Il charcoal decima le foreste del Nord Africa. E le tradizioni religiose e culturali aggiungono un impatto devastante alla deforestazione, in ecosistemi già sottoposti ad uno stress ecologico dovuto alla combinazione di più fattori antropici.
È quanto sta accadendo alle ultime foreste del Nord Africa, e in particolare in Algeria, secondo una Lettera pubblicata il 27 agosto scorso su SCIENCE da Rassim Khelifa del Dipartimento di Zoologia della University of British Columbia, a Vancouver, in Canada, stanno crollando sotto la pressione del taglio sempre più massiccio di alberi destinati alla produzione di carbone da cucina, il cosiddetto charcoal.
Il charcoal è un combustibile destinato alla cucina diffusissimo in Africa: “il legname raccolto viene convertito in puro carbone lasciandolo bruciare sotto il terreno in un ambiente povero di ossigeno, che elimina l’acqua e concentra componenti del legno come il metano e l’idrogeno. Il risultato è una forma di energia che, all’accensione, sprigiona maggiore calore e rilascia meno gas rispetto al legno. Il charcoal pesa inoltre meno del legno, il che lo rende più facile da trasportare”, spiega una nota del CIFOR (Center for International Forest Research).
Nel Nord Africa, secondo Khelifa, l’uso di raccogliere legno già morto è una abitudine antica, ma le cose sono cambiate: “La domanda di carbone e il suo prezzo di vendita sono cresciuti e quindi le attività illegali per produrlo si sono moltiplicate”.
E la domanda è particolarmente elevata in prossimità della festività religiosa musulmana del sacrificio, lo Eid al-Adha, in cui le carni di pecora debbono essere cotte e cucinate sulla brace: “quest’anno in Algeria il numero di fuochi ha raggiunto un picco il 27 luglio (4 giorni prima dello Eid al-Adha) con 66 roghi simultanei in 20 province.
Negli anni a venire il picco potrebbe portare un sostanziale danno ambientale poiché lo Eid al-Adha cadrà durante l’estate, quando la stagione del fuoco nelle foreste è al suo culmine e contenere i roghi diventa difficile. Il modello produttivo e commerciale del charcoal è fatale per la salute delle foreste del Nord Africa dal momento che i profitti dalla vendita aumentano in proporzione alla estensione dell’area di foresta sfruttata. I fuochi impoveriscono il suolo, intensificano la desertificazione ed intensificano il cambiamento climatico”.
Tutto questo in un contesto biologico molto fragile. Secondo la Convenzione per la Biodiversità (CBD), in Algeria la biodiversità montana è molto ricca e la porzione del Paese che sconfina nel Sahara ha ecosistemi ancora pressoché sconosciuti alla ricerca scientifica. Il Paese ha 121 specie classificate in CITES e 75 sono minacciate di estinzione. Tra queste ci sono 14 specie di mammiferi e 11 di uccelli. La superficie della vegetazione nativa della steppa ha subito una riduzione massiva, del 50% dal 1989. Le specie più a rischio sono proprio alberi: il cipresso Tassili (Cupressus dupreziana), di cui rimangono solo 200 esemplari nella Tassili Biosphere Reserve, il pino nero (Pinus nigra) e il ginepro turifero (Juniperus thurifera), alberi magnifici che solo un secolo e mezzo fa prosperavano in foreste abitate anche dai leoni, oggi estinti.
C’è anche una altra tradizione in Algeria che minaccia la biodiversità locale, documentata sempre da Rassim Khelifa in un contributo su NATURE: la cattura e il mantenimento in cattività del cardellino europeo (Carduelis carduelis).
Gli autori hanno studiato “la domesticazione per motivi culturali del cardellino europeo nel Maghreb occidentale (Marocco, Algeria e Tunisia) e gli effetti di lungo periodo del bracconaggio sulle popolazioni selvatiche nel periodo 1990-2016, sulla distribuzione dello home range della specie, sul suo valore socio-economico, sul commercio internazionale e infine sul potenziale danno collaterale arrecato da tutto questo agli uccelli migratori sulle rotte Europa/Africa”.
Il cardellino europeo, dall’inizio degli anni ’90, ha perso il 56% della sua distribuzione, in concomitanza con l’instaurarsi di una rete di commercio di esemplari vivi in tutto il Maghreb.
“In Nord Africa, l’uso di un cardellino come pet risale alla dinastia degli Omayaddi, attorno quindi al 700 d.C., e raggiunge questa regione attraverso l’espansione del loro Califfato. Oggi è ormai parte della cultura di questi Paesi comprare e allevare in gabbia cardellini per via dei loro eleganti colori e della varietà del loro canto.
Nel Maghreb occidentale (Marocco, Algeria e Tunisia) il bracconaggio su scala industriale è cominciato nei primi anni Novanta. A seguito di una profonda crisi economica, il bracconaggio sul cardellino è diventato un lavoro e anche un hobby per le genti locali ,che mettono trappole per la specie tutto l’anno, anche durante la stagione riproduttiva.
Intrappolare gli uccelli e ucciderli è proibito nel Maghreb occidentale a partire dal 2004 in Algeria, dal 2007 in Tunisia e dal 1962 in Marocco, ma l’applicazione delle leggi sulla conservazione è spesso elusa e quindi l’efficacia di queste leggi è molto opinabile”.
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