
“Di futuro ce n’è tanto, e a causa della sua abbondanza è propaganda. Come l’erba”. Firmato Iosif Brodskij. Brodskij era nato il 24 maggio del 1940 a Pietroburgo (allora Leningrado) e quindi possiamo dire che di catastrofi, di eventi bellici e di rivoluzioni qualcosa ne sapeva. Parlare del futuro, quindi, secondo il futuro Premio Nobel per la Letteratura, è fare propaganda.
Le leggi del mercato ci insegnano che un bene ampiamente disponibile viene venduto ad un prezzo basso perché non è una merce ricercata, o rara.
Così sarebbe il futuro. Siccome nessuno sa cosa accadrà, quali ipotesi troveranno conferma nella realtà, il domani può essere dissipato in attesa di una maggiore chiarezza, o nella speranza di conferme, oppure, anche, nel desiderio che le previsioni fosche siano una allucinazione collettiva.
Entrambi questi atteggiamenti, la dilazione continua, tipica della politica, e l’utopia edulcorata, appannaggio dei personaggi alla Greta Thunberg, strumentalizzano il futuro senza uno scopo preciso se non quello di dissolvere nel nulla il bruciante, spietato e indigesto realismo che invece servirebbe spargere a piene mani per scongiurare il peggio.
La nostra epoca manca di consapevolezza. Ma non perchè non si abbia coscienza del pericolo ambientale.
“Oggi la questione più dirimente delle nostre vite non è la nostra incapacità di pensare la crisi ecologica. C’è un dissesto culturale ed intellettuale, che poi si fa disagio sociale inconscio, ancora più radicale. Prima ancora che parlare di ambiente o di natura incontaminata dovremmo imparare a porci questa domanda: in quale epoca viviamo? (…) La consapevolezza della propria epoca, tuttavia, non è scontata. Non si forma spontaneamente nelle coscienze. Non è una reazione psicologica automatica. Si può vivere una vita intera senza neppure sfiorare i problemi più urgenti del proprio tempo. Per ignavia, menefreghismo, meschinità di cuore, insipienza d’intelletto (…) Le vite sono incapsulate nello stretto giro delle proprie vicende biografiche. Si protesta, quando si protesta, in silenzio, fra i denti. Si tace, più per povertà di idee che per paura o per cattiveria. D’altronde, tutto, ogni frammento di esistenza personale, merita di essere considerato solo se coerente con il sistema culturale consolidato. Si vive fuori della propria epoca”.
È così che il futuro (il nostro, quello delle specie animali) arriverà però il 21 gennaio prossimo a Davos, in Svizzera, per il cinquantesimo meeting annuale del World Economic Forum.
Alcuni punti chiave del meeting sono quindi già stati pubblicati sul sito dell’appuntamento: “il mondo degli affari ha bisogno di assumersi la responsabilità del proprio impatto sul clima; abbracciare un futuro più verde aprirà a nuove opportunità di business; un approccio integrato e basato sulla natura è il miglior modo per procedere in questa direzione; negli ultimi 50 anni gli standard di vita sono cresciuti, ma a discapito del clima”.
Il riferimento agli standard di vita, per lo meno occidentale, è il passaggio più importante degli articoli introduttivi pubblicati sul sito del World Economic Forum.
Qui si punta il dito dritto alla questione, e cioè come assicurare prosperità economica al nostro futuro in un Pianeta su cui la scarsità di risorse è già entrata in una spirale discendente.
Anna Richards, Chief Executive Officer di Fidelity International cita addirittura uno storico dell’economia, R.H.Tawney, per meglio illustrare il tipo di congiuntura attuale: “Le certezze di una epoca saranno i problemi della successiva”.
E i problemi della successiva sono presto detti.
Stando ai dati della IEA (International Energy Agency) in un contributo della primavera scorsa, che fotografia il 2018: “La domanda di energia nel mondo è cresciuta del 2.3% l’anno scorso, l’incremento più rapido di questa decade, una performance eccezionale sostenuta da una robusta economica globale e da necessità più consistenti di riscaldamento e refrigerazione in alcune regioni.
Il gas naturale è il carburante preferenziale, con i maggiori introiti e un conto del 45% sulla crescita complessiva di energia”. Entro il 2050, sempre secondo la IEA, l’aria condizionata sarà il principale driver della richiesta energetica nel mondo.
Eppure, lo stesso discorso economico di Davos si regge anch’esso su una idea propagandistica di futuro.
Non siamo abituati a riflettere sul tipo di futuro che costruiamo con questo tipo di scelte. Pensando soltanto alla certezza che ci sarà un futuro, il futuro è diventato un sogno che basta a se stesso.
Nelle dittature comuniste la monocromia della propaganda era intrisa di conformismo e di omologazione. Il futuro era abbondante, perché conteneva la promessa di un destino compiuto e perfetto. Le ricette erano finalmente state trovate, non restava che applicarle.
Questa idea di futuro si fondava sul principio di redenzione di Marx. Il riscatto delle masse sarebbe passato per il passaggio di proprietà dei mezzi di produzione, che avrebbe inaugurato il riscatto di intere classi sociali.. Ma anche il capitalismo contiene una analoga promessa di rinascita.
Ogni propaganda si sgonfia all’urto della realtà. E per il capitalismo vale ciò che scrisse un grandissimo giornalista ambientale danese, Thorkild Hansen: il capitalismo comincia con la ricchezza e finisce con la povertà.
Il rischio micidiale nell’abbandono delle aspirazioni politiche che animava l’attivismo degli ambientalisti negli anni Novanta e nei primi anni Duemila è di consegnare quella domanda di giustizia ad una altra ideologia provvidenziale, che ha già un apparato burocratico pronto a stampare moduli e tabelle per un regime verde, rinnovabile, circolare.
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