli anni Settanta del secolo scorso. Trenta anni fa le variazioni di colore nel manto erano ancora evidenti: “The coloration varies widely, from light buff and silvery gray to yellowish red and dark ochraceous brown. The male’s mane is usually yellow, brown or reddish brown in yiunger animals, but tends to darken with age and may be entirley black”.

Quel che sappiamo, grazie anche alla serie di dati analizzati da Craig Packer, è che il binomio temperatura/colore criniera ha un potenziale  notevolissimo nel determinare l’aspetto di un leone, e che il cambiamento climatico nei prossimi decenni ne testerà tutto il peso. In altre parole, in un futuro ormai imminente, anche questa condizione (oltre alla frantumazione degli habitat, al bracconaggio, al bushmeat) modificherà i leoni africani.

Lo studio di Packer porta ad una conclusione che chiama in causa i cambiamenti ambientali che i sistemi a savana subiranno nei prossimi decenni: “Altough we could find no heritability in darkness, mate choice for dark manes might confer indirect genetic benefits as well as direct fitness effects. Heat appears to be the dominant ecological factor shaping the lion’s mane (…) Long term climate forecasts predict an increase of 1.3 °C to 4.6 °C in the region by the year 2080; thus manes are likely to become shorter and lighter in these populations”.

Lungo una sequenza consequenziale sottilissima, eppure inderogabile, il petrolio e il carbone riusciranno infine a influire anche sull’aspetto del più grande felino africano.

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Nel manuale ufficiale della IUCN sui carnivori del Pianeta ( Handbook of the mammals of the world, 1.Carnivores, Lynx Edicion 2009, In Association with IUCN) si legge: “The coat patterns of juvenile lions chealrly show that this species also has rosettes (…) The basic function of coat pattern is clearly that of camouflage, and the differences between species can in most cases be explained in terms of habitat differences”.

Chiunque abbia avuto l’opportunità di vedere da vicino un leone in un parco nazionale africano sa di cosa si sta parlando: evanescenti, le macchie dei giovani sub-adulti rimandano all’antenato comune  di tutti i felini,e allo schema primitivo del manto, che era maculato. Leopardi, ocelotti e giaguari portano ancora il testimone di questo paleo-capitolo dei loro legami genetici.

Ma qui c’è anche dell’altro, perché gli autori si riferiscono a delle differenze ambientali che modellano il “camouflage” dei leoni. I cacciatori e gli esploratori del secolo scorso – le stesse fonti che ci hanno accompagnato nella scoperta dei leoni criniera nera del Nord Africa e del Serengeti – riferiscono notizie sbalorditive.

Nel 1914, Rowland Ward (Records of Big Games”, London, Rowland Ward Limited 1914, The Jungle, 167 Piccadilly) nota che “The East African lions (Felis masaica) is distinguished by the persistence in the adult, especially the female, of the chocolate spots of the cubs”. Anche Lydekker riporta le stesse notizie, sottolineando che è soprattutto la femmina che ha la parte interna delle zampe posteriori “with large chocolate spots; and the lion is also spotted in much the same manner”.

L’Africa orientale sotto dominio tedesco in quel periodo corrispondeva al Burundi, al Rwanda e alla Tanzania. Forse qualcosa di simile era stato scritto sui diari di viaggio anche in Abissinia e Somalia, se Lyddeker si può permettere di aggiungere che i leoni di queste regioni sono grigio-giallognoli, hanno grandi orecchie e una lunga coda e “often more or less spotted”.

Craig Packer, rispondendo via mail a questo interrogativo, se fosse davvero possibile che esistessero leoni maculati in Africa, non ritiene che queste notizie facciano riferimento ad un tipo di leone drammaticamente diverso da quelli che vivono oggi nei medesimi habitat: “Young lions have spots and these spots usually remain visible until they are about 2 years of age – but a few older animals retain their spots, especially on their flanks”.

Philippe Bouché, un esperto di genetica della specie che fa ricerca nella W-Arli-Penjabi, l’area protetta transfrontaliera tra Burkina Faso e Niger in cui persiste l’ultima popolazione di leoni occidentali, conferma che “adult West African Lions, like any other lion don’t have spots. Maybe the author confound it with a leopard or a young lion”. Bouché aggiunge che il DNA ha rivelato che i leoni occidentali sono più strettamente imparentati con i leoni asiatici (di cui rimangono circa 600 in India) che con quelli dell’Africa sud-orientale.

La mappa si infittisce, e perde forse chiarezza. I frammenti e le tracce del secolo scorso rendono opaca la realtà odierna, perché lasciano intuire un passato in qualche modo più variegato e ricco del nostro presente. Oggi il leone è minacciato, assediato, le sue popolazioni frammentate (Fences divide lion conservationists, by Traci Watson, 322 NATURE, vol 503, 21 November 2013).

Ma la formula IUCN “a rischio di estinzione” (che non è ancora ufficiale per il leone) disseminata sui media di tutto il mondo non riesce più a descrivere la storia di una specie fino a 100 anni fa strepitosamente diversificata e capace di adattamenti ambientali eclettici che sono oggi un pallido ricordo. La chiude, la mette invece sotto chiave, nei confini pur indispensabili della tassonomia, che non possono però possedere più il sapore acre e aromatico delle colline blu di Muchiga, in Zimbabwe. Per quanto imprecise, frettolose o talvolta scorrette le note di un taccuino o di un vecchio diario – come una opera di letteratura di valore mediocre unica sopravvissuta al rogo di una immensa biblioteca antica – sono fotogrammi che danno la misura del tempo concesso ad una specie.

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(le foto di archivio sono state scattate al Museo di Storia Naturale di Milano)