L’Africa ha bisogno dei combustibili fossili e il cambiamento climatico non può essere una scusa per tagliar fuori centinaia di milioni di africani dal diritto all’elettricità. L’Africa vuole decidere da sé su petrolio e gas. Questa la presa di posizione, fermissima, di NJ Ayuk, Executive Chairman della AFRICAN ENERGY CHAMBER, di Johannesburg, Sudafrica, un network di imprenditori, dignitari e soggetti governativi che collaborano per l’implementazione della reti energetiche sul continente.
Una bordata non da poco al perbenismo climatico di noi Europei. Un punto di vista sicuramente di parte, fuori stagione, che però contiene degli spunti di riflessione molto scomodi sulla nostra relazione culturale con l’Africa. E sul modo in cui continuiamo ad impostare la questione climatica.
Ayul ha sollevato la questione della autonomia decisionale dei Paesi africani nella transizione energetica: “dovrebbero essere gli Africani, e non della gente che viene da fuori con aria saccente, a decidere quando è il momento giusto per chiudere con i carburanti fossili in Africa, se mai avverrà.
Mettere sotto pressione l’Africa perché agisca in un altro modo è un insulto, un atteggiamento non certo migliore che gettarci aiuti stranieri presupponendo che gli Africani siano incapaci di costruire un futuro migliore per se stessi. È anche una forma di ipocrisia da parte di Paesi e persone che godono della sicurezza, della più lunga aspettativa di vita, dei comfort e delle opportunità economiche associate con una disponibilità di energia abbondante e affidabile, dire: Forza, Africa, è ora, basta combustibili fossili per te ! Misure estreme per tempi di emergenza !”.
L’intervento di Ayuk è in aperta polemica con le istituzioni occidentali come la World Bank e la Banca Europea per gli Investimenti (EIB) e di quello che Ayuk ritiene essere un approccio occidentale al problema del cambiamento climatico.
Ayuk, che ha ribadito le sue posizioni alla BBC in una intervista in diretta alle 6.30 del mattino lo scorso 3 marzo, ha scritto: “sono d’accordo sul fatto che il cambiamento climatico debba essere preso seriamente, ma non possiamo accettare risposte sull’onda di forti emozioni (knee-jerk).
Non possiamo derubare il nostro continente dei benefici significativi realizzabili con operazioni su petrolio e gas, grazie alle opportunità economiche fornite dalla monetizzazione delle risorse naturali in iniziative di importanza critica sull’energia prodotta dal gas.
Non sono assolutamente per uno stop sui programmi delle rinnovabili, devono essere implementate e spero lo saranno di più. Sto semplicemente dicendo che è troppo presto per un approccio aut-aut tra fonti verdi e fonti fossili”.
Dal futuro energetico dell’Africa dipende buona parte del destino energetico del Pianeta. E la ragione sta in un indice di analisi della realtà che continua ad essere il convitato di pietra del dibattito ambientale: la demografia umana. Lo ha spiegato con ricchezza di dettagli la EIA (International Energy Agency) nel rapporto AFRICA ENERGY OUTLOOK 2019.
“La popolazione africana è la più giovane del mondo, Entro il 2040 una persona su due al mondo sarà africana e nel 2023 il continente sarà più popolato della Cina e dell’India”. Questo significa che “più di mezzo miliardo di persone andranno ad ingrossare la popolazione urbana africana entro il 2040, più di quante ne abbia assorbite in 20 anni il boom economico ed energetico cinese”.
E tuttavia “oggi, 600 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità e circa 900 milioni di persone non possono cucinare con una fonte di energia pulita; finora, gli sforzi dispiegati per fornire i moderni servizi di uso dell’elettricità sono riusciti a fronteggiare in modo inadeguato la crescita della popolazione”.
Tutto questo, mentre le emissioni di gas serra del continente valgono solo per il 2% del totale mondiale. Un altro parametro, tuttavia, è ancora più indicativo: ad oggi, in Africa c’è il più basso indice al mondo di proprietà di un qualche apparecchio per la refrigerazione degli ambienti (condizionatore, ventilatore e così via). Eppure, riporta la EIA, nel 2018 le persone che avrebbero avuto bisogno di un condizionatore erano 700 milioni, che nel 2040 saliranno a 1200 milioni. Tutto questo in uno scenario di cambiamento climatico.
Sempre secondo lo AFRICA ENERGY OUTLOOK 2019, l’Africa negli anni a venire sarà sempre più una potenza globale sui mercati del petrolio e del gas: “la crescita prevista nella domanda di petrolio è più alta di quella cinese e seconda soltanto a quella dell’India, poiché il volume delle autovetture è destinato a più che raddoppiare (e la maggior parte di queste auto avrà una scarsa efficienza energetica) e il GPL (gas liquefatto) si sta imponendo come carburante pulito per cucinare.
Il peso crescente dell’Africa si fa sentire anche sui mercati di gas naturale, essendo il continente la terza fonte, al mondo, per il soddisfacimento della domanda di gas naturale”.
In anni recenti “una serie di scoperte significative di depositi di gas naturale sono avvenute in Egitto, Africa Orientale (Mozambico e Tanzania), Africa occidentale (Senegal e Mauritania) e Africa meridionale, che valgono, insieme, per il 40% delle scoperte di gas, nel mondo, tra il 2011 e il 2018”.
Nel cocktail energetico dei prossimi decenni avranno il loro posto il biogas, l’etanolo e il gas naturale: “la domanda di elettricità in Africa, attualmente, è di 700 terawatt/ora, con le economie del Nord Africa e del Sud Africa che valgono per il 70% del totale. Eppure”, continua la EIA.
“Sono i Paesi dell’africa sub-sahariana che fronteggeranno la crescita di domanda più consistente nella entro il 2040”. Il potenziale per il solare è enorme: ad oggi sono attivi impianti a pannelli solo per 5 gigawatts, meno dell’1% del totale globale, ma che potrebbero salire a 320 gigawatts nel 2040; l’eolico è in espansione in Etiopia, Kenya, Senegal e Sudafrica.
Ma ci sono anche altri fattori da considerare.
Elettricità vuol dire investimenti enormi non solo negli impianti di produzione, ma anche nelle reti di diffusione. Esigenza che si somma alle preoccupazioni ambientali per il boom di collegamenti infrastrutturali e le loro implicazioni sui restanti bacini di foreste e biodiversità. Il destino dei primati, e delle ultime popolazioni di grandi scimmie, è particolarmente buio e ormai in rotta di collisione con la fame di energia e di strade del continente, come hanno dimostrato numerosi studi recenti.
Le osservazioni di NJ Ayuk (la AFRICAN ENERGY CHAMBER non ha dato risposta ad una mia email con la richiesta di ulteriori delucidazioni) denunciano un nervo scoperto dell’intera costruzione negoziale, ma anche culturale, delle trattative sul clima.
La comunione di intenti globale sul passaggio alle rinnovabili ed ad una qualche transizione dalla economia fossile ad un modello più coerente con la catastrofe ambientale è solo una illusione.
I punti forti delle affermazioni di Ayul ci riportano indietro nel tempo, al 1992, quando la questione post-coloniale della giustizia climatica è diventata argomento politico. Sarebbe ridicolo sostenere che l’irrigidimento delle posizioni degli attori in campo si siano ammorbidite in questi 28 anni.
Quante volte abbiamo ascoltato un discorso serio, da parte di un politico o di un giornalista ambientale, sul disagio post-coloniale che serpeggia nelle trattative sul clima dal 1992? La risposta è fin troppo amara. Hanno ragione quanti cominciano a scrivere senza più paura che il discorso sul clima è un discorso fatto da bianchi per i bianchi.
Un esempio di questa miopia è il reportage spettacolare di Bill McKibben scritto per il New Yorker ( tra parentesi, lo stesso magazine per cui scrive Jonathan Franzen) nel 2017: The Race to Solar Power in Africa. McKibben, spostandosi tra Ghana, Costa d’Avorio e Tanzania, ha documentato il tipo di imprenditoria che sta ampliando il mercato del solare in Africa.
“Molti imprenditori occidentali vedono l’energia solare in Africa come una opportunità per raggiungere un mercato ampio e fare così dei profitti considerevoli”.
Questi imprenditori sono spesso persone che hanno lavorato nella Silicon Valley. Una degli intervistati, Nicole Poindexter, fondatrice e C.E.O. della Black Star, è stata trader sui derivati con una laurea ad Harvard. Lo stesso McKibben, arrivando negli uffici di una altra compagnia, la Off-Grid Electric ad Arusha, in Tanzania, ammette “l’atmosfera ricordava Palo Alto o Mountain View”.
Le domande poste da NJ Ayuk contengono, allora, quanto meno un legittimo dubbio.
Sulla pertinenza e sulla opportunità di espandere il discorso sul clima oltre la confortevole zona di benessere psicologico dell’Occidente.
Bisogna spostarsi sulle rinnovabili, ma farlo non è un passaggio indolore o una autostrada ad una sola corsia, come vorrebbero farci credere i sostenitori acritici di Greta Thunberg.
La faccenda è molto più complicata e coinvolge anche il retaggio culturale di stagioni storiche che vorremmo dimenticate, ma che sono ancora vive e vegete. Dire di sì ad una pala eolica potrebbe coinvolgere più sentimenti come il senso di colpa, o di rivalsa, che il buon senso.
E, signori e signori, la percezione dell’opinione pubblica è il più dirompente e sottovalutato dei fattori politici. Come ha detto Kate Marvel, climatologa del Goddard Institute for Space Studies della NASA: “You can’t put the legacy of colonialism in a climate model”.
E invece dovremmo farlo.
Potrebbero intanto partire ad aprile del 2021 i lavori per la costruzione della più lunga conduttura di petrolio al mondo, tra Uganda e Tanzania: lo East African Crude Oil Pipeline.
Questi i numeri: 900 miglia dal Lake Albert al porto di Tanga, Tanzania, sull’Oceano Indiano; 12 riserve naturalistiche e 200 fiumi attraversati; 500 pozzi di estrazione, 216mila barili al giorno. Ne avevo parlato lo scorso giugno (2019) su LA STAMPA, a proposito del futuro impatto ambientale nella foresta protetta di Minziro, Tanzania.
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