
Un hamburger da Steer nella notte di Upington. Quanto ridicolo è il vegerarianismo occidentale quando ci si trova nella notte scura di una piccola città africana.
Sono le sette di sera e il centro di Upington è piombato in un buio nero. Credo di non aver mai cercato un posto in cui cenare in una tenebra così fitta. Il freddo s’è fatto pungente, non ci sono più di dieci gradi. I lampioni sono pochissimi.
Le strade a tal punto deserte di ogni presenza umana che sembrano vivi i manichini senza testa delle vetrine illuminate in un grosso magazzino di abiti in poliammide a basso costo. Gonne e camicette imitano la moda di Londra e Milano.
Anche qui, le ballerine finto Tod’s. I rivenditori di suv lussuosi – Volkswagen, Mercedes – brillano nella notte, testimoni di quanto sia evidentemente importante ad Upington e dintorni poter contare su una macchina di una certa cilindrata.
La notte è compatta e insondabile. Non abbiamo molta scelta se non entrare da Steer, in Scoot Street, un fast food sudafricano che promette cibo di ispirazione americana.
Il locale è vuoto, e ci lavorano solo donne. Avranno una trentina di anni, indossano una divisa di un blu stinto e hanno per noi una certa riservatezza ruvida, con cui non è per niente facile entrare in sintonia. Ma non per via dell’accento inglese anni luce dal Brit Oxford. C’è qualcosa di respingente che si sforza di mostrare gentilezza senza riuscirci.
Un televisore acceso diffonde musica rap di cantanti neri sudafricani, ostentatamente allegri, grintosi, decisi a dire la loro al mondo.
Ordiniamo un paio di hamburger e mentre aspettiamo entrano alcuni giovani che prendono un gelato alla vaniglia incappucciato da una glassa arancione.
Dietro il bancone si intravede la cucina con un grill per gli hamburger e le bistecche e un bidone di latta per l’olio da frittura. Il buio totale dell’esterno penetra nel fast food.
Questo cibo, penso, non è africano. E’ un cibo globale, conformista, ben adattato, come una specie generalista, standardizzato fino a parlare tutte le lingue. Eppure è buono.
La carne del nostro hamburger non proviene da vacche allevate in batteria. Il sapore trattiene il profumo delle erbe del pascolo all’aperto. Oppone resistenza al gusto pastorizzato del cheddar. Le patate sono state fritte pochi minuti prima. C’è qualcosa di biblico in questo hamburger.
L’essere umano combatte le sue battaglie, giuste o infami, anche nel cibo che produce, che predilige e che impone ad altri popoli. Qui a Upington si mangia all’americana, all’inglese, così come si parla afrikaans e inglese.
Ma in fondo, se approfondisci l’antropologia linguistica del North Cape, frammenti sperduti delle 23 lingue San quasi completamente estinte dopo i genocidi dell’Ottocento e la legislazione razzista del secolo scorso spuntano tra i cespugli del veld, negli interstizi tra le palme e i muri bianchi delle ville sul fiume.
E anche nel tuo cervello che non conosce una parola di questi dialetti perché non ha mai studiato una sola pagina di storia africana in almeno 15 anni di scuola, lassù, in Europa.
Prima di partire avevo letto decine di paper sulla necessità di poter contare su habitat sempre più estesi per proteggere la megafauna rimasta sul nostro Pianeta, in Africa. Tutto vero.
Ma adesso, con il buio della notte alle spalle, mentre Davide aggiorna i suoi followers su Instagram, non sono più così sicura della mia documentazione scientifica. Non è abbastanza.
Mi occorre anche uno spazio mentale per l’eredità coloniale europea in mezzo alle genti del North Cape. Non sono preparata per questo, nella stagione urlata delle migrazioni che inondano Lampedusa, le coste spagnole e il confine francese prima dell’imbarco per La Manica e l’Inghilterra.