Home » Tracce » La solitudine della Biblioteca Nazionale Braidense

Allo scoccare del solstizio d’estate la biblioteca Braidense di Milano diventa inagibile. Quando le temperature esterne si assestano sui 30 gradi, un caldo soffocante e tropicale attanaglia i saloni asburgici della biblioteca, solleticando la malefica colonnina di mercurio a salire, salire, salire, fino a fissarsi, imperterrita, sui 40 gradi. Ecco spiegata la condizione miserabile di questa istituzione. Ossia: la solitudine della Biblioteca Nazionale Braidense.

Con un bel cento-per-cento di umidità – ma da dove diavolo può venire l’aria stantia e umida, in un santuario che custodisce carta, pergamena e mappe geografiche? Si soffoca, in Braidense, in estate.

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Soffocano i dipendenti, che stanno a boccheggiare sotto le deboli e inutili brezze dei ventilatori, e soffocano quei due, tre temerari che ancora si addentrano nel suo cuore abbandonato per prendere a prestito un saggio o un romanzo.

Vestigia antiche, pure quelle, del tempo degli addii e del declino, come definisce la nostra epoca Apolline, la giovane geniale e devota al suicidio che nel film L’ultima Ora immagina sia ormai inutile, pure per il figlio di un ricco, puntare ad un futuro inesistente su un Pianeta al collasso. 

Questa condizione in Braidense c’è da sempre, credo, ma io ne faccio esperienza da circa sei anni e mezzo, tanti sono i cicli delle stagioni da cui ho preso a frequentare la biblioteca e la sua cronica solitudine. Già, perché la Braidense, che evidentemente non è mai stata restaurata a dovere, o coibentata, e nemmeno, questo è chiaro, dotata di moderni impianti di condizionamento, giace stremata dalle temperature di un Pianeta a 415 ppm di CO2 in atmosfera nella più sordida, stolida e becera indifferenza.

Ogni solitudine è marcata a fuoco dal sentimento che la propria dipartita sia solo una voce di bilancio per una agenzia di pompe funebri, ma la solitudine del patrimonio suona come una condanna senza appello. Non arriverà la telefonata salvifica dell’ultimo secondo.  

Non credo infatti che qui, nella celebratissima Milano dei super-ricchi che guadagnano almeno 500mila euro all’anno, sotto il giogo della tipica politica-non politica che ormai ha ridotto la vita culturale della nazione a una barzelletta, il problema della Braidense vuota e sola sia solo imputabile al Potere.

E cioè alla mancanza di volontà di rendere una istituzione di questa importanza un luogo di sapere e di incontro, vitale, tanto quanto Corso Como e la Piazza Gae Aulenti, o il quadrilatero di tavolini all’aperto di Eataly. In questi sei anni e mezzo sono andata in Braidense a qualunque orario e sempre, instancabilmente, se eravamo in quattro al banco del prestito eravamo in tanti.

In Braidense non ci va più praticamente nessuno a prender libri per legger qualcosa con sugo e costrutto, e allora non è priva di sentimento della realtà la domanda di chi si chiede perché dobbiamo pagare tasse per la sopravvivenza di un bene pubblico che pubblico, essendo disertato dai più, ha smesso di essere.

No, io credo che ce ne sia un altro di vuoto, qui. Ai cittadini milanesi, prima ancora che alla politica, non interessano i libri della Braidense. Per loro questo è un luogo spento, anzi, un luogo-non-luogo, un tempio dal quale gli dei si sono assentati epoche geologiche fa.

La Braidense in estate è il punto di collisione, o meglio, di conflagrazione, tra il nuovo assetto climatico terrestre e la sabbia che il fiume prosciugato del legame con ciò che ci ha preceduti ha lasciato dietro di sé. In altre parole, la solitudine della Braidense ben rappresenta la morte del passato. La fine della derivazione come figura culturale condivisa e collettiva: la rottura con i padri, con gli antenati, con i Lari.

La morte del passato è la cifra dominante dell’epoca dell’estinzione. Si è già detto addio al sentimento di appartenenza ad un sostrato comune, alla autorità del pensiero, della poesia e della dignità umana; non ci sentiamo più figli dell’eredità storica e biologica che si chiama evoluzione, e che ci imporrebbe, se ce ne importasse qualcosa, una preoccupazione da dichiarazione di guerra per rimediare alla distruzione del sistema climatico terrestre.

Non siamo cioè dinanzi solo ad una avanzata politica dell’incuria e del degrado. Siamo di fronte all’interruzione del legame fondativo con ciò che ci ha preceduti: i libri hanno fatto la stessa fine dei grandi primati africani, tutti, ormai, ad un passo dall’estinzione. È l’ignoranza di un presente che si pretende onnisciente. 

Siamo, del resto, lo abbiamo appreso il mese scorso, la nazione europea con il più alto tasso di analfabetismo funzionale. Il 70% degli italiani legge un testo scritto, ma non è in grado di comprenderlo.

Perciò ieri, che era il 20 luglio, anniversario a cinque decadi dello sbarco sulla Luna, Tomaso Montanari ha scritto: “La luna che vogliamo sta tutta in una fotografia scattata durante lo sgombero di Primavalle, a Roma. La foto di Rayane: che è nato in Italia da genitori marocchini (lei badante, lui venditore di cose vintage, a Porta Portese), ha undici anni e viveva in una casa occupata.

E che in quello sgombero ha perso la sua gattina, ma non i suoi libri. Che ha portato fuori con sé, sfilando davanti alla polizia della Repubblica italiana con una dignità e una carica di futuro che non si vedevano da tanto tempo, sulla scena pubblica.La luna che vogliamo è un paese con un tasso di alfabetizzazione tale da non permettere che un numero rilevante di cittadini siano convinti che quella foto è una montatura dei giornalisti di sinistra”. 

La solitudine della Braidense, del pari del Pianeta sempre più caldo e dell’estinzione della biodiversità, sono una nostra responsabilità.

E se è chiaro che viviamo ormai in un mondo di macerie, e che è con queste macerie che siamo costretti a confrontarci, rimane almeno in alcuni di noi quel colore europeo, quella Stimmung, che Friedrich Hoelderlin colse così bene sul finire del Settecento, come sempre gli accadeva, tornando con i suoi versi all’Atene dei Padri: “Ancora vive e regna e pensa l’anima / degli Ateniesi, silenziosa tra gli uomini, / se pure il saggio giardino di Platone/ non ha più verde lungo il fiume antico / e i bisognosi arano le ceneri / degli Eroi e l’uccello della notte / piange luttuoso sopra le colonne”.

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