Alle 10.40 mancano solo 20 chilometri al Twee Rivieren, il gate di ingresso al Kgalagadi. Un gruppo di San in evidenti condizioni di povertà piantona un albero di acacia e un vecchio mima una danza rituale. Il suo corpo è di una magrezza estrema, ha perso il tono muscolare agile e scattante della sua gente, tipico dei cacciatori raccoglitori. Comincia a diventarmi tutto chiaro. Twee Rivieren: il XXI secolo alla sbarra.
E’ una scena deprimente. Fa a pugni con un cartello allegro e vivace che annuncia una “farm kitchen”, probabilmente uno di quei latifondi ormai così diffusi in Sudafrica dove si allevano specie selvatiche a scopo commerciale.
Ci sono ancora vacche e capre che pascolano sulla sabbia nei pressi di alcuni kraal di pastori, e siamo ormai a soli 15 chilometri dal gate.
Le case sono capanne in lamiera, che però hanno elettricità da pannelli solari. Un certa cupezza tenebrosa circonda questi insediamenti rurali.

Eppure, qualcosa di inesorabile sta già accadendo, e il conta chilometri non può fare altro che accompagnarne l’approssimarsi. Il confine con il parco risucchia il ventunesimo secolo, lo interroga e si prepara a presentarci l’atto di accusa.
Saremo pronti ad accettarla? Siamo davvero sicuri di avere abbastanza energie psicologiche per fronteggiare l’immensità ancora viva di ciò che pur sta ormai scomparendo dalla maggior parte del Pianeta?
Siamo disposti a prenderci la responsabilità di vedere ciò che vedremo? Da dove proviene ciò che dimora dentro il Kgalagadi? Dopo due anni di ricerche, non ne sono più così sicura.

Almeno una risposta s’è presentata. Nel corpo emaciato del vecchio San, nella carcassa dello sciacallo spappolato sull’asfalto, nelle ossa dello springbok e nei cespugli turchesi del veld che Davide ha affettuosamente chiamato “gli alberi blu”.
La vita viene dal tempo, dalla vertiginosa profondità di tutto ciò che è già morto alle nostre spalle, dalla continuità che lo scomparire ritmico di milioni di esseri viventi vegetali e animali produce attraverso la loro estinzione perenne.
Ciò che persiste trova la sua continuità in un indomabile assentarsi delle cose. Ciò che è perduto per sempre riempie di sé ciò che rimane. Questa assenza è il territorio selvaggio dentro noi umani.

Parcheggiamo la Duster nel piccolo parcheggio dove è obbligatorio sostare prima di aver sbrigato le formalità burocratiche e amministrative di ingresso nel parco.
Un bungalow di canne di bambù e muratura ospita entrambe le autorità di frontiera del Kgalagadi, la Repubblica Sudafricana e il Botswana.
Il simbolo del Sudafrica è il gemsbok, la poderosa gazzella dal manto grigio-lilla e le corna simili a sarisse persiane, mentre l’araldo del Botswana è il licaone, il cane selvatico.
Paghiamo le fees del parco in Rand e ritiriamo una seconda mappa, insieme a materiale informativo del SanParks, l’ente governativo di gestione del parco per il Sudafrica. Il leone è il dominatore assoluto dell’Impero in cui ci apprestiamo ad entrare.
Eppure, la stessa rivista del SanParks tace sulle ragioni più strutturali per cui i leoni del Kgalagadi sono così importanti per il futuro della specie.
Queste ragioni coincidono con le caratteristiche stesse del Kgalagadi. Una porzione di deserto del Kalahari composto da almeno 20 differenti paesaggi che corrispondono ad altrettanti tipi di vegetazione.
Tutto questo rispecchia un tipo di leone: il leone criniera nera del Kgalagadi.

Bruce Patterson del Field Museum di Chicago ha studiato a lungo la plasticità ecologica del leone.
“Gli studi su un singolo ecosistema necessariamente generano una visione incompleta della specie. Non possono rendere conto del numero di unità evolutive, spiegare le contrastanti informazioni sul comportamento, l’ecologia e anche l’aspetto. Non possono neppure determinare i membri della specie, lo status e le minacce in tutto il range.
I leoni variano in modo impressionante nella morfologia, nella genetica, nei comportamenti e nell’ecologia” ( On the nature and significance of variability in lions – Panthera leo, Evolutionary Biology (2007) 34:55-60).
Queste sono le ragioni poco conosciute dal pubblico per cui il paradigma di conservazione del leone sta cambiando.
Oggi le prospettive di protezione della specie sono discusse per “landscape” e cioè per popolazioni.
Innanzitutto perché la specie è ormai molto frammentata sotto l’equatore (anche nelle strongholds) e questo vuol dire che è il contesto geografico (landscape) che deve essere ripristinato per dare più chance al leone. E poi perché ogni popolazione è straordinariamente adattata agli ecosistemi in cui sopravvive.
Il ragionamento per landscape è utile anche per progettare l’auspicato ampliamento delle aree da proteggere: ci sono molte regioni adeguate ad ospitare il ritorno dei leoni.
In definitiva, comprendere sempre di più e sempre meglio come singole popolazioni, come quella del Kgalagadi, si muovono, cacciano e si riproducono è di vitale importanza per progettare la protezione del pool genetico dell’intera specie.

Accanto al leone, nel Kgalagadi prosperano le cosiddette “serie complete” di erbivori e un numero enorme di onnivori e carnivori opportunisti.
Quando la sbarra del check point documenti si alza e ci lascia passare il confine è ormai superato. Come gli intrepidi trekker boeri, anche se ad anni luce dalla loro mentalità e dal loro ardimento, non torniamo più indietro.

Il Twee Rivieren è l’ultimo avamposto prima del deserto e i pochi turisti che sostano qui in questo momento dell’anno hanno a disposizione dal SanParks attrezzature per il barbecue e qualche alloggio coperto anche se rudimentale, in caso di necessità.
C’è una pompa di benzina, l’ultima fino al Nossob Gate, e un negozio di generi alimentari.
Frutta sciroppata, minestre essiccate Knor, acqua potabile, pies di cipolle e pollo, e anche pelli di springbok conciate per diventare tappeto.
Mangiamo con gli scarponi che affondano nella sabbia color crema delle dune del Twee Rivieren.

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