L’atmosfera è un serbatoio di microplastica

L'atmosfera è un serbatoio di microplastica. Una bottiglia finita in mare col tempo si trasforma in particelle microscopiche talmente leggere da rimanere in sospensione nello spray di acqua e sale sulla superficie delle onde. E da lì in atmosfera.
(L’atmosfera è ormai diventata un serbatoio per le microplastiche)
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L’atmosfera è diventata un serbatoio di microplastica. Perché è un trasportatore globale di microplastica e la sua fonte di rifornimento sono soprattutto gli oceani. Se pensavamo di poter circoscrivere l’inquinamento da plastiche microscopiche, ci sbagliavamo di grosso. Oggi, questo tipo di plastica “esattamente come gli altri cicli geologici, biologici e chimici, che funzionano su scala globale, vortica attorno al globo seguendo diverse modalità di circolazione nell’atmosfera, negli oceani e nei ghiacci, con differenti temi di deposizione e di permanenza sulla terraferma”. 

Si può quindi parlare di un “ciclo della plastica”, ossia di meccanismi di movimento della plastica attraverso i sistemi biologici ed ecologici del nostro Pianeta. La plastica è insomma entrata nel “flusso” costante e ininterrotto di sostanze che circolano negli ambienti naturali e urbani.  Questi i risultati dello studio uscito sulla PNAS lo scorso aprile (Constraining the atmospheric limb of the plastic cycle) firmato dal gruppo di ricerca di Janice Brahney, della Utah State University (Stati Uniti).

Già a giugno del 2020 il team della Brahney aveva pubblicato su SCIENCE un articolo inquietante sulla “pioggia” di microplastica che cade ogni anno sui parchi nazionali degli Stati Uniti Occidentali, sulla carta i più intatti e selvaggi del Paese. Anche stavolta i dati usciti su PNAS riguardano le regioni occidentali degli USA e disegnano però un quadro ampio sull’intero ciclo della plastica. L’obiettivo della ricerca era capire da quali fonti proviene la microplastica che, veicolata dall’atmosfera, si deposita a terra: “i risultati suggeriscono che, negli Stati Uniti Occidentali, le microplastiche in atmosfera derivano primariamente da fonti di immissione secondaria, che includono le strade (84%), l’oceano (11%) e il suolo polverizzato di origine agricola (5%)”.

Tutti i continenti, tuttavia, sono “importatori netti di plastica dall’ambiente marino, fatto che richiama l’attenzione sul ruolo sul carattere ereditario dell’inquinamento da plastica attraverso l’atmosfera”. I limiti stessi della ricerca parlano della serietà del problema. La Braheny ha preso in considerazione solo microplastiche con un diametro tra i 4 e i 250 micron: “particelle più piccole potrebbero avere un tempo di permanenza più lungo (settimane invece che ore)”. In termini generali, quindi, “non è noto quanta microplastica più piccola di 4 micron ci sia in atmosfera e neppure il suo comportamento”.

I dati mostrano che la plastica, ormai, è parte integrante del suolo, delle acque marine ed oceaniche e quindi anche delle comunità animali e vegetali e dell’atmosfera. Alcuni punti sollevati dallo studio sono particolarmente importanti. Innanzitutto, “l’importanza dell’atmosfera come trasportatore e serbatoio di plastica”. Le particelle grezze con diametro inferiore ai 2.5 micron “entrano in atmosfera attraverso processi meccanici, come ad esempio la polvere sollevata da forti venti o l’azione del vento stesso o anche lo spray generato dalle onde in movimento sulla superficie del mare”. 

“Le analisi che ricostruiscono a ritroso il percorso di questa plastica hanno dimostrato che soltanto una piccola porzione (dal 10 al 25%) del totale della plastica depositato in località remote è attribuibile a emissioni dirette provenienti dai centri abitati. La maggior parte della massa depositata, invece, è stata collegata direttamente a schemi atmosferici  su ampia scala”. 

Il problema della plastica nelle acque oceaniche ha quindi due facce. La prima, quella più evidente, sono i rifiuti in superficie, le isole di plastica galleggianti. La seconda è la plastica invisibile a occhio nudo prodotta dalla dinamica degli oceani e dalle condizioni climatiche, che frantumano gli oggetti liberandone le molecole. Queste particelle sono abbastanza leggere da essere sollevate nell’aerosol di acqua e sale che sta in sospensione sopra le onde. Da qui i venti le immettono in atmosfera e le riportano sulla terraferma.

E pi vengono le auto. Come già sappiamo da tempo, freni e pneumatici contengono plastica, che viene liberata in formato microscopico ogni volta che si schiaccia il pedale del freno e tramite l’attrito della gomma sull’asfalto. Non importa se il veicolo è elettrico, ibrido o a benzina. Anche questa microplastica, prodotto di scarto del traffico quotidiano, rimane sospesa in atmosfera. 

Anche le strade, però, emettono microplastica. Qualunque oggetto abbandonato, scaricato o lasciato per strada viene prima o poi rotto, spaccato od ossidato sotto i raggi del sole. E così i suoi frammenti plastici, sempre più piccoli, entrano in circolo galleggiando nell’aria. A tutto questo va aggiunto il fatto che è ormai invalsa la pratica di aggiungere plastica all’asfalto stradale. 

Le “plastic road” sono balzate al centro dell’attenzione negli ultimi anni, per il ruolo che potrebbero avere nel riciclo di un certo tipo di plastica: shopping bag, bottiglie, confezioni alimentari.  L’India è il Paese che sta puntando di più su questo mix di materiali. Secondo la serie Future Planet della BBC, “oltre che assicurare che la plastica non vada in discarica, in un inceneritore o nell’oceano, ci sono prove concrete che la plastica migliori le strade, rallentandone il deterioramento e riducendo al minimo le buche”. Nel 2015, il governo indiano ha stabilito che è obbligatorio usare plastica di scarto per la costruzione delle strade in prossimità di grandi città o di centri abitati con più di 500mila persone. In Scozia, riferisce sempre la BBC, un cartello della MacRebur, colosso nella costruzione di strade, annuncia orgogliosamente ai viaggiatori che stanno percorrendo una statale assemblata con bottiglie di plastica riciclate. 

YALE360 ha fatto il punto della situazione globale lo scorso 11 febbraio. La pavimentazione stradale potrebbe essere un campo di efficace applicazione dell’economia circolare sulla plastica. Anche in Paesi economicamente svantaggiati, come il Ghana, che nel 2018 ha deciso di andare in questa direzione. 

YALE360 ha pubblicato una dichiarazione ufficiale di Heather Trouman della National Plastic Action Partnership del Ghana: “è difficile riciclare la plastica. È costoso, complicato, richiede diverse tecnologie, e così, purtroppo, bruciarla risulta più facile. Ma se noi le attribuiamo un valore, la plastica non finirà in una discarica, o bruciata: e non finirà neppure nell’oceano”. Un auspicio che sembra sconfessato dai risultati dello studio della Brahney. 

Anche l’agricoltura moderna su base estensiva emette plastica. Anzi, “i campi agricoli sono verosimilmente hotspot di plastica concentrata nel suolo”. La plastica arriva nel suolo agricolo attraverso i fertilizzanti prodotti dal trattamento dei rifiuti solidi organici. Questi fertilizzanti, a loro volta, contengono microplastica perché l’hanno assorbita dalle acque di scarico durante il processo di trattamento. 

Non disponiamo di evidenze chiare sugli effetti di lungo termine di una contaminazione da plastica del suolo agricolo. Benché si parli molto di “consumo di suolo” è insomma arrivato il momento anche di porsi domande sulla qualità del suolo da proteggere. Devono essere affrontate entrambe le questioni e in sinergia l’una con l’altra. 

Secondo un altro studio pubblicato da FRONTIERSIN il 28 aprile e condotto da ricercatori della Freie Universität di Berlino e dal Berlin-Brandenburg Institute of Advanced Biodiversity Research, i principali imputati di questo tipo di inquinamento sono il poliestere, il polietilene, il poli-acrilico e il polipropilene. Queste plastiche sono presenti anche nella cosmetica, ma le più diffuse sono quelle di origine tessile, “che si trovano comunemente nelle acque di scarico, e che hanno un diametro che varia da 0.3 a 25.0 millimetri”. 

Sembra che queste fibre possano influenzare la qualità del suolo perché interferiscono con il modo in cui il terreno regola e immagazzina l’aria e l’acqua, la cosiddetta “capacità di aggregazione”. Più il suolo è stabile, più è aggregato e più è fertile perché resiste meglio all’erosione e trattiene meglio l’acqua. Le microplastiche si integrerebbero con la struttura del terreno interagendo con i suoi processi organici “portando ad una conseguente destabilizzazione” della struttura molecolare del suolo. 

Anche il clima deve entrare coma variabile tutta da comprendere nella routine della microplastica tra atmosfera, oceani e terraferma. La Braheny ha esaminato regioni aride, con poche precipitazioni. Dove piove di più è possibile che la pioggia eserciti un effetto di lavaggio almeno sulle strade. Ma, ancora una volta, si tratta di un problema spostato altrove: le microplastiche scivolano via, ma non scompaiono. 

Rimangono aperte molte domande, sui centri abitati: “le strade europee rilasciano più plastica di quelle americane a causa dei polimeri aggiunti all’asfalto come agenti leganti? La densità di popolazione è un indice predittivo migliore per la capirne la diffusione?”.

Sull’agricoltura, che dovrebbe diventare “sostenibile”: “Come variano le concentrazioni di microplastica nel suolo agricolo in Paesi che impiegano differenti pratiche di coltivazione?”.

Sulle aree costiere: “Come variano le emissioni contenute nello spray di acqua marina lungo le coste? I cambiamenti nella circolazione oceanica hanno un ruolo?”

Sulle interazioni tra microplastiche e clima: “In maniera analoga ad altre particelle insolubili come la sabbia del deserto, la microplastica presente in atmosfera agisce sui nuclei di condensazione o più probabilmente sulle microparticelle dei cristalli di ghiaccio?”. 

E, infine, la domanda che probabilmente sta più a cuore all’opinione pubblica: tutta questa plastica, è dannosa?

Se lo è chiesto anche NATURE un mese fa, pubblicando una vasta indagine sul tema firmata da XiaoZhi Lim. Intanto, i numeri: “da fonti di microplastica come l’aria, l’acqua, il sale, pesci e crostacei, bambini e adulti potrebbero ingerire, ovunque si trovino, da qualche dozzina a più di 100mila pezzi di microplastica al giorno”. L’equivalente di una carta di credito all’anno. 

Non ci sono risposte univoche e consistenti, cioè fondate su serie di dati sufficientemente solidi. E questo perché sono proprio i dati a mancare. Intanto, finora “nessuno studio pubblicato ha ancora esaminato direttamente gli effetti delle particelle di plastica sulle persone”. Finora si è lavorato, per quanto riguarda l’essere umano, su cellule o tessuti. Un centinaio di laboratori in tutto il mondo ha studiato sopratutto organismi marini.

Ci sono poi delle costrizioni metodologiche. Le microplastiche sono presenti attorno a noi in una ampia varietà di forme, volumi e composizione chimica. Bisognerebbe dunque approntare test di laboratorio e ricerche sul campo molto diversificati. Molti studi, avverte sempre Lim, hanno esaminato materiali che non sono frequenti nell’ambiente. 

Un altro fronte ancora sono le nanoparticelle di plastica (con un diametro inferiore a 1 micrometro) che non sono rintracciabili e quindi isolabili per essere studiate. L’ipotesi è che, una volta ingerite, le nanoplastiche si comportino come le fibre di amianto o i particolati da combustione, il Pm10 e il Pm2.5. Per ora non sappiamo neppure quanto rapidamente la microplastica si muova all’interno del nostro organismo e come possa o meno depositarsi nei tessuti del nostro corpo. 

La conclusione è che la ricerca ha davanti a sé un lavoro immane. In una condizione del genere lo sforzo di comprensione del rischio ecologico non può fare a meno di confrontarsi con i numeri che quantificano il pericolo. La plastica buttata, pronta a diventare, in un modo o nell’altro, microplastica da qualche parte là fuori, o fra le nuvole, potrebbe arrivare a 380 milioni di tonnellate entro il 2040. 

Il 3 luglio prossimo entrerà in vigore anche in Italia la Direttiva Europea che vieta l’uso della plastica monouso. Mentre le polemiche politiche già imperversano, sarebbe meglio capire un po’ meglio quale è la posta in gioco. Dove fa a finire la plastica? Con quali conseguenze sistemiche? 

Di plastica, e di microplastica, si parla sempre di più. E non solo per via delle preoccupazioni ecologiste, che ben poco impatto hanno sulla politica nuda e cruda. Se ne parla sopratutto perché cresce la consapevolezza, in ambienti scientifici, su quanto poco sappiamo del comportamento della plastica una volta resa disponibile negli ambienti attorno a noi.

Ignoriamo, in definitiva, che cosa sta accadendo non solo a tutta la plastica che abbiamo già immesso in biosfera, ma anche quello che accadrà a noi man mano che la nostra intimità ecologica con la plastica si farà più scottante. 

Qualunque misura finalizzata a contenere il problema, cioè a ridurlo, dovrebbe essere prioritaria. Servirebbe per guadagnare tempo, in attesa che la ricerca scientifica possa fornire più certezze e quindi migliori margini di intervento. Non è inusuale che per una questione di tale portata non esistano soluzioni prét-a-porter, o che sopravvivano zone d’ombra nella legislazione che classifica su quale prodotti monouso cominciare ad applicare limitazioni giuridiche significative. Questa flessibilità fa parte della nostra attuale condizione ecologica, spinta ad un punto di gravità tale da rendere di fatto nulle azioni salvifiche una tantum. 

Il punto non è quindi cercare la quadratura del cerchio, a qualunque costo, perdendo altro tempo. É invece invertire l’ordine di priorità e rivedere la nostra relazione economica con la “politica della plastica”. Come ha detto a Lim la ecotossicologa della University of Exter Tamara Galloway: “non ha senso produrre cose che dureranno per 500 anni e poi usarle per 20 minuti”.

Una sfasatura temporale perversa, che racconta, meglio di qualunque statistica, e di qualunque legge, da dove viene il problema della microplastica.

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